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Gennaio 2015

I “Mattarella” (secondo Pippo Fava)

da “I cento padroni di Palermo” di Giuseppe Fava (“I Siciliani”, giugno 1983):

Giuseppe Fava
Giuseppe Fava

Ecco: qui diventa perfetta la storia di Piersanti Mattarella, da raccontare tuttavia con umana sincerità affinché ognuno possa capire le cose come veramente accaddero e quindi trarre una ragione, un cifrario per le cose che continuano ad accadere.
Piersanti Mattarella, il cui personaggio oramai è entrato nella leggenda politica siciliana dell’ultimo decennio, era figlio di Bernardo Mattarella, padrone della Sicilia occidentale, quando Palermo ancora ammetteva un solo padrone. Saggio e collerico, amabile e violento, culturalmente modesto, ma irruento parlatore, Mattarella non disdegnava alcuna alleanza potesse servire al potere del suo partito ed a quello suo personale. Non aveva scrupoli. Se parte dei suoi voti provenivano dai ras delle province mafiose, che ben venissero, erano egualmente voti di cittadini italiani. E se quei grandi elettori chiederanno un favore in cambio, Bernardo Mattarella (come si suole dire) non si faceva negare. Contro di lui dissero e scrissero cose terribili, ma in realtà non riuscirono a provare praticamente niente, se non che la sua potenza, appunto per questa assenza di testimoni contrari, era perfetta.
Il vecchio Mattarella aveva eletto il figlio Piersanti, suo delfino ed erede, lo avvezzò al potere con la stessa puntigliosa prudenza, la medesima pignoleria, che la regina madre usa di solito per il principino di Windsor: prima buon studente, poi eccellente cavallerizzo, ufficiale della marina imperiale, un matrimonio di classe regale, un viaggio per tutto il Commonwealth ad affascinare sudditi. Al momento opportuno il trono. Piersanti era alto, bello, intelligente, amabile parlatore, ottimo laureato, viveva a Roma, parlava con buona dizione. Era anche un uomo molto gentile ed infine aveva una dote che poteva essere un difetto: era candido. O forse fingeva di esserlo.
Quando il padre ritenne il momento opportuno, lo fece venire a Palermo perché fosse candidato al consiglio comunale. Il Comune di Palermo è una palestra politica senza eguali, nella quale si apprendono tutte le arti della trattativa per cui l’affare politico è sempre diverso da quello che viene, ufficialmente discusso, e si affinano le arti della eloquenza per cui si dice esattamente il contrario di quello che è, anche gli avversari lo sanno e però fanno finta di non saperlo, e quindi l’oratore riesce a farsi perfettamente capire senza destare lo scandalo dei testimoni. Piersanti imparò quanto meno a capire quello che gli altri dicevano. Poi venne eletto dall’assemblea regionale siciliana, dove in verità – provenendo i deputati da tutte e nove le province dell’isola, le arti sono più grossolane, ci sono anche la cocciutaggine dei nisseni, la imprevedibile fantasia dei catanesi, la finta bonomia dei siracusani, tutto è più facile e difficile, e tuttavia anche qui Piersanti Mattarella fu diligente e attento. Valutava, ascoltava, sorrideva, imparava, giudicava. Venne eletto assessore alle finanze. Fu in quel periodo che vennero confermati gli appalti delle esattorie alla famiglia Salvo.
Esigere le tasse può sembrare odioso, e tuttavia è necessario, consentito, anzi preteso dalla legge. L’esattore deve essere avido, preciso e implacabile. I Salvo erano perfetti. Il loro impero esattoriale si estendeva da Palermo a Catania, un giro di centinaia di miliardi, forse migliaia. C’era una bizzarra clausola nell’accordo stipulato fra gli esattori Salvo e l’assessore regionale: cioé gli esattori avevano facoltà di scaglionare nel tempo i versamenti. Premesso che la Giustizia impiega magari due anni per riconoscere un’indennità di liquidazione a un povero lavoratore, ma ha una capacità fulminea di intervento contro lo stesso poveraccio che non paga le tasse), gli esattori Salvo avevano il diritto di esigere subito le somme dovute dai contribuenti, epperò la facoltà (detratte le percentuali proprie) di versare a scaglioni le somme dovute alla Regione. Praticamente per qualche tempo avevano la possibilità di tenere in banca, per proprio interesse, somme gigantesche. Non c’era una sola grinza giuridica. Avevano fatto una proposta e la Regione aveva accettato.
Infine Piersanti Mattarella venne eletto presidente della Regione. E improvvisamente l’uomo cambiò di colpo. Aveva studiato tutte le arti per diventare Mazzarino e improvvisamente divenne Pericle. Indossò tutta la dignità che dovrebbe avere sempre un uomo; dignità significa intransigenza morale, nitidezza nel governo, onestà nella pubblica amministrazione. Piersanti Mattarella fu capace di pensare in grande e pensare in proprio. Figurarsi la società palermitana degli oligarchi, i cento padroni di Palermo. Come poteva vivere un uomo così, e per giunta vivere da presidente? Nessuno capirà mai se Mattarella venne ucciso perché aveva fermato una cosa che stava accadendo, oppure perché avrebbe potuto fermare cose che invece ancora dovevano accadere.

