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Ottobre 2013

Ciao Salvatore Coppola

coppolaE’ morto Salvatore Coppola, editore indipendente nell’accezione più pura. Ho avuto l’onore di essere pubblicato nei suoi “pizzini della legalità” anni fa, in quella sua collana che voleva rispondere ai pizzini di Provenzano con i pizzini che sanno di letteratura. Nel suo lavoro ci vedeva tutta la missione di un editore che vuole migliorare il proprio paese e in fondo, per la sua giusta parte, ci è anche riuscito.

Come gli scrive Pietro Orsatti:

Sei stato l’ultimo editore, pezzo di mondo freack e impegno civile. Figlio degli anni ’60, ma senza quella patina ideologica che ci ha rotto a tutti abbondantemente i coglioni. Hai amato i libri che hai pubblicato come figli, la carta su cui li hai stampati come pelle di un’amante, l’inchiostro come sangue che è possibile versare quando ne vale la pena.

 

Il buonismo tardivo per Lea Garofalo

Riporto le parole di Marisa, sorella di Lea Garofalo:

«Mi chiedo se si sia fatto poco a livello istituzionale, me lo chiedo perché mi tormenta il pensiero che tutto questo si sarebbe potuto evitare. Quando c’è stato il suo tentato rapimento, Lea ha denunciato. Quando le hanno chiesto chi poteva essere stato, lei ha fatto il nome di Cosco. Quando ha dovuto testimoniare contro suo fratello e contro il padre di sua figlia, lei ha testimoniato, perché – come ha avuto modo di scrivere – voleva una vita libera e un futuro migliore per sé e sua figlia. Ma per fare qualcosa hanno aspettato che morisse. La chiamavano collaboratrice di giustizia invece di testimone, facendo così in modo che si sentisse marchiata. Voleva far cambiare il cognome alla figlia e non c’è riuscita. Quando le spostavano da un posto all’altro, perché nei pressi della loro abitazione notavano presenze particolari, cadeva nello sconforto e si chiedeva come avessero fatto a sapere dove abitavano. Neanche io lo sapevo. Allora i suoi timori aumentavano e non si fidava nemmeno della scorta. Lei non è stata zitta. Ha continuato a denunciare, sempre e nonostante tutto».

(da La figura rimane, di Doriana Righini in Contro Versa, autrici varie, sabbiarossaED, Reggio Calabria 2013)

Offelee, fa el tò mestee

In milanese si usa dire Pasticciere, fa’ il tuo mestiere (pensatelo con tono esortativo, mi raccomando) per significare l’importanza del rispetto del proprio ruolo, della professionalità del proprio mestiere e invitare a non occuparsi di cose che non sappiamo, che non siamo e che non ci appartengono. Quando ho letto la notizia del Comune di Giussago (PV) che ha deciso di “fare la banca” occupandosi di microcredito per i suoi cittadini mi è tornata in mente subito la storia dell’offelee che decide di occuparsi di altro, ma questa volta con una grande ma desolata solidarietà. Se un comune sostituisce le banche in un Paese (o forse sarebbe meglio scrivere in un’Europa) in cui le banche fanno solo finanza significa che a qualcuno viene richiesto di fare più del “suo” perché inevitabilmente qualcun altro latita.

Non credo in un’Italia che sopravviva grazie agli “slanci” di qualcuno e le basti così, proprio no. Con tutto l’affetto per Giussago, chi lo celebra ne ha diritto solo dopo avere denunciato un sistema bancario inaccettabile.

Quindi quella di Lea Garofalo non è antimafia

Sono basate anche sulle dichiarazioni di Lea Garofalo, la testimone di giustizia fatta uccidere a Milano dal marito, Carlo Cosco, le indagini che hanno portato all’esecuzione di 17 arresti da parte dei carabinieri del Comando provinciale di Crotone nei confronti di affiliati alla ‘ndrangheta. Lea Garofalo, prima che il marito la facesse sequestrare e uccidere, aveva fornito un importante contributo per svelare gli affari delle cosche della ‘ndrangheta del Crotonese. Tra i criminali finiti in manette anche Nicolino Grande Aracri, ritenuto il capo dell’omonima cosca di Cutro.

