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2015

Non dimenticarsi mai nemmeno gli anni da dimenticare

2016

Se dovessi farmi un augurio, pensare a che forma dovrebbe avere il prossimo anno che tra qualche ora viene, non potrei evitare di ricordarmi di mio nonno Cleto, alla sera, nei giorni che vengono appena prima di capodanno. Stava fermo per decine di minuti, in salotto, come potrebbe stare ore una statua di sabbia quando non c’è vento, e fissava un punto qualsiasi che, potevi scommetterci, non era mica intorno ma dentro. Sì, dentro: seduto in un angolo nel suo costato. Con quello sguardo lì.

Non aveva mai raccontato della guerra, della prigionia o di com’era bella quell’Italia povera ma fremente di speranza; riuscivamo a sapere qualcosa di lui se capitava uno di quei compiti a scuola per cui interroghi il nonno. Poca roba: dettagli minimi, le vicende generali e un racconto anestetizzato prima di essere detto. Eppure bastava un suo cenno e subito gli ritrovavi il capitolo scritto in qualche parte della faccia, in una ruga che diceva della paura o in un angolo della bocca che aveva scritto di tutto il freddo. Gente così, i nonni della mia generazione, con la voce come sottotitoli di tutto il resto che comunque scorre.

Quando si incastrava zitto, il nonno, nei giorni ultimi di dicembre, l’ho capito solo dopo, stava seduto nel suo costato per fare l’inventario di tutte le storie che conteneva. Dentro quel silenzio c’era l’operosità polverosa e compita di chi infila faldoni attaccandogli le etichette sui dorsi, c’era dentro tutto lo sforzo di un muscolo, quello della memoria, che al contrario di tutti gli altri si allunga invecchiando, agile con gli anni mentre tutto intorno si sclerotizza.

Ecco, se dovessi pensare ad un buon proposito per l’anno che viene vorrei che davvero si possa non dimenticare. Non dimenticare nemmeno le ingiustizie minime o i propositi più lontani. Tenere tutto. Ricordarsi bene di non dimenticare soprattutto gli anni da dimenticare. Come questo che passa. Come nonno.

(scritto per Left)

Stupire i sensi e chetare i nervi

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Stefano Bartezzaghi da leggere su ‘nuovo’ e ‘possibile’:

Quindi, quando diciamo «nuovo» non stiamo dicendo molto: in un certo senso è nuova persino la ripetizione ennesima di un jingle o di un luogo comune e le strategie di comunicazione spesso consistono proprio nel fare apparire come nuovo qualcosa che tanto nuovo non è. Il bello è che ciò che si vuol far apparire come nuovo deve essere ripetuto un numero sufficiente di volte da farlo diventare banale: si potrebbe dire che la comunicazione contemporanea consiste nello stupire i sensi e chetare i nervi.

Si potrebbe pensare che la sinistra sia per il nuovo di rivoluzione e di riconfigurazione e la destra sia per il nuovo di ripetizione e di variazione. Categorie come quelle di «conservatori», «moderati», «progressisti», «radicali» potrebbero infatti suggerirlo, nei loro nomi. Purtroppo queste categorie sono davvero vecchie, nel senso che si riferiscono a un mondo in cui la trasmissione del potere era appena passata dai modelli dinastici e aristocratici a quelli democratici.

Nella società di massa non è più così. Quello che è successo quando il nuovo ha fatto mitologia è che il nuovo, il progresso, le riforme, la riconfigurazione e addirittura la rivoluzione non sono stati più bandiere esclusive della sinistra e valori a questa intrinseci. Per dirla in termini gloriosamente vecchi, questa è stata una vera e propria perdita di egemonia.

Anche la creatività, altro termine orribilmente ambiguo, è passata da Bruno Munari e dal movimento del Settantasette ai consigli di amministrazione e ai ministri di economia e finanza. Anzi alla nostra epoca persino i conservatori, con il nome che si ritrovano, hanno dovuto procedere a un rebranding vero e proprio, inventando la buffa sigla «neocon», un ossimoro incarnato da due mozziconi di parola che assieme non dovrebbero poter stare. Ma i conservatori non hanno conservato sé stessi: si vede che hanno fatto qualche progresso.

