Vai al contenuto

2014

Dopo l’anteprima de L’AMICO DEGLI EROI

Anche se manca poco al nuovo anno non posso non scrivere di ieri, della nostra prima della prima de L’Amico degli Eroi che è andata in scena a Monte Sant’Angelo. E la bellezza di un teatro che nonostante imperversasse la bufera di neve è riuscito a riempirsi decidendo di portarsi il cielo azzurro ognuno direttamente da casa sua. E la bellezza di Legambiente e Libera che quando si mettono insieme riescono ad essere le fondamenta di un Festival teatrale che è un fiore raro, in questi tempi, sotto la guida attenta di Franco Salcuni. E mentre sul palco io e Cisco curavamo il parto del nostro spettacolo con l’aiuto attento del pubblico Monte Sant’Angelo si è ripromesso di diventare il prima possibile un nodo di Libera come risposta al commissariamento del Comune. C’è un’Italia bellissima, davvero, che suda e lotta ogni mattina, così lontana dalla retorica della politica e così vera. Credo che questo spettacolo sia un bocciolo prezioso, sarà un bel fiore. Buon anno. A noi tutti.

Se ci volete aiutare a produrlo potete farlo qui.

10464190_659989324111436_8581773612618429569_n

Il batticuore, le difficoltà e il palco di domani con #lamicodeglieroi

Dunque domani ci sarà l’anteprima de L’amico degli eroi a Monte Sant’Angelo (Foggia) con il copione che stiamo rimodellando di giorno in giorno, di minuto in minuto, meravigliosamente criticati dai nostri tanti piccoli produttori che hanno deciso di contribuire alla nostra produzione sociale. Saremo ancora io e Cisco nei camerini (questa volta con tutta la band) a guardarci negli occhi prima di salire sul palco  chiedendoci sempre se ne vale la pena e rispondendoci sempre di sì. Devo confessare come la produzione di questo spettacolo sia una lotta su più fronti: studiare e ricomporre la storia di Marcello Dell’Utri significa inevitabilmente ripercorrere gli ultimi anni del Paese (e non è un bel brodo in cui mettere le mani) e, allo stesso tempo, le difficoltà di produzione (ne abbiamo scritto qui) ci stanno forgiando. Forse è meglio così, ci farà bene.

Se volete darci una mano potete farlo qui. Intanto vi sveliamo il bellissimo progetto grafico di Marco Gifuni che sta aggiungendo bellezza. Grazie anche a te, Marco.

Artwork_A3_L'amico_degli_Eroi_CMYKlight

 

La retorica sui liberi professionisti, tassati e tartassati

Quest’anno i professionisti iscritti alla gestione separata hanno trovato sotto l’albero un regalo coi fiocchi, l’ennesimo aumento dei contributi da versare all’Inps che dal 1° gennaio 2015 passano dall’attuale 27,72% al 29,72% per poi crescere un punto all’anno fino al 33,72% nel 2019.

Quando nel 1995, con la Riforma Dini, è stata istituita questa forma contributiva previdenziale l’aliquota era del 10%, un aumento progressivo senza eguali che oggi spinge fuori dal mercato una grossa fetta di professionisti, una categoria del terziario avanzato che raggruppa esperti, informatici, formatori, ricercatori, creativi, consulenti che svolgono un’attività che rientra nelle professioni non organizzate in ordini o collegi. Sono lavoratori autonomi altamente qualificati che malgrado la scarsa dinamicità dell’economia hanno abbracciato la flessibilità richiesta dalle mutate condizioni del mercato. Una nuova classe di professionisti che lavorano da soli senza dipendenti e che rappresentano una risorsa qualificata insostituibile, sono i lavoratori autonomi della conoscenza, i freelance.

Inseriti in un apparato normativo troppo rigido che non li riconosce si scontrano con una realtà di disinformazione e miopia. Il governo pare impegnato a inserire nelle leggi delle clausole che impediscano l’abuso della flessibilità nelle nuove attività professionali piuttosto che costruire un apparato coerente ed esaustivo di norme volte a permettere la crescita e la valorizzazione di un capitale umano che già c’è.

Questo vuoto normativo ha fatto sì che la disciplina tributaria dei professionisti indipendenti si sovrapponesse in parte alla tassazione individuale e in parte alla tassazione di impresa, cioè oscillasse fra due realtà che non riescono a identificare questa categoria confinandola in un limbo che non le attribuisce un’identità univoca e alla fine la penalizza.

“Il Jobs Act non è minimamente intervenuto sulla tutela della disoccupazione per i freelance” dice Anna Soru presidente Acta, la prima associazione nata in Italia per rappresentare i freelance “la legge di stabilità ha stanziato 800 milioni a favore dell’insieme delle partite Iva, ma il grosso va a coprire l’eliminazione dei minimi contributivi per commercianti e artigiani mentre non si è intervenuti per bloccare l’aumento dell’aliquota che versiamo noi freelancer iscritti alla gestione separata Inps che già oggi (27,72%) è decisamente superiore a quella di commercianti e artigiani (22-23%). A regime questa distanza si amplierà significativamente: 24% per commercianti e artigiani, 33,72% per noi”.