La notizia di oggi è l’arresto di 17 persone grazie (anche) alle deposizioni di Lea Garofalo e fin qui tutto bello: come sappiamo ricordare e onorare i morti nessuno mai. Leggo le diverse testate e colgo subito al primo impatto che tutte parlano di “arresti mafiosi”, “colpo alla ‘ndrangheta” e così via. Tutto bene se non fosse che l’omicidio di Lea Garofalo non è stato considerato omicidio mafioso (gli imputati non sono stati condannati al 416 bis) in una preoccupante escalation di disconoscenza dell’associazione mafiosa nelle sentenze (ne aveva scritto senza peli sulla lingua Nando Dalla Chiesa qui).

Quindi hanno arrestato mafiosi senza che Lea sia stata uccisa dalla mafia, insomma, pensate che sfortuna, Lea: ha incastrato il capo cosca ‘ndrnaghetista di Cutro ed è morta per un tragico litigio di famiglia, senza mafia.

Sono stati resi noti i nomi degli arrestati e tutti i dettagli dell’operazione Filottete condotta dai carabinieri del Comando provinciale di Crotone contro presunti esponenti delle cosche locali. I nomi dei 17 arrestati resi noti nel corso della conferenza stampa tenutasi in mattinata. In totale sono state 17 le ordinanze restrittive emesse dal gip su richiesta della Dda di Catanzaro, di cui 16 notificate in carcere.

Di seguito tutti i nomi delle diciassette persone destinatarie di un provvedimento restrittivo emesso in esecuzione dell’odierna Operazione Filottete condotta dalla Dda di Catanzaro:

  • Nicolino Grande Aracri nato a Cutro il 20.01.1959 Cutro
  • Giuseppe Pace nato a Crotone il 13.05.1977
  • Giuseppe Scandale nato a Petilia Policastro il 15.07.1968
  • Salvatore Comberiati nato a Petilia Policastro il 17.07.1959
  • Pietro Comberiati nato a Crotone il 24.07.1980
  • Salvatore Comberiati nato a Petilia Policastro il 05.11.1966
  • Vincenzo Comberiati nato a Petilia Policastro il 11.04.1957
  • Angelo Greco nato a San Mauro Marchesato il 16.11.1965
  • Antonio Valerio nato a Cutro il 18.07.1967
  • Salvatore Vona nato a Petilia Policastro il 08.05.1981
  • Domenico Pace nato a Crotone il 16.08.1980
  • Mario Mauro nato a Petilia Policastro il 12.10.1958
  • Salvatore Carvelli nato a Petilia Policastro il 21.07.1963
  • Giuseppe Grano nato a Milano il 31.05.1965 di Mesoraca
  • Giovanni Castagnino nato a Petilia Policastro il 31.12.1959
  • Pasquale Carvelli nato a Petilia Policastro il 16.01.1973
  • Salvatore Caria nato a Petilia Policastro il 10.01.1978

Alle 17 persone arrestate sono contestati a vario titolo reati che vanno dall’associazione per delinquere di tipo mafioso, omicidio aggravato, porto e detenzione di armi e materie esplodenti, produzione e traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope, ricettazione. Oltre alle 17 persone arrestate in quanto destinatarie del provvedimento di custodia cautelare, i carabinieri del Comando provinciale di Crotone hanno arrestato altre due persone di Petilia Policastro perchè trovate in possesso di arma da fuoco nel corso delle perquisizioni di questa mattina. Si tratta di Fabio Dornetti e Giuseppe Vona, entrambi scampati mesi addietro ad altrettanti agguati, e tutti e due trovati con una pistola calibro 9 in casa. Fabio Dornetti, in particolare, ha subito un tentato omicidio nel mese di agosto, mentre Giuseppe Vona rimase ferito in un agguato in cui perse la vita il fratello Valentino.

