Vai al contenuto

I boss della Madunnina

L’articolo è stato pubblicato su LEFT  n.49 del 5 Dicembre. Il pdf qui.

Quanta irresponsabilità politica e civile c’è dietro l’antico refrain tutto lombardo “qui da noi la mafia non esiste”? una distesa: una distesa coprente e silente a forma di regione sopra una regione che non si vuole riconoscere. La sindachessa di Milano Letizia Moratti sente pronunciare “mafia” e risponde “allibita e preoccupata perché su Milano c’è un’aria strana di cose che francamente non appartengono, per fortuna, a questa città”;  è la solita vecchia eco tranquillizzante che rimbalza, il “non vedo non sento non parlo” che tranquillizza il popolo del Campari e dell’Expo mentre la Lombardia diventa l’eldorado di un modernissimo cartello di mafie.
Nel 2005 due giovani giornalisti lombardi, Fabio Abati e Igor Greganti, decidono per passione di unire le proprie competenze e la passione comune per l’inchiesta (quella che consuma suole, tranquillità e cervello) in un documentario su quello che lo stesso Abati definisce “il tema con la T maiuscola”: le mafie a casa loro. Nasce così “La leonessa e la piovra”: cinquanta inaspettati minuti di testimonianze della malavita in Lombardia  (con un occhio di riguardo per la zona bresciana) che costruisce, ricicla, spara e prolifera  con il racket e l’usura. La stessa criminalità, la stessa puzza, lo stesso sangue ma con l’abito buono. Il video riceve una menzione al premio “Ilaria Alpi” ma i due si sentono dire che “il progetto è poco vendibile perché troppo locale”. Non è una novità: la mafia senza coppola e lupara si vende poco, male e mina la tranquillità della piccola borghesia lombarda.
Nell’agosto 2006 a Brescia viene ucciso Angelo Cottarelli: lo trovano sgozzato e con le mani legate con fascette da elettricista nella sua villetta all’ingresso della taverna, di fianco su un divanetto ci sono la moglie polacca Marzenne Topar e il figlio diciasettenne Luca. Il procuratore della Repubblica Giancarlo Tarquini parla  di “sterminio mafioso ad opera di un commando mafioso trapanese”. Vengono rinviati a giudizio Vito e Salvatore Marino: alla base della strage di agosto, secondo la ricostruzione fatta dagli inquirenti, ci sarebbero dei vecchi litigi tra la vittima e i fermati che sarebbero stati complici in una serie di truffe ai danni dello Stato per diversi milioni di euro. Cottarelli, hanno accertato gli inquirenti, avrebbe preparato delle fatture false per gonfiare il giro d’affari di alcune cantine, in modo da far ottenere fondi dallo Stato e dalla Regione siciliana. Una pratica illecita alla quale Cottarelli a un certo momento ha deciso di sottrarsi, scatenando l’ira omicida dei suoi ex complici. A inchiodare i malviventi sarebbero state le tracce di polvere da sparo trovate su un’auto che i cugini Vito e Salvatore Marino hanno noleggiato a Milano una volta arrivati in volo dalla Sicilia. Brescia si risveglia con un brivido alla schiena: la notizia esonda dai trafiletti di cronaca locale e Abati e Greganti si mettono a seguire il filo rosso della malavita tra Milano, Verona, Brescia, Bergamo, Varese fino più giù in Emilia Romagna e ad appuntare tutto su un libro dal titolo illuminante: Polo Nord, la nuova terra dei “padrini” del Sud.
Ne esce un quadro allarmante e approfondito di una regione che trascura per presunzione un tumore di mafie che si attecchisce tra le corde del Pil più fiorente d’italia e sbriciola le sue metastasi tra night, cantieri, commercialisti faccendieri ,industrialotti con l’acquolina per il denaro facile e aziende e prestanome a lavare il denaro sporco. Ed è un invito accorato ad una presa di coscienza urgente: le mafie al Nord operano in una preoccupante forma di cooperazione, tutte insieme, da Cosa Nostra alla Camorra passando dalla Ndrangheta. Unite per non fare rumore, in pace per una conquista rapida ma discreta e inevitabilmente da fermare. Subito. In tempo prima che possano sedersi ed infiltrarsi nelle stanze dove il controllo sarebbe pressoché totale.