“Sul fronte del regime dei minimi è stata introdotta una modifica” prosegue Anna Soru “che prevede di spezzettare il mondo del lavoro autonomo in base all’attività produttiva, per ogni tipologia di attività è stato definito un massimale di fatturato che permetterà di rientrare nel regime dei minimi e una stima dei costi da portare in detrazione che quindi non saranno più stabiliti sulla base delle fatture effettivamente pagate. Come freelancer si stima che il 22% del fatturato sia utilizzato per le spese, perciò tasse e contribuzione verranno calcolate sul rimanente 78%. È discutibile questa modalità di definizione dei costi, innanzitutto perché favorisce chi è una finta partita Iva che tipicamente non ha costi perché utilizza la sede e gli strumenti del committente, non ha spese promozionali o di marketing ma solo la parcella del commercialista” puntualizza la presidente Acta.

“È inoltre discutibile perché risulta incoerente con la lotta all’evasione fiscale: se non devo dimostrare le spese sostenute non ho interesse a chiedere le fatture ai miei fornitori; in sostanza viene a mancare il contrasto di interessi, uno strumento classico della lotta all’evasione. È stato abbassato anche il massimale nel regime dei minimi per i freelance che da 30.000 euro passa a 15.000 mentre è stato aumentato a 40.000 per i commercianti. Due considerazioni. Da una parte 15.000 euro è una soglia di fatturato che restringe significativamente la platea dei freelance che potranno beneficiarne, soprattutto se consideriamo che sino ad un fatturato di 10-12.000 euro il nuovo regime non è vantaggioso (meglio il regime semplificato, ovvero il regime non agevolato)”.

“La seconda è che si amplia la possibilità di rientrare in un regime agevolato, che tra le altre caratteristiche prevede l’esclusione dagli studi di settore, a una categoria (commercianti) in cui tradizionalmente è più presente l’evasione fiscale. Non amo le etichette, specialmente se attribuite in base a luoghi comuni, ma proprio per questo ritengo si debba fare chiarezza ed evitare norme che possano favorire i soliti furbi. Se si considerano utili i regimi di favore ritengo vadano subordinati alla completa trasparenza dei pagamenti. I regimi di favore (magari studiati meglio dei vari regimi dei minimi che abbiamo conosciuto) dovrebbero essere accordati solo a lavoratori autonomi che accettino di essere radiografati dal fisco e che, per favorire ogni indagine sul loro operato, utilizzino solo strumenti di pagamento tracciabili”.

“Le politiche del lavoro in atto si rivolgono essenzialmente al lavoro dipendente e sono insufficienti, non tutta la disoccupazione potrà essere assorbita lì. Bisogna capire che il nuovo lavoro autonomo è una risorsa per l’innovazione e la crescita e anziché avere un atteggiamento punitivo bisognerebbe introdurre delle politiche che lo promuovano riconoscendone il ruolo sociale ed economico. A questo proposito è necessario ripensare completamente quello che è il sistema fiscale-contributivo da una parte e di welfare dall’altra” conclude Anna Soru.

Patricia Leighton, docente di diritto sociale europeo alla Ipag Business School di Parigi, ha studiato a fondo il fenomeno degli iPros (Independent Professionals), i liberi professionisti. Dalla ricerca svolta “Future Working, The Rise of Europe’s Independent Professionals” emerge che questa categoria è quella con la crescita più rapida in Europa ma lo studio evidenzia anche il cambiamento strutturale del mercato del lavoro che sta avvenendo, una sostanziale trasformazione nel modo di lavorare, se prima l’approccio era “avere un impiego” adesso si lavora per il cliente. Gli iPros hanno portato le loro competenze nel nuovo e dinamico mercato del lavoro europeo fornendo servizi ai diversi settori con una crescita impressionante che sfiora il 45%, quasi 9 milioni.

Di questo cambiamento radicale nella natura del lavoro stesso e nelle sue modalità è portavoce Efip (European forum for independent professionals), l’organismo che raggruppa a livello europeo le associazioni di rappresentanza dei lavoratori autonomi. Attraverso questo strumento gli associati, fra cui Acta, portano avanti un discorso comune per dare visibilità agli iPros, offrire un supporto conoscitivo al legislatore per agevolare una normazione europea in grado di comprendere e tenere conto delle specificità di questa tipologia di lavoro e rispondere alle nuove esigenze nell’attuale contesto di mercato con rapidità e azioni mirate.

2014-12-18-ImmagineiProsemployees.jpg
(Fonte: Patricia Leighton, “Future Working, The Rise of Europe’s Independent Professionals”)

Ma l’Italia è il fanalino di coda di un’Europa che guarda avanti, che osserva l’evoluzione delle attività economiche, che si pone il problema della qualificazione e della riconoscibilità delle professioni, che investe in educazione e formazione professionale, che percepisce il valore di questa categoria in termini occupazionali. In Italia, lo sviluppo del lavoro freelance è fra i più lenti in Europa.