Secondo quanto ritenuto dagli investigatori l’operazione Filottete ha permesso di fare luce su ben 7 omicidi di ndrangheta avvenuti tra il 1989 ed il 2007 e costati la vita a : Mario Scalise, assassinato il 13 settembre 1989 a Petilia Policastro;Cosimo Martina, assassinato il 30 settembre 1990 a Crotone; Carmine Lazzaro, assassinato il 16 agosto 1992 a Steccato di Cutro; Rosario Ruggiero, assassinato il 24 giugno 1992 Cutro; Antonio Villirillo, assassinato il 5 gennaio 1993 a Cutro; Romano Scalise, fratello di Mario, assassinato il 18 luglio 2007 a Cutro; Francesco Bruno, assassinato il 2 dicembre 2007 a Mesoraca.

Tra i nomi degli arrestati dell’operazione Filottete spiccano quelli di Comberiati Vincenzo, ritenuto il capostipite e boss dell’omonima famiglia di ndrangheta, e quello di Nicolino Grande Aracri, boss di Cutro, già in carcere in regime di 41 bis perchè condannato in via definitiva per altri fatti.

Non siamo uguali

L’Italia è al 71° posto nella classifica dei paesi con la minor disuguaglianza di genere (gender gap).

Ogni anno il rapporto del Forum economico mondiale prende in esame salute, accesso all’istruzione, partecipazione economica e impegno nella politica: sul gradino più alto del podio quest’anno c’è di nuovo l’Islanda, seguita da Finlandia e Norvegia.

In SEL è Migliore annacquarsi

“Per me l’obiettivo è combattere la destra. Se dentro al Pd c’è chi vuole interrompere le larghe intese ben venga. Renzi dicendolo si assume una responsabilità importante”. Lo ha detto Gennaro Migliore, capogruppo Sel alla Camera, ad Agorà, su Raitre. Secondo l’esponente di Sel “quello che serve è segnare chi sta pagando questa crisi, e chi va difeso. L’energia della Leopolda mi ricorda il social Forum che si fece anni fa proprio nello stesso luogo. Un’energia che vuole interrompere il flusso di quanti vogliono mantenere lo status quo”.

Ecco: il “meno peggio” o “i nemici dei miei nemici sono miei amici” sono i comportamenti intollerabili per cui si sentiva il bisogno di costruire SEL. Ma non per tutti, evidentemente.

Cose che provano a funzionare

A proposito delle intercettazioni dimenticate in traghetto, ecco l’interrogazione di SEL.

BOCCADUTRI e COSTANTINO — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
i quotidiani nazionali hanno riportato nei giorni scorsi la notizia che quattro contenitori con intercettazioni non ancora trascritte di telefonate che riguardano il cosiddetto «processo Meta» sarebbero stati ritrovati sul traghetto che collega Reggio Calabria e Messina;
a riferire la notizia è stato il pubblico ministero Giuseppe Lombardo, pm applicato alla direzione Distrettuale Antimafia, nel corso dell’udienza dibattimentale; in particolare, il Ros di Reggio Calabria sarebbe stato contattato dal personale delle navi traghetto, che hanno rinvenuto su un divanetto quattro plichi, fortunatamente quasi integri, relativi alle intercettazioni non ancora trascritte di questo processo. Tre dei plichi sarebbero stati totalmente integri, mentre un quarto risulterebbe essere stato aperto. Quelle intercettazioni non sarebbero ancora state trascritte nonostante l’incarico fosse stato affidato mesi e mesi fa. Si tratterebbe, addirittura, degli originali;
il processo cosiddetto Meta riguarda alcune cosche che alla fine degli anni 80 si sarebbero alleate per potenziare la presenza della ’ndrangheta nel Nord Italia, attraverso anche un alleanza tattica con Cosa Nostra;
il pm Giuseppe Lombardo è stato destinatario nel mese di marzo 2013 di un pacco bomba contenente 50 grammi di esplosivo accompagnati da una lettera di minaccia;
l’esigenza di tutelare la riservatezza del materiale probatorio, unitamente alla necessità di tutelare i soggetti che portano avanti le indagini di mafia non può essere messa a repentaglio in modo così palese –:
quali iniziative, secondo le proprie competenze, il Ministro della giustizia intenda assumere per tutelare l’integrità del materiale probatorio in processi delicati come il cosiddetto processo Meta.