Inutile dire che spesso il «nuovo» non si realizza neppure: è un’apparenza di nuovo e tutta la polemica da talk show è l’accusa reciproca di propugnare come nuovo qualcosa che nuovo non è, ma è anzi profondamente vecchio. Sempre senza mai mettere in dubbio l’equivalenza fra nuovo e buono, cioè la valorizzazione positiva del nuovo. Cioè la sua mitologia che è anche un’ideologia vera e propria, poiché è ideologica ogni assegnazione a priori di valori positivi e negativi.

Il risultato finale è che, divenuto mitologia, il nuovo non è più utile a orientare alcun discorso verso le differenze fra destra e sinistra che ora, non a caso, vengono date per cadute. Non ci sono linee: c’è una sfera unificata da quel principio di retorica da campagna elettorale per cui il nuovo è buono e bisogna sempre propugnarlo almeno a parole. Partiti e personalità che aspirano direttamente al potere devono collocarsi obbligatoriamente dentro a quella sfera.

Chi vuole ragionarci sopra, si accomodi fuori, dove non c’è obbligo di nuovismo (ma da dove, probabilmente, non si arriva a vincere elezioni). A meno che a cambiare non sia, innanzitutto, questa situazione.

Ma per cambiarla basta la critica e la smitizzazione del Nuovo? C’è di che dubitarne, per quanto il lavoro puntiglioso di analisi critica delle proposte e delle riforme sia necessario.

Il resto è qui.

Le piantiamo e poi guardiamo non crescere le mele

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«Nonno!»
Sorride identica ad Angela, sua madre. Ha anche le mani e la forza di Michele e il sorriso del Nonno: è una bambina con tutta la famiglia dentro. Michele l’aveva im- maginata così, sua nipote, quando provava a rassicurare suo nonno su una famiglia che non si sarebbe fermata con la sua partenza.
«Michela, adesso andiamo con nonno ai campi, vuoi?» «Sì!»
«Com’è andata a scuola?»
«Bene.»
«Cosa hai mangiato?»
«Al ristorante…»
«Ah, già al ristorante.»
Per Michela la mensa scolastica è il ristorante, i campi
una meravigliosa vacanza e qualsiasi amico gentile il suo nuovo fidanzato.
«E cosa hai mangiato al ristorante?»
«La pasta. Col bis.»
Mondragone verso gli orti diventa quasi irlandese: verde, umida più forte dello scirocco.
«Mettiamo le mele, nonno?»
«Non crescono le mele, Michela. Stanno in montagna.
Dove c’è il freddo, la neve.»
«Qui a Mondragone non nevica, no.»
«No, quindi niente mele.»
«E proviamo a mettere le mele?»
«Non crescono.»
«E noi le mettiamo e poi le guardiamo insieme che non
crescono, allora.» «Va bene.»

(Mio padre in una scatola da scarpe, p 154)

Il prurito per i giornalisti

È una buona notizia che il potere continui a non essere in cordiali rapporti con i giornalisti. La vedo così, semplicemente, come la normale dinamica funzionale tra il controllore e il controllato dove il giornalismo, quando è capace di rendersene conto, è un buon cane da guardia.

Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda. Il suo compito è additare ciò che è nascosto, dare testimonianza e, pertanto, essere molesto.

(Horacio Verbitsky)

Cuffaro e il figlio di Vespa

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Di Federico Vespa, negli atti dell’inchiesta, si legge: “In merito alla possibilità per Cuffaro Salvatore di dialogare con l’esterno si segnalano alcuni volontari che hanno operato all’interno della casa circondariale di Rebibbia (in primis Federico Vespa) i quali si sono più volte adoperati per mettere in comunicazione Cuffaro con i suoi familiari e con persone di sua fiducia. È stato in questo modo consentito al Cuffaro di continuare ad occuparsi di proprie attività, questioni ed interessi nonostante le preclusioni connesse al suo status di detenuto”.

Ma davvero bisogna votare Sala perché vince lui?

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L’ultimo in ordine di tempo è Umberto Ambrosoli qui, persona che stimo e di cui sono amico. Però sono in molti quelli che dicono “votare Sala per battere il centrodestra”. Che poi sono gli stessi che dicevano che avremmo dovuto votare Boeri alle primarie di cinque anni fa perché “Pisapia non vincerebbe mai contro la Moratti”. Andatevi a rileggere le dichiarazioni delle scorse elezioni a Milano e vi accorgerete quanto siamo un Paese con una memoria labile o, forse, semplicemente quanta impunità ci sia da parte di chi giustifica tutte le volte le stesse scelte (che per carità possono essere condivisibili o no) con gli stessi modi.

