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LA BELLEZZA SALE SUL PALCO E SFIDA LA MAFIA

Giulio Cavalli è un uomo di 32 anni con lo sguardo fiero di chi detesta le banalità, gli orpelli di un mondo pronto ad etichettarti per isolarti, per darti dei limiti ben definiti. Giulio quei confini li ha attraversati, nella consapevolezza che ciò è quanto di più naturale per chiunque svolga il proprio lavoro immergendosi nella realtà, a maggior ragione se quel lavoro è fatto di arte e cultura, di parole, di gesti. Il teatro, sin dalle sue antiche origini, svolge innanzitutto una funzione sociale, vive dentro la società che racconta. Negli anni qualcuno lo ha dimenticato, cercando di sterilizzarlo, di lasciare spazio solo all’estetica, dimenticando quella funzione primaria che altri esaltano attraverso la denuncia, usando spesso la forma dell’invettiva comica che prima fa sorridere e poi svela tutta la sua tragica verità. Giulio, da grande autore, oltre che regista e attore, mescola il sorriso e l’ironia con le parole dure e terribilmente vere dei suoi monologhi, parole messe insieme con una maestria rara, che rievoca il pensiero e la penna di gente come Giuseppe Fava o Roberto Saviano.

E la forza delle parole che Cavalli affida al suo teatro ti scuote, ti colpisce allo stomaco, ti emoziona. Ascoltare la lettera ad un estorsore o quella per spiegare al proprio figlio la strage di via D’Amelio è un esercizio di coscienza civile, una coscienza che nasce dal rifiuto di ogni ingiustizia, prima fra tutte quella di un’Italia che, da Nord a Sud, è stretta nella morsa delle mafie, le stesse che minacciano di morte Giulio perché non sopportano gli sberleffi e le denunce di chi sa arrivare alla mente e al cuore della gente con le proprie parole e con il proprio lavoro quotidiano. Non poteva che essere lui, allora, il vincitore del “Premio Fava – Giovani 2010”, consegnatogli il 4 gennaio a Palazzolo Acreide (Sr). Proprio in occasione del Premio, abbiamo conosciuto Giulio, con il quale, nell’intervista gentilmente concessaci, abbiamo parlato di tante cose, dal ruolo del cosiddetto “teatro civile” alla mafia, all’informazione.

Perché il teatro come mezzo di denuncia e di lotta contro la mafia?

Perché sposta una battaglia culturale su un campo che è quello della bellezza, dell’arte, ed è un campo in cui difficilmente la mafia riesce a rispondere. Perché se è vero che si è professionalizzata nel comprarsi gli avvocati migliori o nel parare anche l’informazione più acuta, sul campo della bellezza non sa come reagire oppure reagisce in modo scomposto.

Un attore teatrale che fa paura alla mafia. Come te lo spieghi?

Con il fatto che loro non sono mai andati a teatro, non sanno che cos’è. Penso che alla mafia interessi pochissimo di Giulio Cavalli e più che altro si stia interrogando (senza trovare una risposta) sul perché il mio lavoro, come quello di moltissimi altri, riesca a raccogliere un consenso così grande. Quindi, in realtà siete voi il problema della mafia. Quando se ne renderanno conto verranno a minacciarvi e avranno risolto il problema.

Come dice Saviano, la criminalità ha più paura dei lettori che di chi scrive…

Certo. Perché stiamo parlando di una mafia che veramente ha imparato a parare i colpi anche delle più intelligenti inchieste della magistratura. Il problema è che è una partita di cui non conoscono le regole. Tutti i prepotenti hanno paura di ciò che non conoscono e la paura di una persona che di professione fabbrica paura porta poi a risultati assolutamente comici come quello di temere teatranti, scrittori, ecc.

Si parla molto di “teatro civile”. Una volta Bebo Storti mi disse che la libertà di questo tipo di teatro viene troppo spesso ostacolata. Qual è la tua opinione al riguardo?

Secondo me, il teatro civile non esiste. È un’invenzione, una categorizzazione di una certa parte di stampa e di opinione pubblica che sembra quasi che abbia sentito il bisogno di giustificare il fatto che alcune persone di cultura, con il teatro, con la letteratura, con altre forme hanno messo in pratica l’idea di poter mandare un messaggio che non sia prettamente estetico. Ma è una pratica antica in Italia. Il problema è che le cose normali e consuete stanno diventando eccezionali. Sicuramente c’è una certa impermeabilità del mondo del teatro. Ma è inevitabile, perché il teatro cosiddetto civile, come quello di Bebo, Renato (Sarti ndr) e di tanti altri, è un teatro che prende posizione e quindi molto spesso parla di politica. E la professione teatrale in Italia è un lavoro politico, perché dipende dai finanziamenti della politica. E allora è inevitabile. È vero che il giullare fa ridere il popolo smascherando il re, qui invece bisognerebbe riuscire a far ridere il re smascherandolo.