Intervista a Giulio Cavalli: “L’antimafia si fa innamorandosi dello Stato e non dei salvatori”

da ArticoloTre

articolotre_newlogo-G.C.– Giulio Cavalli: attore, politico, scrittore  da sempre in prima linea nella lotta contro le mafie. Tanto da volerle denunciare pubblicamente, scatenando la rabbia delle cosche che ora vorrebbero eliminarlo. L’ex consigliere lombardo di Sel vive ora sotto scorta e in una località protetta, ma, non per questo, ha scelto di tacere e di abbandonare il proprio impegno per la legalità.

“Mafie al nord” è un’espressione che finalmente comincia ad essere utilizzata. Si tratta però di una mafia “imprenditoriale”, in grado di esasperare i principi del capitalismo e, per questo, appare ancora più difficile da riconoscere. Se in meridione si parla di contiguità e convivenza, al settentrione è più opportuno parlare di connivenza o ignoranza?

Connivenza e ignoranza: perché non è vero che al nord ci sono solo mafie imprenditoriali difficili da riconoscere e lo dimostra bene il fatto che insieme ai soldi sono stati esportati anche i riti di affiliazioni e le dinamiche interne dei clan, sia per ‘ndrangheta che camorra che Cosa Nostra. L’ignoranza (mi piace di più chiamarlo “analfabetismo”) è soprattutto tra la gente che non ha contatti “diretti” ma semplicemente benefici indiretti o danni collaterali mentre la connivenza è evidentemente politica e finanziaria e imprenditoriale. Parlare di “mafia al nord” diventa quindi molto pericoloso se serve per chiedere una certa indulgenza di giudizio rispetto alle mafie del sud.

Nei giorni scorsi ha parlato di una “antimafia disorganizzata”, che si contrappone ad una criminalità, invece, organizzata. Qual è dunque, a Suo parere, la strada da imboccare per poter contrastare in maniera adeguata l’illegalità?

Un ruolo a cui la politica e la pubblica amministrazione non può rinunciare: non serve fare decine di conferenze stampa per protocolli in nome della legalità che poi non vengono applicati o si rivelano assolutamente antieconomici e allo stesso modo non può bastare un’iscrizione ad un’associazione antimafia per risultare aprioristicamente credibili. L’antimafia deve porsi degli obiettivi concreti e deve stare lontana dalla devozione mafiosa per cui siamo solidali sono con i nostri sodali. L’antimafia deve essere inclusiva e concludente altrimenti è semplicemente imprenditorialità di immagine.

Portare l’antimafia a teatro ha una valenza importantissima, in quanto sottintende, sostanzialmente, un rapporto tra cultura e legalità. In un’Italia che dimentica o consapevolmente ignora, non vi è però il rischio che l’antimafia si trasformi dunque in un valore elitario?

Certamente. Io però posso fare antimafia nei mestieri che so fare. Se tutti facessero semplicemente così risulterebbe facile. Credo che se fossi stato un idraulico avrei comunque inteso la mia professione allo stesso modo.

Il pentito Bonaventura ha illustrato il piano che la ‘ndrangheta aveva per eliminarLa. Nello specifico, ha parlato di un attentato che non dovesse apparire in alcun modo di matrice mafiosa, per evitare la creazione di martiri. La mafia ha dunque paura della memoria?

La mafia ha paura della consapevolezza e di tutto ciò che nel proprio piccolo prova a costruire chiavi di lettura collettive.