C’è bisogno di una cultura digitale più vasta, è necessario favorire l’accesso dei freelancer alla formazione finanziata e incentivare la formazione che ognuno si paga da sé, riconoscendone la totale detraibilità ai fini fiscali, servono norme in grado di imporre il pagamento puntuale delle prestazioni come il Freelancer Payment Protection Act promosso da Freelancers Union e che dal 2011 è legge nello Stato di New York. Mancano infine misure che favoriscano la partecipazione dei freelancer alla fornitura di servizi alla pubblica amministrazione e che garantiscano pagamenti equi lungo le catene di subfornitura.

2014-12-18-ImmagineJPG.jpg
 

(Fonte: Patricia Leighton, “Future Working, The Rise of Europe’s Independent Professionals”)

C’è una contraddizione di fondo fra il costante richiamo alla flessibilità nel lavoro e i provvedimenti che interessano i freelance, i più flessibili per definizione, c’è un’incoerenza fra la volontà di far ripartire un’economia e gli strumenti applicati. Di certo le recenti decisioni del governo si abbattono come una mannaia sui professionisti-freelance che fra pochi giorni diventeranno una categoria a rischio, alla stregua delle specie in via di estinzione.

(fonte)

Mafiosi come i topi. Nel bunker interrato.

Alle prime luci dell’alba, a Benestare, i Carabinieri del Gruppo di Locri e dello Squadrone Eliportato Cacciatori d’Aspromonte di Vibo Valentia hanno scoperto un bunker nel corso di numerose perquisizioni domiciliari, delegate dalla Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria, finalizzate alla ricerca del latitante Antonio Pelle (26 anni), su cui pende una condanna a 12 anni di reclusione in Appello per associazione di tipo mafioso.

L’uomo era stato coinvolto nell’indagine “Fehida”, che fece luce sulla sanguinosa faida di San Luca. Sul suo conto pende inoltre una ulteriore ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, emessa nel 2012 dal Tribunale di Roma nell’ambito di operazione condotta dalla Squadra mobile. Le operazioni di ricerca sono state estese anche ai terreni di pertinenza e circostanti le abitazioni perquisite, ove sono stati effettuati diversi saggi in profondità con un escavatore.

Proprio all’interno di un fondo in contrada Bosco, risultato nella disponibilità di un 61enne di Bovalino, è stato rivenuto un bunker ormai in stato di abbandono di sei metri per due circa, sotterrato a una profondità di due metri circa in una piazzola circondata da alberi di agrumi. Il container conteneva un modulo abitativo completo di arredi in plastica, due materassi, servizi igienici, impianto elettrico, idrico e di aerazione. L’accesso, nascosto dalla vegetazione, era consentito mediante una botola a sollevamento idraulico.

locri

Paviglianiti: una ’ndrina in continua ascesa.

Una ’ndrina in continua ascesa. La caratura criminale della famiglia “Paviglianiti”, i potenti delle cittadine della fascia jonica di Reggio, San Lorenzo e Bagaladi, è stata confermata dalla recente inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria “Ultima spiaggia”. Un clan che è riuscito a mantenere «incontrastata» la leadership sul territorio anche dopo l’arresto dell’indiscusso capoclan, Domenico Paviglianiti, il principe del narcotraffico internazionale tra gli eletti boss in grado di stringere accordi da tonnellate di cocaina solo spendendo il proprio nome di battesimo. Per la Dda di Reggio sarebbe proprio lui a mantenere stabili gli equilibri con i padrini della fascia jonica di Reggio e del mandamento “Centro” e soprattutto a stringere nuove alleanze con i siciliani di “Cosa nostra”. Sempre nel segno degli affari legati alla gestione di una fetta del narcotraffico con il Sud America. Gli inquirenti delineano uno scenario preciso nelle carte di “Ultima spiaggia”: «Le indagini esperite, focalizzando l’attenzione verso i sodalizi operanti lungo la fascia ionica reggina, dimostreranno come anche le inimicizie ed i rancori personali tra i vertici delle cosche cedono il passo davanti alla prospettiva di lauti guadagni: prova documentale di questo assunto è data dall’esame della corrispondenza che Paviglianiti Domenico, vertice dell’omonima cosca, in atto recluso presso la casa circondariale di Ascoli Piceno, invia e riceve da esponenti di primo piano del panorama criminale nazionale». Seppure in carcere, Domenico Paviglianiti è boss di rango assoluto. Ovunque si trovi, secondo le conclusioni degli inquirenti: «Benché recluso, non ha perso il carisma che gli ha permesso di occupare i vertici della cosca». Tra gli interlocutori di “Mimmo” Paviglianiti anche la famiglia Guttadauro, i mafiosi di Palermo: «In una delle sue lettere inviate a Guttadauro Giuseppe, esponente di spicco di cosa nostra, scrive che i suoi familiari, ed in particolare suo cognato, domandano se siano in contatto tra loro (“I miei mi chiedono sempre, mio cognato mi chiede sempre ma, con il “dottore” ti scrivi? È convinto che siete stato il mio pigmalione: forse è l’unica che ha ha azzeccato)». Un intero capitolo delle indagini “Ultima spiaggia” i carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria l’hanno dedicato proprio «al rapporto di mutua collaborazione con la mafia siciliana». Sul tema gli inquirenti sono precisi: «In nome dei principi di unita e cooperazione tra i sodalizi criminali, anche la cosca Paviglianiti stringe legami con esponenti di primo piano del panorama criminale nazionale: tale assunto e di fondamentale importanza in quanto pone in risalto la considerazione ed il rispetto di cui godono gli esponenti della cosca in argomento». Da San Lorenzo ad Africo, altra cosca crocevia del business della droga, fino a Palermo: «I Morabito hanno mantenuto costanti e frequenti contatti con il referente della cosca Paviglianiti. Le modalità operative del sodalizio di stanza in Africo e dal quale gli esponenti della cosca Paviglianiti sono risultati approvvigionarsi, sono divenute oggetto di un capitolo della presente richiesta che ha fatto piena luce su un’organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti e che vanta collegamenti con esponenti della criminalità siciliana». Traffici illeciti che «trovano riscontro nei rapporti allacciati con esponenti della realtà criminale siciliana, allo stato non ancora identificati». Più volte i segugi dell’Arma hanno seguito gli emissari reggini in trasferta a Piedimonte Etneo (Catania) «verosimilmente per trattare una fornitura di sostanza stupefacente: gli accorgimenti ed il timore per eventuali controlli di polizia alimenta il sospetto che la trasferta in terra siciliana sia riconducibile alla gestione dei traffici illeciti».