Tu utilizzi l’ironia e il sarcasmo per parlare di mafia e non solo. Viene da pensare a Fo, Chaplin, Benigni, Totò, i quali dietro la comicità e la risata nascondono una grande amarezza. Cosa c’è dietro il sorriso di Giulio Cavalli?

Il problema principale è evitare di diventare un’icona, correre il pericolo di mettersi a “raccontarsi” piuttosto che raccontare storie. Ed è un onanismo culturale in cui spero di non cadere. Poi, non c’è niente di più tragico della comicità. È la capacità di prendersi poco sul serio. In un Paese normale i giullari dovrebbero raccontare qualcosa che si sa secondo un’ottica stupefacente. Oggi, invece, se ci pensi, succede che i giullari si mettono a fare informazione. Ma è un compito che noi espletiamo se siamo in grado di rimanere sempre puliti e inconsapevoli, nel senso etico del termine. Per cui dietro il mio sorriso c’è la bellezza di portare sul palco la bellezza, e l’assurdità tragicamente comica di doversi ritrovare a rivendicarla.

Dopo le minacce, qual è stata la reazione della gente comune?

Ci sono diversi tipi di reazione. C’è la solidarietà pelosa e voyeuristica, ed è una delle cose che più mi innervosisce dopo la mafia. C’è però anche una reazione positiva che mi rende ottimista. Ottimista proprio in quei posti che la mitologia mafiosa e antimafiosa italiana ci descrive come quelli più oscuri o più in difficoltà. Considero un grande privilegio lavorare con i ragazzi di Addiopizzo o di Libera nei luoghi più difficili. Poi c’è una reazione completamente diversa al Nord (perché purtroppo il federalismo culturale ha attecchito), dove invece c’è una certa impermeabilità. Però, diciamo che ho spesso la sensazione meravigliosa di essere una parte di un lavoro che è portato avanti da un Noi piuttosto esteso ed è uno dei migliori modi per non sentirsi soli culturalmente.

C’è dunque una legalità che si basa sulla forza delle parole. Secondo te quanto le parole sono importanti rispetto all’azione?

La parola è azione, è una delle azioni indispensabili. Il problema è che affinché sia azione la parola non deve essere figlia unica di nessuno. La parola orfana è sicuramente la più potente. Secondo me è fondamentale che la parola recuperi il suo valore spersonalizzato da chi la racconta. E invece noi siamo in un paese in cui, soprattutto ultimamente, si corre il rischio di aumentare lo spessore delle persone o delle parole per fatti che sono veramente banali. Io ogni tanto ho il dubbio di avere più credibilità magari perché ho una scorta. Invece poi c’è una parola che è azione effettiva ed è fondamentale. Tieni conto che chi fa il mio lavoro non fa altro che raccogliere le parole degli altri. Per cui noi siamo quelli che una volta erano i robivecchi, liberiamo le soffitte e cerchiamo di rivendere gli oggetti perché possano avere ancora forma.

La cultura può essere più importante di altri settori nel combattere la mafia?

No. Credere che esista un settore che più di altri può sconfiggere le mafie è una tattica assolutamente suicida. Il teatro può essere un ottimo accompagn
amento al lavoro della magistratura, delle forze dell’ordine e soprattutto della società civile. È un seme che poi deve assolutamente fiorire nei numeri e nella più vasta area possibile della società civile.

Parlando di informazione, ci sono molti fatti che quotidianamente vengono nascosti o distorti. Come vedi il problema dell’informazione in Italia?

Ci sono due problemi di fondo. Innanzitutto c’è un problema prettamente tecnico ed è quello che è assurdo che possano esistere un giornalismo e un’editoria visto che non esistono editori. E questo è un problema tra l’altro in un paese che invece ha fatto la propria grandezza su editori, direttori o fondatori di giornali. A me quasi commuove sentire Concita Di Gregorio, con cui mi è capitato fare dei convegni, che dice:  “Io ogni volta che entro in redazione penso che sto dirigendo il giornale di Gramsci”. È una frase di una semplicità talmente prepotente in un mondo invece di codardia come questo. Ci sono professioni, come quelle dell’informazione, in cui la professionalità  è fondamentale. E professionalità non vuol dire avere uno stipendio. Vuol dire esercitare il proprio lavoro professando i propri ideali. Ecco, la professionalità del giornalismo manca da questo punto di vista. Il secondo aspetto, invece, è la presenza di una vacuità politica che non fa altro, su qualsiasi fatto, che trasformare le posizioni che qualcuno decide di prendere e strumentalizzarle.

Nel tuo spettacolo leggi una lettera a tuo figlio per spiegare via D’Amelio…

Penso che ci sono dei lutti che una società dovrebbe imparare a rispettare senza nessuna strumentalizzazione e bisognerebbe tra l’altro cominciare a capire che farsi carico dei lutti vuol dire non scavalcarli. Sono proprio a livello verticale due posizioni completamente opposte. Una volta che tu hai educato per così tanti anni alla narcotizzazione la gente, ci vorranno almeno gli stessi anni, ottimisticamente, per cambiare le cose. E non è il teatro che riesce a risolvere questo problema.