A seguito delle numerose minacce di morte ricevute, Lei vive sotto scorta. Altre centinaia di persone, in Italia, conducono una vita simile alla sua. Alcune vengono definite “eroi”: c’è speranza che arrivi il momento in cui gli individui che hanno scelto di combattere il fenomeno mafioso vengano ritenuti non straordinari ma, semplicemente, giusti?

Certo. Basterebbe parlare meno di scorte, ad esempio.

Tra i motivi che l’hanno resa una figura “scomoda” per la mafia vi è la denuncia dei rapporti tra politica e criminalità organizzata. Quanto è ancora forte il legame che intreccia lo Stato e l’antistato per eccellenza, e come è possibile reciderlo?

Le mafie stanno in ottima salute e hanno bisogno della politica per stare bene: la risposta quindi mi sembra evidente. Forse bisognerebbe innamorarsi di più dello Stato, delle sue leggi e della sua Costituzione e meno dei ciclici salvatori della Patria che ci vengono propinati.

Concorda con l’appello lanciato da Teresi, secondo cui i capi-mafia dovrebbero sganciarsi dai propri referenti politici in quanto semplicemente strumentalizzati da essi?

E’ una provocazione, ovvio. Io amo le provocazioni.

Dopo mesi di ritardo, è stata finalmente istituita la commissione antimafia. Tra i membri, spiccano nomi noti per le proprie posizioni controverse in merito al contrasto alle mafie. Come si pone un politico e un uomo di legalità di fronte a quello che potrebbe apparire un paradosso?

E’ la perfetta fotografia dello spessore della nostra classe dirigente. Perfetta: desolante ma precisa.

Per il nostro bene

9788861903814_per_il_nostro_bene_3dbPER IL NOSTRO BENE è il libro sui beni confiscati di Ilaria Ramoni e Alessandra Coppola edito da Chiarelettere. Devo fare una precisazione importante: Ilaria è una delle persone più preparate, appassionata e appassionante sul tema antimafia che io conosca. Naturalmente scrivere un libro sui beni confiscati senza cadere nella retorica buonista dello scippo allo scippatore ma con la schiena diritta di chi sa e conosce un ideale antimafioso che stenta da troppi anni in Italia non è facile. Sulla questione dei beni confiscati abbiamo assistito in questi anni ad un lento e costante percorso di  mitizzazione che non rende giustizia alla realtà: basta una casetta minuscola di un insulso mafioso per fare del sindaco e o del prefetto di turno un eroe da fotografare con taglio del nastro, commozione e millanterie da intervista: roba da marchettari, cose così.

PER IL NOSTRO BENE entra invece a piedi uniti (e con preparazione giuridica, finalmente) sul ruolo mancante troppo spesso da parte dello Stato nella rivitalizzazione dei beni sottratti alla mafia e sulle tortuosità burocratiche di un cammino che troppo poco arriva a buon fine. Confiscare un bene non è solo sottrazione materiale alle mafie ma dovrebbe essere (e spesso non è) uno dei passaggi di un disegno globale di lotta al crimine e di crescita dell’economia legale del Paese. Per farlo avremmo dovuto avere una classe dirigente all’altezza del progetto che sventolava, e non è stato così. L’Agenzia Nazionale per la gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati non ha avuto (e non ha) i mezzi per diventare davvero il cuore e il cervello delle rinascite nei territori e troppo spesso alle associazioni o agli amministratori che hanno ricevuto il bene abbiamo chiesto di essere eroi senza nemmeno riuscire a guidarli e garantirli. Così oggi il tema del bene confiscato rimane buono sul piano ideale per le scolaresche ma fallisce sul piano imprenditoriale e ancora sentiamo dire che “la mafia almeno dava lavoro e pagava gli stipendi”, come ai tempi di Caselli con Andreotti.

Il libro è un manuale delle cose sbagliate che ha il coraggio e il cuore di non invitare al pessimismo ma alla consapevolezza costruttiva. E l’antimafia e questa Italia hanno bisogno come il pane di libri così.