(link)

Il conflitto ambientale nei media. Il caso Ilva.

[di Gaetano del Monte su siba-ese.unisalento]

Premessa metodologica

Lo scritto che presentiamo non è organizzato secondo i canoni della saggistica tradizionale delle scienze sociali. Si tratta di una ricostruzione prevalentemente giornalistica di una serie di eventi che hanno come scenario la città di Taranto e come epicentro l’Ilva, il gigante siderurgico italiano responsabile di un inquinamento territoriale conclamato. L’indagine che abbiamo condotto fornisce una chiave di lettura delle vicende tarantine, e si presenta come un materiale organizzato per ulteriori approfondimenti, auspicabilmente anche di tipo teorico.

Non si tratta di sole vicende recenti: come il lettore noterà, dopo aver sintetizzato i termini della questione venuta alla ribalta negli ultimi anni in seguito al lavoro della magistratura tarantina, la nostra ricostruzione torna agli anni ’70, quando l’Ilva era ancora un titano occupazionale e solo alcune voci dell’ambientalismo mettevano in guardia dalle conseguenze della produzione. Le nostre fonti sono in questo caso fonti giornalistiche d’archivio. Passiamo poi a esaminare i fatti che riguardano il modo di gestire il rapporto con l’informazione da parte dell’Ilva in anni recenti, e che hanno comportato l’uso come fonti delle intercettazioni telefoniche disposte dalla magistratura, le cui trascrizioni compaiono nelle pertinenti ordinanze dei giudici. Infine abbiamo intervistato alcuni testimoni privilegiati della vicenda Ilva, saggisti e operatori dell’informazione che hanno avuto modo di esprimere la loro opinione sul presente e il futuro prossimo della vicenda.

L’insieme dei materiali che abbiamo raccolto indica che dietro i fatti riportati si manifestano conflitti importanti, che prendono le mosse dal più impressionante tra essi: quello tra salute e lavoro. L’inquinamento proveniente dall’Ilva agisce sulla salute individuale e collettiva dei lavoratori e dei cittadini di Taranto, ma l’Ilva è anche l’azienda che dà lavoro a tanti. Dietro l’aspetto conflittuale originario si nascondono gli altri: quello tra azienda e lavoratori, quello interno ai sindacati, quello tra istituzioni e azienda, tra azienda e ambientalisti, tra sindacati e ambientalisti, tra media e azienda. Come vedremo, sono state messe in atto numerose tecniche di prevenzione del conflitto attraverso forme di accomodamento più o meno legali: tra queste, abbiamo dedicato il maggior spazio al processo di fidelizzazione della stampa locale promosso dalla direzione delle relazioni pubbliche dell’Ilva, e che emerge dalla documentazione pubblica sulle indagini della magistratura.

Lo scritto si chiude con un’appendice relativa agli eventi susseguitisi dal 17 febbraio 2012, data di apertura del processo per disastro ambientale a carico dell’Ilva, al 9 aprile 2014, data in cui la Corte Costituzionale respinge i ricorsi dei giudici di Taranto sul cosiddetto decreto “Salva Ilva”. Da allora, l’intensità conflittuale appare in diminuzione, e viceversa sembra aumentare l’intento di uscire dall’emergenza, promuovendo una soluzione di Stato ai drammatici problemi – quantomeno quelli più immediati – del colosso siderurgico.