Ma davvero a Milano, in questa Milano, dopo questi cinque anni, ancora qualcuno dice che bisogna votare qualcuno perché vince? Ma davvero dopo Renzi, dopo che ci avevano detto che forse “non era tanto di sinistra” ma serviva “per vincere”, dopo tutto quello che è successo in Italia ancora ci si ostina a raccontare questa storiella?

Ma soprattutto: ma davvero esiste gente che valuta le possibilità di vittoria come elemento fondante per esprimere un’opinione politica?

Perché davvero allora non l’avrebbe fatta nessuno la Resistenza. Altro che fratelli Cervi.

Firenze capitale

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L’ultima fiorentina è Gaia Checcucci, che ha trovato un comodo posto al Ministero all’Ambiente. Renzissima e fiorentina. Ovviamente. In precedenza AN, Alleanza Nazionale. Avanti così. Bravissimi tutti.

(Ah, la foto è del New York Times, per dire)

Fiorella Mannoia e il meschino nascondino

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Non c’è niente di peggio per un artista che incrociarsi con i politici vigliacchi. In realtà credo che valga per tutti i cittadini e per qualsiasi professione ma per il lavoro che mi sono ritrovato a fare devo ammettere che non c’è niente di più frustrante del dover parlare di progetti artistici con politici ignoranti, presuntuosi, inetti. Anzi, forse c’è qualcosa di peggio, sì: i tiepidi. Sono questa nuova forma di piccoli fanfani che pascolano felici sul dorso del renzismo mentre fingono (male) di essere di centrocentrocentrocentrocentrosinistra. A me, nella mia breve carriera, è capitato di incontrare il tiepido Lorenzo Guerini sindaco di Lodi che, ogni volta che lo spettacolo ambisse ad un divertimento e un pensiero appena superiore alla trippa con la raspadura mandava eroicamente in avanscoperta i suoi assessori per tenere “le carte a posto”. Ecco, quando penso a Renzi, non riesco a non collegarlo al fanfanino Guerini diventato portavoce del fanfanone fiorentino.

Per questo sono sicuro che alla fine l’annullamento del concerto di capodanno a Roma di Fiorella Mannoia sia l’ennesimo caso del vigliacco perseguire quiete che non disturbi. E anche se ci diranno che è una scelta fatta per soldi o per ordine pubblico non ci credo. Non credeteci. Funziona sempre così: si trova sempre qualcuno prono a disposizione perché non accada qualsiasi cosa possa indispettire il padrone. E figurarsi se non prendono al balzo la palla di un Prefetto messo come reggiseno imbottito nella capitale. Per farcele apparire più grosse.

LoSchermo.it su ‘Mio padre in una scatola da scarpe’ (di Nazareno Giusti)

(L’articolo originale è qui)

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LUCCA, 14 dicembre– Giulio Cavalli è un attore che, però, vive sotto scorta. Qualche decennio fa sarebbe stato definito un “artista impegnato”. Classe 1977, dopo aver mosso i primi passi nell’ambiente teatrale lodigiano, sin dall’inizio di carriera i suoi spettacoli sono stati contraddistinti da un forte impegno sociale e memorialistico. La visibilità arriva nel 2006 con “Kabum” in cui assieme a Paolo Rossi ripercorre la Resistenza italiana e “Linate 8 ottobre 2001: la strage” in cui cercava di far chiarezza sulla tragedia costata la vita a 118 persone. “Io sono solo lo spazzacamino della nebbia, non faccio un processo di piazza” chiarì a un giornalista dopo la prima dello spettacolo.

Nel 2011 in collaborazione con il regista Renato Sarti scrive e interpreta “L’innocenza di Giulio” a cui ha fatto seguito il volume, edito da Chiarelettere “L’innocenza di Giulio: Andreotti e la mafia”. Impegnato anche attivamente nel consiglio regionale della Lombardia prima con Idv, poi passa a Sel.
Due anni fa Luigi Bonaventura, per anni reggente della cosca crotonese dei Vrenna-Bonaventura e poi passato tra le fila dei pentiti, ha raccontato il progetto per farlo uccidere organizzato dalla cosca ‘ndranghetista De Stefano-Tegano.