Ecco un estratto del libro:

La villa di Tano Badalamenti a Cinisi, la reggia di “Sandokan” Schiavone a Casal di Principe, l’enclave dei Casamonica nella periferia romana, perfino una residenza principesca a Beverly Hills, proprietà di Michele Zaza, ’o Pazzo, re del contrabbando. E poi cascine di ’ndrangheta in Piemonte, tenute in Toscana, castelli, alberghi, discoteche, campi di calcio, maneggi. L’inchiesta di Alessandra Coppola e Ilaria Ramoni.

La serata è tersa, la brezza leggera. Capri è così nitida che quasi si distinguono i profili delle case. Ci fosse la luna, da qui, sopra Posillipo, si vedrebbero pure le onde del mare. Don Michele sorride: calma e buia, la notte ideale per un grosso carico.

Il terzo turno è il suo. Così è stato stabilito con i compari siciliani, e così racconterà il collaboratore Francesco Marino Mannoia: prima Tommaso Spadaro, poi Nunzio La Mattina, quindi gli scafi blu di don Michele, per ultimi gli uomini di Brancaccio. La «nave madre» attracca al largo, 35-40.000 casse per volta. Abbastanza per tutti, mafiosi e camorristi. In abbondanza per il più bravo, «’o Pazzo» che ha tenuto testa ai Marsigliesi e si è affiliato a Cosa nostra, ha venduto 5 milioni di chili di sigarette e fatturato 500 miliardi di lire. Il cuore matto perché malato, ma generoso per migliaia di dipendenti, sulle barche dipinte di blu come il mare o accanto alle cassette di frutta rovesciate a fare da tabaccherie clandestine. La testa fina, da guappo che capisce di commerci: «Usa ogni trucco per scaricare le sigarette nel proprio interesse, anziché in quello dei capi famiglia palermitani» racconta di lui, ridendo, Stefano Bontate a Tommaso Buscetta. Perché lo sanno tutti che nel settore è il numero uno, è lui «il re del contrabbando», don Michele Zaza, ’o Pazzo.

Questa villa è la sua. La terrazza sul mare, le piastrelle in cotto, le porte scorrevoli, la piscina. E poi, certo, anche il cancello blindato, le inferriate appuntite, gli appartamenti ricavati nel seminterrato per i suoi uomini, Attilio, Gennaro, Giuseppe «Biberon», le finestre strette e profonde che sembrano feritoie di un castello. Fortificato, ma chic: non per nulla si chiama La Gloriette. Gli altri rimanessero pure a Forcella o al Pallonetto. Don Michele ha orizzonti più ampi. Con i nipoti Mazzarella, controlla la costa da Santa Lucia a San Giovanni a Teduccio. Ma la moglie, Anne-Marie, è nata a Lione, e lui guarda alla Francia, a giri d’affari che varcano i confini. Una villa tra i ricchi napoletani, sulla collina di Posillipo, un’altra in Costa Azzurra, una terza su alture lontane, addirittura in California, a Beverly Hills.

Del resto, pensa don Michele, ha messo su un’impresa, ha rischiato e ha avuto successo. Se lo merita, pensa. L’ha spiegato anche alla tv: «Sono settecentomila le persone che vivono di contrabbando, che per Napoli è dunque come la Fiat per Torino. Qualcuno mi ha chiamato l’Agnelli di Napoli… Sì, certo, tutto potrebbe essere fermato nel giro di mezz’ora, ma per quelli che ci lavorano sarebbe la fine. Diventerebbero tutti ladri, rapinatori, borseggiatori. Napoli diventerebbe la città più invivibile al mondo. Invece questa città dovrebbe ringraziare i venti, trenta uomini che organizzano le operazioni di scarico delle navi di sigarette, quindi fermano la delinquenza». E si fanno ricchi.