Leggi tutto | Scarica il pdf 

*Articolo pubblicato su siba-ese.unisalento.it,titolo originale: “l conflitto ambientale nell’agenda mediatica. Il caso Ilva”, H-Ermes n°3, 2014

“E’ il sorriso che mi dà la forza di cercare compulsivamente la meraviglia”

Una mia intervista (presa da qui)

giulio_cavalli_facebookIn Italia c’è un teatro diverso. Un teatro che prende per mano lo spettatore e lo accompagna in una trama fatta di persone, volti conosciuti, realtà familiari. Storie non necessariamente positive o negative perché nel teatro – come nella vita – a volte a far sì che un racconto si caratterizzi in un modo o nell’altro è lo sguardo dei presenti che assistono al racconto. Quello che c’è di certo in questo teatro diverso in Italia, sono gli interpreti, quelli che la storia non solo l’hanno vissuta, ma la raccontano. Ecco, fra questi, uno dei migliori è Giulio Cavalli. Attore, regista, scrittore, Cavalli passa con la stessa facilità dalla stesura di libri alla recita sul palcoscenico, passando – spesso, ma non solo – attraverso il tema comune della lotta alla mafia.

Iniziamo dal teatro. Uscendo dai tuoi spettacoli, subito fuori dalla sala, si avverte immediatamente un senso di catarsi, un lungo respiro seguito quasi subito dal peso delle parole e delle storie che racconti. E forse è meglio che le seconde seguano il primo. 

“Credo che il teatro debba essere il luogo delle domande, piuttosto che delle risposte e quindi mi immagino il teatro come il luogo dove ci si allena a porsi le domande che per disabitudine, per ignoranza, per superficialità o per troppo dolore non ci siamo mai posti”.

Il tuo è un teatro di narrazione che racconta quelle che tu definisci “storie che crescono senza essere raccontate, a volte perché puzzano, a volte perché stanno sotto la cassa di un negozio perché la vetrina deve essere rassicurante”.

“A differenza della televisione in teatro l’umanità della storia è l’ingrediente fondamentale per la credibilità, mi ritengo molto fortunato nell’avere un pubblico che mi affida il proprio ascolto e per questo scelgo con cura quasi ossessiva le storie (e i particolari di quelle storie) da raccontare”.

Da “Do ut Des” in poi tema centrale del tuo teatro diventa la mafia. O forse sarebbe meglio dire l’antimafia, perché la sensazione che si ha stando sul marciapiede immediatamente all’uscita da un tuo spettacolo, è che le tue siano opere contro la mafia e non “sulla” mafia.

“Certo. I miei spettacoli sono “contro”, spesso. E comunque desidero un teatro che prenda posizione, che abbia una posto all’interno della storia. Altrimenti sarebbe cronaca. Non è il mio lavoro”.

Se tu ti interessi alla mafia, anche la mafia si interessa a te. E lo fa perché “dà fastidio la polvere che si alza dagli spettacoli teatrali”. Quando poi alza il tiro, tu fai i nomi e i cognomi dei mafiosi del Nord e del Sud, ma soprattutto inizi a girare per le scuole, raccontando un’altra Italia ad alunni ed insegnanti.

“Se davvero la mafia, come dicevano Borsellino e Falcone, è un fenomeno culturale è semplice cogliere quanto siano importanti gli “operatori” culturali in questa battaglia e l’educazione è la radice della cultura. Davvero credo che a scuola si costruiscano i lettori, gli spettatori che saranno”.

C’è una frase del tuo repertorio che voglio segnalare ed è quella per cui “l’antimafia si fa innamorandosi dello Stato e non dei salvatori”. Eppure, la sensazione, è che ci sia ancora bisogno di un eroe che guidi fuori dalla palude, anche – forse – per un forte senso di disillusione nello Stato. 

“La mitizzazione facilita la delega: “questo è un mio mito e affido a lui questa battaglia” è l’errore più comune e pericoloso in cui si possa incorrere”.

Uno di questi eroi, che forse non dovrebbe esserlo, è il magistrato palermitano Nino Di Matteo. Insieme ad altre 7000 persone hai lanciato un appello – ancora firmabile – per chiedere a Renzi di intervenire garantendo maggiore protezione tramite la concessione di un bombjammer al giudice. Un appello che si apre con un “facciamo finta che il tritolo acquistato e nascosto nei bidoni su ordine di Matteo Messina Denaro (così come la racconta un pentito) sia esploso…”

“Di Matteo è la personificazione di un isolamento che serve per preparare il terreno alla delegittimazione. Difendere lui significa difendere le buone pratiche dell’antimafia, significa avere imparato la lezione della storia”

Alla base del tuo lavoro resta un impegno civico che fa eco alle parole dello stesso Nino Di Matteo quando dice “non pensate mai, non cedete nemmeno alla tentazione di pensare anche per un solo momento che la vostra passione civile sia inutile o tradita, per favore non lo pensate mai…”.

“Non credo che sia possibile scindere i comportamenti sopra o sotto il palcoscenico. Il teatro “civile” (espressione che proprio non amo) implica una linearità di comportamenti”.

Capitolo Mafia Capitale. Se per il Procuratore DNA, Vincenzo Macrì “Milano è la capitale della ‘ndrangheta”, Roma non sembra essere da meno. Politici, malviventi di lungo corso, infiltrazioni di ogni genere. Sembra un film già visto, sempre lo stesso.

“Non credo che sia un film già visto: credo che sia lo stesso film e noi ci siamo fatti convincere che fosse giunto alla fine; del resto anche i personaggi sono gli stessi Mafia Capitale racconta anche quanto siamo stati scarsi nell’allenamento della memoria”.

