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Impresa mafiosa tra apocalittici e infiltrazioni

Un articolo semplice e per niente banale per dirimere una questione su cui si filosofeggia molto ma che è molto lineare.

La presenza criminale nell’economia viene definita – in termini giornalistici – come un’infiltrazione. Una parola che rimanda a un elemento esterno alla società, in una versione appunto minimalista o apocalittica (la mafia controlla tutto). Nessuno però si chiede perché le grandi aziende lavorano con le imprese mafiose. Tre le ipotesi. Non se ne sono accorti. Hanno subito un’imposizione. Hanno giudicato conveniente la partnership.

La filiera agricola, l’edilizia e le opere pubbliche, il ciclo dei rifiuti, la grande distribuzione alimentare. Sono i settori dove l’impresa mafiosa è sempre più invadente. In termini giornalistici, questa presenza viene generalmente definita un’infiltrazione. Un termine non neutrale che rimanda a un problema esterno e che può essere raccontato in una versione minimalista (le infiltrazioni mafiose) e una apocalittica (la mafia controlla tutto). Ma sempre esterno rimane. La cultura wasp, negli Usa, rappresentava la criminalità organizzata come alien conspirancy per dire che è arrivata con gli immigrati: italiani, irlandesi, ebrei. C’è una parte di verità. Ma un qualunque film di Scorsese fa capire che non è così semplice. La società americana non era innocente ma era pronta ad accogliere al suo interno un organismo brutale ma a suo modo efficiente.

Va ricordato che un’impresa si definisce mafiosa in base a due criteri: uno soggettivo e l’altro oggettivo. Nel primo caso l’azienda è riconducibile a un soggetto criminale. Nel secondo, usa il metodo mafioso, in particolare l’uso strumentale della violenza, effettiva o minacciata.

Un esempio concreto: perché un grande gruppo tedesco come DeSpar, almeno per un determinato periodo e secondo gli atti dei magistrati, ha affidato a una impresa mafiosa del trapanese i suoi punti vendita? Le risposte possibili sono tre. Non se ne sono accorti. Sono stati costretti. Oppure, in alternativa, il mafioso non si è presentato come tale ma da imprenditore fortemente concorrenziale. Un partner appetibile e credibile. Perché offre prezzi competitivi, non ha problemi sindacali e spesso vanta una liquidità che altri possono solo sognare. Non è un caso che nella logistica le grandi aziende tra Milano e Piacenza hanno sempre minacciato di andare via al primo sciopero ma non hanno mai detto nulla sulla presenza straripante di camorra e ‘ndrangheta nelle cooperative in subappalto. Sempre a Milano, vera capitale immorale, il padrone di uno tra i maggiori call center italiani ha chiamato i Bellocco per risolvere un problema interno, fino a ritrovarsi estromesso dall’azienda. Niente di nuovo.

La mafia on demand ha distrutto Bardonecchia già negli anni ’70. Nel primo comune del Nord sciolto per mafia, le imprese edili locali chiamavano mediatori mafiosi come caporali degli operai edili, per avere costi bassi e non vedere scioperi. Col risultato di consegnare il territorio ai clan. L’impresa mafiosa è una forma estrema di azienda, ma non è estranea a questo sistema. Spesso è persino richiesta. Altrimenti sarebbe già sparita. Perché le denunce del pizzo partono da piccole aziende e mai da grandi imprese, che sarebbero infinitamente più tutelate? Il caso dei cantieri della Salerno – Reggio Calabria è esemplare. L’imprenditore catanese della piccola ditta che lavora a Scilla annota il numero di targa dell’uomo che è venuto a riscuotere, lo comunica ai carabinieri, scopre stupito che è intestato al boss, osserva gli arresti dell’intero clan che terrorizza il paese. Il vertice della grande azienda romana, al contrario, finisce sul banco degli imputati perché il suo comportamento sfiora il favoreggiamento. Anche se non è stato dimostrato in Tribunale, viene da pensare a una cogestione, un modo di ‘portare avanti’ senza problemi i cantieri in zone difficili. Una modalità di gestione aziendale, non il frutto di una imposizione.

(Antonello Mangano, “Apocalittici o infiltrati. Ma cos`è l’impresa mafiosa?“, terrelibere.org, 05 dicembre 2013)