Ma perché proprio Brescia? La risposta è semplice: nella  zona del basso Garda arrivano i boss mandati al confino, qui si trasferiscono alcuni appartenenti della cosca dei Piromalli (che per conto della Ndrangheta controllano il porto di Gioia Tauro) e nella zona passando dall’Emilia Romagna arrivano braccia per la manodopera nei primi anni 90. Un intero paese (Cutro , provincia di Crotone) si trasferisce al Nord. I nuovi arrivati dopo un breve periodo di ambientamento si riorganizzano e si attivano su più fronti. Così nella zona del basso Garda i Piromalli prendono il controllo dello spaccio di droga, del riciclo di denaro sporco, della prostituzione, dei locali notturni e del racket. Non lontano da loro a Bergamo opera la ‘ndrina dei Bellocco, ma al nord non ci si fa la guerra come al sud, anzi qui al nord c’è così tanto da fare e da mangiare che Bellocco e Piromalli si alleano come nei migliori romanzi rosa scambiandosi manodopera e favori. Perché i Bellocco sono gente da tenersi buona, abili come sono nel recupero crediti (con il mitologico “Tyson” citato in alcuni atti giudiziari o con pettorine da falsi finanzieri recuperate per l’occasione) e qui al nord, galassia di piccole aziende a conduzione spesso famigliare, recuperare una fattura può determinare la sopravvivenza dell’attività. Così un’imprenditoria assolutamente disabituata alla criminalità organizzata (se non per quel paio di fiction in prima serata) comincia ad essere attratta della facilità e dalla penetrazione della “recupero crediti Bellocco” e comincia a mischiarsi in un conato torbido che arriva a costare fino al 50% del denaro recuperato; e poi le minacce e un intreccio che non ci si riesce più a scrollare.
Ma Cosa Nostra non vuole essere da meno. Al nord si trasferiscono i Rinzivillo, famiglia gelese attiva nel mercato delle carni nonchè fiancheggiatori attivi della latitanza di Zio Binnu Provenzano, che negli anni ’90 decidono anche loro di “diversificare” aprendo un’ impresa edile a Perugia. E da subito prendono appalti che contano con la supervisione del loro “coordinatore in trasferta” Angelo Bernascone di base a Busto Arsizio. Nel 2005 strappano un appalto da 4 milioni di euro presso la centrale termoelettrica di Tavazzano con Villavesco vicino a Lodi. Un affare grosso, tanto da meritarsi una prestanome giovane con la passione delle belle macchine che si stabilisce in un ufficio proprio a Tavazzano all’inizio di via Verdi. Bernascone si muove al nord con una scioltezza e tranquillità che sarebbe inimmaginabile giù in Sicilia (anche se al telefono  in un momento di saudade gelese dice che “Busto è come Gela, il bordello che c’è qui tra poco viene fuori”). In un momento di “onnipotenza” il Bernascone arriva al cantiere di Tavazzano come mediatore sindacale per calmare gli operai manifestanti. Pettinato e intervistato dai quotidiani locali: un trionfo di nordicità. E non potevano i Rinzivillo non allearsi anch’essi con i Piromalli per le truffe finanziarie sulla legge 488 del 92; tant’è che con un bel giro di fatture false per accedere ai finanziamenti per le zone depresse si dice che i Rinzivillo abbiano tirato fuori qualcosa come 2.000.000 di euro.
E poi ci sono i morti. Quei campanelli che ci dicono che la metastasi è cronica e che il “Polo Nord” comincia a vomitare i segnali di guerra: quella guerra che si fa sentire quando è troppo tardi per capirla. “Polo Nord” è un libro indigeno meravigliosamente inaspettato. Coraggioso in una regione dove questo coraggio non paga e non fa notizia. Pungente abbastanza da meritarsi una telefonata all’editore (Selene Edizioni) con un “invito” a ritirarlo dal mercato.
“Polo Nord” è un libro che è un avvertimento: ad aprire gli occhi, a spegnere gli stereotipi, a rimboccarsi le maniche per una battaglia che c’è da fare. Subito. Qui.