C’è un capitolo di questa storia che non viene raccontato ed è quello che colpisce il terzo settore, quelle persone che, scrivi, sono “uomini e donne che hanno scelto di sacrificare (anche economicamente) la propria vita in nome di un valore da professare nel proprio mestiere”.

“Il terzo settore in Italia ha sostituito il welfare che avrebbe dovuto garantirci lo Stato. Lucrare sul terzo settore è un reato ancora più odioso dal punto di vista etico: significa arricchirsi sulle fragilità degli altri”.

Chiudiamo con una sentenza di questi giorni. La Corte di Cassazione ha confermato i quattro ergastoli per l’omicidio di Lea Garofalo, una storia che hai seguito dall’inizio alla fine.

“Bene. Lo aspettavamo tutti. Adesso mi piacerebbe anche sentire un po’ più di coraggio quando raccontiamo perché Lea sia rimasta sola fino alla morte. Chissà che qualcuno non riesca a dire che Lea Garofalo è stata abbandonata dallo Stato e anche da un bel pezzo dell’antimafia, prima di morire. E poi è stata riadattata da morta”.

Dimenticavo. Su quel marciapiede, davanti al teatro, c’è un terzo sentimento che si avverte, forte, ed è il sorriso che regala uno spettacolo che fa ridere riuscendo a parlare al cittadino prima e alla persona poi.

“Ed è il sorriso che mi dà la forza di cercare compulsivamente la meraviglia”.

In questo momento, Giulio Cavalli è impegnato in un raccolta fondi per il suo prossimo spettacolo, con una storia che potete conoscere e sostenere qui.

In Italia i poveri sono i più poveri d’Europa

Dai recenti dati dell’Ocse e del Social Insti­tute Moni­tor Europe in tema di dise­guale distri­bu­zione del red­dito (il mani­fe­sto del 17 dicem­bre), risulta con­fu­tato il prin­ci­pale mito ideo­lo­gico dei libe­ri­smi vec­chi e nuovi, l’idea secondo cui una mag­giore dise­gua­glianza offri­rebbe ai più ric­chi cospi­cue oppor­tu­nità d’investimento e quindi ali­men­te­rebbe la cre­scita, con bene­fi­cio di tutti.

Il ragio­na­mento (sul quale fanno leva da sem­pre le cam­pa­gne della destra neo­li­be­rale e della stessa sini­stra social-liberista) pro­spetta uno sce­na­rio nel quale, favo­rendo la cre­scita, la tem­po­ra­nea rinun­cia alla giu­sti­zia sociale garan­ti­rebbe, poi, giu­sti­zia e benes­sere, poi­ché ben pre­sto il mag­gior benes­sere «sgoc­cio­le­rebbe» anche sui più poveri. Pec­cato che ogni evi­denza – e la dram­ma­tica crisi nella quale ci dibat­tiamo – mostra il con­tra­rio.

Non solo la dise­gua­glianza tende ad autoa­li­men­tarsi radi­ca­liz­zando le spe­re­qua­zioni, ma mar­cia altresì di pari passo con la sta­gna­zione. L’ingiustizia, insomma, avvan­tag­gia sol­tanto i più ric­chi, men­tre rovina la stra­grande mag­gio­ranza della popo­la­zione. E il libe­ri­smo si con­ferma per quel che è: un’arma letale, oltre che sul piano etico e della coe­sione sociale, anche sul ter­reno economico.
Ma i dati Ocse e Sime offrono anche l’opportunità di riflet­tere su talune spe­ci­fi­cità del caso ita­liano, per rica­varne una rap­pre­sen­ta­zione sin­te­tica degna di atten­zione. La società ita­liana è sem­pre più dise­guale. Que­sto è un trend euro­peo e glo­bale, ma in Ita­lia le spe­re­qua­zioni appa­iono par­ti­co­lar­mente forti. Per citare il dato più signi­fi­ca­tivo, al 40% più povero della popo­la­zione ita­liana va il 19,8% del red­dito com­ples­sivo, con­tro una media euro­pea del 21,2. I poveri in Ita­lia sono dun­que più poveri rispetto alla media. Non bastasse, ciò che a que­sto punto si evita accu­ra­ta­mente di aggiun­gere è che anche que­sta meda­glia ha, come tutte, il suo rovescio.

Se i poveri sono più poveri, i ric­chi sono sem­pre più ric­chi, e molto pro­ba­bil­mente tra i due feno­meni sus­si­ste qual­che con­nes­sione. Basti anche qui il dato più rile­vante: la ric­chezza netta delle fami­glie ita­liane aveva nel 2012 un valore pari a 8 volte il valore del red­dito dispo­ni­bile, men­tre nel 2001 il rap­porto era di “appena” il 6,7. Men­tre il pub­blico si impo­ve­ri­sce e si inde­bita, il pri­vato regi­stra dun­que un signi­fi­ca­tivo aumento delle pro­prie sostanze.