Arriviamo a Posillipo dal Vomero, via Manzoni e poi via Petrarca, che su un lato sembra disabitata e invece nasconde un club esclusivo di ville, che nessuno vede ma qualcuno possiede, lungo le discese che portano al mare. Un’altra Napoli, verde e protetta. Alla portata di altre tasche.

L’appuntamento è al numero civico 50, accanto a un bar con terrazza e i sigilli di un sequestro, una vicenda diversa. Troppi soldi da queste parti perché siano tutti puliti. La guardiola del portiere con i vetri fumé, i parcheggi con le macchine di lusso, qualcuna provvisoriamente all’esterno, numerosi Suv, dicono ci sia anche una Bentley. Due ville del complesso sono ancora di proprietà dei figli di Zaza, convocati alle riunioni di condominio insieme alle associazioni che ora gestiscono la casa di papà.

Sono passati quarant’anni dalla stagione d’oro del contrabbando di sigarette, quando don Michele s’affacciava sul Golfo, quasi trenta dal sequestro, ma il fortino della Gloriette non ha ceduto: i mattoni di tufo sporgenti che simulano un bugnato, la terrazza che gira tutt’intorno con la vista perfetta da Punta Campanella a Coroglio, la piscina transennata ma in buono stato, il bassorilievo anni Settanta riemerso dietro un tramezzo, con figure di animali che sembrano simboli, un pavone, un boa, la sagoma di una donna senza volto. Ma anche una certa raffinatezza. In questo viaggio tra gli appartamenti e i gusti approssimativi dei mafiosi, un’eccezione.

Le chiavi le ha Aldo Cimmino: si è da poco laureato in giurisprudenza, con l’idea di preparare il concorso in magistratura, e collabora con l’associazione Libera. Entriamo dal garage nel seminterrato che alloggiava i «soldati» di Zaza, collegato al piano superiore da un cunicolo per le fughe improvvise. Stanze più piccole e buie, una dietro l’altra, le grate alle finestre, bagni, fornelli e il necessario per lunghi soggiorni.

Uomini armati e fidati sono indispensabili al boss. Col passare degli anni la faccenda del contrabbando si è fatta rischiosa. Sulle rotte delle «bionde» adesso s’innesta il più lucroso traffico di droga. E sulla scena criminale campana comincia a farsi strada la Nuova camorra organizzata di Cutolo. Zaza cerca una mediazione, ma nella sanguinosa stagione della lotta tra bande ha molto da temere. Il cuore malato gli regge a stento quando la polizia nell’81 lo blocca in auto, a Roma: immagina un agguato di cutoliani vestiti da agenti. È l’avvio di un decennio di arresti, ricoveri, evasioni e Costa Azzurra, ma con una salute sempre più incerta. Vincenzo Di Vincenzo, allora giovane cronista dell’Ansa, è l’ultimo a intervistarlo, nella villa di Villeneuve Loubet, nel ’91. Lo ricorda malconcio, in tuta da ginnastica, un’infermiera gli cala i calzoni per un’iniezione mentre lui parla: «Se rinasco un’altra volta – ride – mi metterei in politica». Intanto è ancora in affari, tra Nizza e Mentone ha fiutato il business dei casinò, lavanderie ideali per i suoi miliardi illeciti. Non farà in tempo. Catturato di nuovo ed estradato in Italia, morirà per un attacco di cuore nel tragitto tra il carcere e il Policlinico, a Roma, nel luglio del ’94, a cinquant’anni. Senza aver più fatto ritorno alla Gloriette.

Uno spreco. Quasi 140 metri quadrati seminterrati, più 200 del piano «nobile», più 800 di vialetti, terrazza, piscina e giardinetti. Ai quali si deve aggiungere un terreno di 11.000 metri quadrati pochi passi più in là, in uno dei posti più belli di Napoli, adesso occupato abusivamente da qualcuno nascosto nell’ombra. Una roulotte, degli stracci, un branco di cani che abbaiano rinchiusi in gabbie fatiscenti, quel che resta di una vigna, mangiata dalle erbacce, una traccia di pomodori. E ancora oltre, una selva incolta nella quale è difficile avanzare.