Ma Cavalli sotto scorta c’era già dopo che, nel 2006, dopo la messa in scena dello spettacolo “Do Ut Des”, sulla vita dell’immaginario aspirante boss Totò Nessuno, aveva avuto numerose minacce di stampo mafioso. La sua vita era cambiata, irrimediabilmente, anche se non sembra pentirsene. Certo è difficile, ma può far affidamento alla compagna, la soubrette Miriana Trevisan.

Recentemente ha dato alle stampe, per i tipi di Rizzoli, “Mio padre in una scatola di scarpe”. Non solo un romanzo ma un progetto come sottolinea l’autore che lo porterà in scena in un reading che girerà l’Italia.

Il libro sarà presentato domani a Lucca, nella Sala Puccini di palazzo Bernardini, alle ore 18, grazie alla Società Lucchese dei Lettori con il Coordinamento imprenditoria femminile di Confindustria Lucca. Ad introdurre la serata, in cui Francesca Severini dialogherà con lo scrittore, il Prefetto di Lucca, Giovanna Cagliostro a cui farà seguito l’intervento del Provveditore Donatella Buonriposi. Mercoledì, invece, Cavalli parlerà ai ragazzi delle scuole superiori di legalità e lotta alle società criminali.

Il libro, che Cavalli ha definito “romanzo civile”, è nato dall’incontro con la figlia di quello che poi è divenuto il protagonista dello scritto: Michele Landa (“non è un eroe, e neppure un criminale. Tutto ciò che desidera è coltivare il suo orto e godersi la famiglia; vuole guardarsi allo specchio e vederci dentro una persona pulita” come sottolinea Cavalli).

Landa faceva la guardia giurata, il metronotte a Mondragone, in provincia di Caserta. Nell’alba livida del 6 settembre 2006 è stato ucciso a colpi di pistola e poi bruciato nella sua macchina. Aveva 61 anni, ancora qualche anno di turni di notte e sarebbe andato in pensione.

Il suo compito, quella notte maledetta era di piantonare un ripetitore per la telefonia mobile. Proprio in quel periodo i clan della camorra avevano scoperto il redditizio furto delle apparecchiature telefoniche. Forse Michele aveva visto o saputo qualcosa di troppo, qualcosa che non doveva. Il suo corpo fu ritrovato quattro giorni dopo carbonizzato in un fosso. Qualche trafiletto in cronaca locale, niente di più.

“Quella di Michele Landa- come sottolinea Cavalli che spera con il suo libro di far riaprire il caso sulla morte della guardia giurata che è ancora senza colpevoli-è una storia profondamente umana, non una vicenda “banalmente” di mafia, bensì la vicenda di un amore e di una famiglia molto unita che si ritrova coinvolta per caso in un dramma più grande di lei. A Mondragone Landa non era un eroe dell’antimafia; era, più semplicemente, una persona che non voleva avere a che fare con la camorra perché non voleva avere a che fare con l’illegalità in generale. Eppure è stato costretto a soccombere. Esatto, voleva solo seguire le regole con la geniale semplicità che fu dei nostri nonni. Negli anni l’antimafia ha spesso agito in modo vile, guidata da un sentimento di vendetta, io stesso dopo quello che mi è successo mi ero imbruttito, incattivito  Ho poi capito che a meritare ammirazione sono coloro che con la semplicità di cui sopra non perdono di vista i propri valori quando capita loro l’occasione di essere giusti”.

Insomma, si può fare antimafia anche raccontando storie piccole, minime ma importanti perché ci fanno capire ancora meglio la tragica attualità dell’argomento. “Dobbiamo ricominciare- conclude Cavalli- a innamorarci della legalità e ancor prima dei fragili e delle fragilità: la nostra attenzione dovrebbe essere rivolta verso chi ha paura, non verso chi ha le condizioni o la fortuna di poter non avere paura. La vera rivoluzione culturale e sociale avverrà quando comprenderemo che ognuno ha la propria battaglia personale da combattere, quindi va rispettato e trattato con gentilezza, come diceva Carlo Mazzacurati. “Mio padre in una scatola da scarpe” è un romanzo civile perché in un’epoca dominata dal cattivismo come quella attuale rilancia il buonismo non come debolezza, ma come senso di responsabilità sociale”.