Il dato sul quale si pone sem­pre l’accento per avva­lo­rare l’impellente neces­sità delle cosid­dette riforme strut­tu­rali è l’ingente debito pub­blico, supe­riore ai 2.200 miliardi. Nes­suno mai ricorda invece che la ric­chezza netta delle fami­glie ita­liane (le meno inde­bi­tate d’Europa) supera (dati del 2013) gli 8.700 miliardi di euro.

Il che sarebbe un bene, inten­dia­moci. Se que­sta enorme ric­chezza pri­vata non fosse distri­buita in modo disa­stro­sa­mente ini­quo (lo è in modo molto più spe­re­quato del red­dito: l’indice che misura la dise­gua­glianza della sua distri­bu­zione è pari a 62,3%, con­tro il 33,3% dell’indice di con­cen­tra­zione dei red­diti, onde il 10% delle fami­glie più ric­che pos­siede oltre il 45% della ric­chezza). Se non con­vi­vesse con una povertà dif­fusa e dram­ma­tica. Se, pro­prio in forza della sua col­lo­ca­zione, non con­cor­resse al tempo stesso al declino del paese e al suo cre­scente indebitamento.

Anche a pro­po­sito del debito pub­blico – a causa del quale l’Italia è un sor­ve­gliato spe­ciale sui mer­cati finan­ziari e in Europa, ed è costretta a una con­ti­nua ridu­zione di piani di spesa ormai incom­pa­ti­bili con la manu­ten­zione del wel­fare – si impone un chia­ri­mento, prima di trarre qual­che rapida con­clu­sione.

Si sa – anche se si suole sor­vo­lare – che il debito schizza in alto, irre­ver­si­bil­mente, quando, a par­tire dai primi anni Ottanta, governi e Banca d’Italia deci­dono di tra­sfor­mare il grande capi­tale pri­vato in pre­sta­tore, esen­tan­dolo di fatto dall’obbligo fiscale di con­tri­buire in misura ade­guata alla spesa pub­blica, anche attra­verso il cosid­detto divor­zio tra Banca d’Italia e Tesoro. Il fatto che il debito ita­liano si rad­doppi tra il 1981 e il ’95 (pas­sando dal 58 al 121% del pil) non è la con­se­guenza di una spesa pub­blica abnorme e meri­te­vole di tagli dra­co­niani, ma della scelta tutta poli­tica di remu­ne­rare il capi­tale pri­vato sol­le­van­dolo dalla gran parte degli oneri fiscali da una parte e limi­tando la cre­scita dei salari reali dall’altra.

Anche que­sto intrec­cio per­verso tra debito pub­blico ed eva­sione fiscale ha molto a che fare con la dise­gua­glianza, in quanto il mec­ca­ni­smo di remu­ne­ra­zione del debito opera nel senso di un con­ti­nuo e cre­scente spo­sta­mento di red­dito dal pub­blico al pri­vato, e in par­ti­co­lare alla quota più ricca della popo­la­zione, attra­verso il paga­mento degli interessi.

Il risul­tato del pro­cesso è pla­stico, nella sua para­dos­sa­lità. Da debi­tore insol­vente (da anni in l’Italia l’economia som­mersa è sti­mata rap­pre­sen­tare in modo sta­bile più del 15% del Pil), il capi­tale si tra­sforma magi­ca­mente in cre­di­tore, e costringe lo Stato a una spesa per inte­ressi che dal 1992 è l’unica causa della cre­scita dell’indebitamento pub­blico (e che, nel giro di trent’anni, ha com­por­tato un esborso di oltre 2.100 miliardi, pari quasi all’intero ammon­tare del debito). Anche così si spiega il fatto che la pro­prietà del debito sia oggi per il 50% in mano ai pri­vati ita­liani (fami­glie, ban­che e altre isti­tu­zioni finan­zia­rie). Il che, se da una parte riduce la dipen­denza del paese dagli attac­chi spe­cu­la­tivi, dall’altra con­corre ad accre­scere la dise­gua­glianza tra chi prende gli inte­ressi e chi paga le tasse.
In que­sto qua­dro l’evasione fiscale (circa 140 miliardi annui) ali­menta un ulte­riore dia­bo­lico cir­colo vizioso poi­ché, oltre a essere una delle prin­ci­pali cause dell’alto debito pub­blico, rende anch’essa sem­pre più dise­guale la distri­bu­zione del red­dito, facendo sì che il pre­lievo fiscale col­pi­sca soprat­tutto il lavoro dipen­dente (sul quale in Ita­lia grava la più alta ali­quota impli­cita di tas­sa­zione di tutta la Ue).

Ora pro­viamo a rileg­gere que­ste risul­tanze den­tro un qua­dro uni­ta­rio e sin­te­tico. Che cosa ne sor­ti­sce? Della cre­scente dise­gua­glianza e ini­quità del sistema si è detto: la pola­riz­za­zione vede con­trap­po­sti set­tori sociali poveri (sem­pre più vasti e più poveri) a set­tori ric­chi (pro­por­zio­nal­mente sem­pre più ric­chi). Se a ciò si aggiunge che tale mec­ca­ni­smo di ripartizione/riproduzione della ric­chezza nazio­nale fun­ziona in pre­senza di una per­cen­tuale pato­lo­gica di evasione/elusione fiscale e di un volume di cor­ru­zione sti­mato in circa 60 miliardi annui, ci pare se ne possa sin­te­ti­ca­mente con­clu­dere che, nella sua odierna con­fi­gu­ra­zione, l’economia ita­liana – il cosid­detto sistema-paese – non è sol­tanto un mec­ca­ni­smo fon­dato su ingiu­sti­zie eco­no­mi­ca­mente rovi­nose, ma anche un sistema di domi­nio lar­ga­mente basato sull’illegalità.