Diventerà un orto urbano, forse. Intanto, al piano di sotto della villa, Aldo ci fa immaginare una sala conferenze, una foresteria, uno studio di registrazione per Radio Siani, una sede di Legambiente e la segreteria di Libera, che dal dicembre 2010 ha la gestione del seminterrato. Sopra, dove ci sono terrazza e piscina, saranno montati gli scivoli per i disabili e sarà allestito un centro diurno «dedicato a persone con problemi di autonomia e integrazione sociale».

Confiscata in via definitiva nel 2001, La Gloriette in un primo tempo è stata mantenuta allo Stato (2005) per essere assegnata alla Questura di Napoli come sede del commissariato Posillipo. Trascorre un altro lustro, e non se ne fa nulla. Nel luglio 2010, la villa passa al Comune di Napoli, che affida il primo piano alla cooperativa L’Orsa Maggiore. Ci sono il progetto, i fondi per la ristrutturazione, già in parte avviata, l’idea di «una casa sociale in cui le persone si sentono accolte e riconosciute», ed è tutto spiegato in un sito web dettagliato. Navigando alla voce «eventi» nel pdf della brochure compare una nota a margine: «L’attivazione del Centro è attualmente sospesa per l’insorgenza di problemi tecnici relativi all’immobile».

Che tipo di problemi? «Di ogni tipo» sorride Fabio Giuliani. Già collaboratore dell’assessore alla Sicurezza Giuseppe Narducci (nella giunta de Magistris fino al giugno 2012), oggi nell’Ufficio nazionale per i beni confiscati di Libera, Giuliani conosce la questione da più punti di vista: «È il classico bene che non si sarebbe dovuto assegnare» ammette. Non prima di averlo liberato dai lacci, almeno. «Per il vincolo idrogeologico è intervenuto il Comune, che ha declassato l’immobile da R3 a R2», quindi l’ha sciolto. Resta l’abuso edilizio. Per il quale, a sorpresa, è venuta in aiuto la moglie di Zaza, Anne-Marie Liguori, in alcuni documenti italianizzata Anna Maria: «Per usufruire del condono si sarebbe dovuto fare richiesta entro 180 giorni dall’assegnazione da parte dell’Agenzia nazionale», possibilità sfumata. «C’era però la domanda di condono presentata dalla signora Zaza nell’89, che comprendeva un’oblazione pagata. L’amministrazione si è legata a quella e abbiamo risolto.» Manca il vincolo paesaggistico, «ma comunque abbiamo sbloccato l’ordinaria amministrazione».

«Due volte alla settimana si riunisce un gruppo di adolescenti con disabilità mentale» racconta la responsabile del progetto per L’Orsa Maggiore, Gabriella Bismuto. «E per i ragazzi che vengono da quartieri disagiati della periferia, abituati ad altri paesaggi, quella vista sul Golfo ha un potere terapeutico.» Nell’autunno del 2013 il centro dovrebbe avviare progetti più stabili. In futuro potrebbe addirittura nascere un’attività di catering e la villa potrebbe aprirsi a feste e banchetti organizzati dai «pazienti» dell’Orsa.

Finora resta, però, un recupero parziale. L’ex direttore dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, Mario Morcone, che ha fatto la sua prima uscita pubblica proprio alla Gloriette (e si è dimesso nel giugno 2011 dopo aver perso le elezioni a sindaco di Napoli, battuto da Luigi de Magistris) dice apertamente che i lacci «erano tutte cose superabili velocemente dal Comune», che «c’era anche il finanziamento di Fondazione per il Sud» e che è «una vergogna» che, dopo le telecamere, i discorsi e gli applausi, la villa di Zaza sia rimasta per tre anni a prendere polvere e salsedine.

Alessandra Coppola è giornalista del “Corriere della Sera”.
Ilaria Ramoni è avvocata e amministratrice giudiziaria, esperta in legislazione antimafia.