Nel fare il tuo lavoro ti sei trovato minacciato dalla mafia e costretto a vivere sotto scorta. Come vedi il tuo futuro sul piano lavorativo e personale?

Giovanni Falcone diceva che nella lotta alla mafia ti trovi o per caso o per destino. Secondo me nel mio destino c’era il caso di trovare la mafia. Io penso che sia un impegno abbastanza totalizzante. Vedo il mio futuro assolutamente fedele a me stesso, continuando tranquillamente a svolgere il mio lavoro. Non ho conosciuto la mafia con le minacce. Ho conosciuto l’antimafia, ed è questa che porto avanti. Perché, con tutti i suoi difetti, con i pettegolezzi da camerino, comunque è un movimento che funziona abbastanza bene. Continuerò a farlo. Sono molto ottimista.

Nello spettacolo parli di mafia del Nord e di mafia del Sud. Ci sono differenze?

Al nord esistono sindaci che riescono a rimanere impuniti dicendo delle frasi che, se tu immagini, a Corleone da 40 anni nessuno può più dire. E quindi il problema non è tanto la mafia. La mafia, a Nord o a Sud, è sempre la stessa. È inevitabile che cosa nostra venga ad investire al Nord, perché è matematico che i soldi si possono nascondere solo in mezzo ad altri soldi ed è lì che ci sono. Anche se in realtà sia cosa nostra che la camorra, oggi al Nord, e per Nord intendo soprattutto Milano e Lombardia, sono al servizio della ‘ndrangheta. Ed è questo un fenomeno, ad esempio, che si fa fatica a raccontare. E allora quella curiosità sfacciata dell’antimafia, ad esempio siciliana, secondo me qui non serve più e andrebbe trasferita in blocco lì. Proprio per questo succede che, ad esempio, mentre qui uno spettacolo di satira può attaccare e fare male, invece in Lombardia non funzionerebbe mai ed anzi rischierebbe di alimentare la mitologia di cosa nostra in un modo abbastanza pericoloso, culturalmente criminale.

Tu hai detto di ispirarti a Pippo Fava. In realtà, se ci soffermiamo sulla somiglianza o comunanza nei modi e nei mezzi usati, viene in mente Peppino Impastato. Come vivi la “vicinanza” con l’indimenticabile ragazzo di Cinisi?

Io sono molto amico di suo fratello Giovanni. A Cinisi ho scritto il mio spettacolo Do ut des, quindi penso di aver respirato abbastanza la storia di Peppino. Una delle cose che mi ha sempre lasciato perplesso della vicenda di Peppino Impastato, così come anche delle vicende di molte icone dell’antimafia, è che si pensa di rispettarle celebrandole e non portando avanti quello che ci hanno insegnato. In realtà, che la scrittura facesse paura Peppino ce lo ha insegnato e detto 30 anni fa. Quindi, secondo me, la cosa più normale era riprendere quella lezione. Se vicinanza vuol dire che abbiamo volutamente attinto alla figura di Peppino, pur con la rispettosa distanza che umilmente crediamo di avere, allora sì, possiamo parlare di vicinanza.

Ad un ragazzo che ha sensibilità e consapevolezza di ciò che è la mafia e che vorrebbe far qualcosa nel suo piccolo contro di essa, cosa consigli?

Studiare. Penso che studiare sia alla base. Pensare che le sentenze sono pubbliche e, tra l’altro, facilmente reperibili su internet. Andare in giro a ricordare, perché è impossibile avere una visione approfondita del presente senza conoscere il passato.

Pensi che le cose possano cambiare in un futuro non troppo lontano?

Io sono convinto che le cose cambieranno. Sinceramente io penso che, anche solo sulla consapevolezza dei fenomeni mafiosi, negli ultimi due anni sono state fatte delle cose meravigliose. Il problema è che l’Italia è sempre stato un paese che ha avuto bisogno di eroi. E siccome è sempre stato un paese che ha una memoria più o meno pari a quella di un pesciolino rosso, allora gli eroi devono essere pochi. E così è finita che nel momento in cui si sono cementati come eroi unici Falcone e Borsellino si è stuprata l’idea che di questo fenomeno Falcone e Borsellino avevano e cercavano di trasmettere. Bisogna cominciare a recuperare le vittime di mafia non riconosciute.

C’è qualcosa che la gente può fare nel suo piccolo per combattere la mafia? Ognuno avrà la propria coscienza che gli dirà cosa fare. Penso comunque che non sia molto difficile, perché cercare il bene comune dovrebbe essere una delle predisposizioni che appartengono all’essere umano. Visto che appartiene ai cani, ai maiali, ai canarini, all’edera, mi sembra inspiegabile che non appartenga all’uomo.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org
http://www.ilmegafono.org/legalit%C3%A0/legalit%C3%A0.htm