Lascian­dosi andare per l’ennesima volta, in que­sti giorni, a ester­na­zioni poli­ti­ca­mente impe­gna­tive a soste­gno del governo in carica, il pre­si­dente della Repub­blica ha pero­rato la causa della sta­bi­lità, rite­nendo di potere così moti­vare, alla vigi­lia delle dimis­sioni, le pro­prie scelte e il pro­prio inter­ven­ti­smo, a tanti auto­re­voli osser­va­tori apparso spesso costi­tu­zio­nal­mente discu­ti­bile. Sem­bra un po’ il Sordi della “Grande guerra”, che esor­tava a «fare i buoni» i sol­dati che, in fila, atten­de­vano di essere spe­diti al fronte. Qua­lora potes­simo per­met­terci di rivol­ger­gli una domanda, gli chie­de­remmo se la sta­bi­lità alla quale si è rife­rito riguardi per caso anche que­sto stato di cose

(Il Manifesto 24 dicembre)

e amare uomini senza capirne il senso.

Natale 1989

aldameriniNatale senza cordoglio
e senza false allegrie ..
Natale senza corone
e senza nascite ormai:
l’inverno che già sfiorisce
non vede il suo «capitale»,
non vede un tacito figlio che forse un giorno d’inverno
buttò i suoi abiti ai rovi.
Marina cara,
la giovinezza ti lambisce le spalle
ed è onerosa come la poesia:
portare la giovinezza
è portare un peso tremendo,
sognare fughe e fardelli d’amore
e amare uomini senza capirne il senso.
Il divario di una musica
Il divario della tua fantasia
non possono che prendere spettri,
perciò ogni tanto te ne vai lontana
in cerca di una perduta ragione di vita
in cerca certamente della tua anima

(Alda Merini)

«Non sono un eroe ma un soldato ferito»

«Non sono un eroe ma un soldato ferito». Così si definisce Fabrizio, il medico di Emergency contagiato in Sierra Leone e ricoverato allo Spallanzani di Roma. In una lettera aperta, il medico per la prima volta racconta la sua storia sottolineando come Ebola «sia un mostro terribile e temibile, ma che può essere sconfitto». «L’ultima cosa che ricordo della Sierra Leone – racconta Fabrizio – è il viaggio fino all’aeroporto assieme ai colleghi e la partenza sull’aereo dell’Aeronautica Militare. Poi l’arrivo in Italia all’interno di un contenitore ermetico e il trasporto all’Istituto Spallanzani. Ricordo i primi due o tre giorni trascorsi in isolamento, i farmaci sperimentali che ho iniziato, l’estremo malessere, la nausea, il vomito, l’irrequietezza; pensavo in quei momenti ai pazienti che avevo contribuito a curare, stavo provando le stesse cose che loro avevano provato e cercavo di capire qualcosa di più di ciò che mi stava succedendo, cercavo di mantenere la mente lucida e distaccata per un’analisi ‘scientificà». «Ma il malessere era troppo e troppo difficile restare concentrato. Poi – prosegue- la trasfusione di plasma cui credo sia seguita una reazione trasfusionale e la luce della coscienza che grossomodo si spegne. Mi hanno raccontato di essere stato in rianimazione, di essere stato intubato e sedato; so di avere firmato una serie di consensi per i protocolli sperimentali poi, dopo questo, non ho memoria di nulla, mi mancano due settimane, quelle del mio aggravamento, durante le quali mi sono in qualche modo battuto contro il mio nemico; e pare che sia riuscito a batterlo».

«Da qualche giorno sto meglio – spiega il medico – lentamente ho ripreso in mano il controllo del mio corpo, riesco a muovermi in autonomia; da qualche giorno ho iniziato a leggere qualcosa di ciò che è stato pubblicato a proposito della mia vicenda; in larga misura parole di conforto, di sostegno e augurali ma anche parole che possono essere giustificate solo dall’ignoranza. Non credo di essere un ‘eroe’ ma so per certo di non essere un ‘untore’: sono solo un soldato che si è ferito nella lotta contro un nemico spietato». «Una delle cose più belle che ho letto in questi giorni – prosegue – è un articolo online che parla di solidarietà, di rispetto, di dignità. E non posso non pensare ai miei colleghi di Emergency che, anche in questi giorni, sono in Sierra Leone cercando di fare sempre di più e sempre meglio per curare i malati di Ebola».

E conclude: « Ebola è un mostro terribile e temibile ma sono convinto che la sconfitta di questo mostro dipenda in larga misura dal fronte che lo ostacola. Spero che questo fronte possa allargarsi e opporsi a Ebola in modo sempre più efficace».