Expo non diventi la fiera dell’ingiustizia

Una lettera interessante per Matteo Renzi sottoscritta da molti amici milanesi:

Signor pre­si­dente del Con­si­glio, i gior­nali ci infor­mano che lei sarà a Milano il 7 feb­braio per lan­ciare un Pro­to­collo mon­diale sul Cibo, in occa­sione dell’avvicinarsi di Expo.

Ci risulta che la regia di tale pro­to­collo, al quale lei ha già ade­rito, sia stata affi­data alla Fon­da­zione Barilla Cen­ter for Food &Nutri­tion. Una mul­ti­na­zio­nale molto ben inse­rita nei mer­cati e nella finanza glo­bale, ma che nulla ha da spar­tire con le poli­ti­che di sovra­nità ali­men­tare essen­ziali per poter sfa­mare con cibo sano tutto il pianeta.

Expo ha siglato una part­ner­ship con Nestlé attra­verso la sua con­trol­lata S. Pel­le­grino per dif­fon­dere 150 milioni di bot­ti­glie di acqua con la sigla Expo in tutto il mondo. Il Pre­si­dente di Nestlé World­wide già da qual­che anno sostiene l’istituzione di una borsa per l’acqua così come avviene per il petro­lio. L’acqua, senza la quale non potrebbe esserci vita nel nostro pia­neta, dovrebbe quindi essere tra­sfor­mata in una merce sui mer­cati inter­na­zio­nali a dispo­si­zione solo di chi ha le risorse per acquistarla.

Que­sti sono solo due esempi di quanto sta avve­nendo in pre­pa­ra­zione dell’Expo.

Scri­veva Van­dana Shiva: «Expo avrà un senso solo se par­te­ci­perà chi s’impegna per la demo­cra­zia del cibo, per la tutela della bio­di­ver­sità, per la difesa degli inte­ressi degli agri­col­tori e delle loro fami­glie e di chi il cibo lo mette in tavola. Solo allora Expo avrà un senso che vada oltre a quello di grande vetrina dello spreco o, peg­gio ancora, occa­sione per vicende di cor­ru­zione e di cemen­ti­fi­ca­zione del territorio».

«Nutrire il Pia­neta, Ener­gia per la vita», recita il logo di Expo. Ma Expo è diven­tata una delle tante vetrine per nutrire le mul­ti­na­zio­nali, non certo il pianeta.

Come si può pen­sare infatti di garan­tire cibo e acqua a sette miliardi di per­sone affi­dan­dosi a coloro che del cibo e dell’acqua hanno fatto la ragione del loro pro­fitto senza pre­stare la minima atten­zione ai biso­gni pri­mari di milioni di persone?

Expo si pre­senta come la pas­se­rella delle mul­ti­na­zio­nali agroa­li­men­tari, pro­prio quelle che deten­gono il con­trollo dell’alimentazione di tutto il mondo, che pro­du­cono quel cibo glo­ba­liz­zato o spaz­za­tura, che deter­mina con­tem­po­ra­nea­mente un miliardo di affa­mati e un miliardo di obesi.

Due facce dello stesso pro­blema che abi­tano que­sto nostro tempo: la povertà, in aumento non solo nel Sud del mondo ma anche nelle nostre peri­fe­rie sem­pre più degradate.

Expo non parla di tutto ciò.

Non parla di diritto all’acqua pota­bile e di acqua per l’agricoltura familiare.

Non parla di diritto alla terra e all’autodeterminazione a coltivarla.

Non si rivolge e non coin­volge i poveri delle mega­lo­poli di tutto il mondo, non si inter­roga su cosa man­giano, non parla ai con­ta­dini pri­vati della terra e dell’acqua, scac­ciati attra­verso il land e water grab­bing, (la ces­sione di grandi esten­sioni di ter­reno e di risorse idri­che a un paese stra­niero o a una mul­ti­na­zio­nale), espulsi dalle grandi dighe, dallo svi­luppo dell’industria estrat­tiva ed ener­ge­tica, dalla per­dita di sovra­nità sui semi per via degli Ogm e costretti quindi a diven­tare pro­fu­ghi e migranti.

E non cam­bia certo la situa­zione qual­che invito a sin­goli per­so­naggi della cul­tura pro­ve­nienti da ogni angolo della terra e impe­gnati nella lotta per la giu­sti­zia sociale. Al mas­simo serve per creare qual­che diversivo.

In Expo a fianco della pas­se­rella delle mul­ti­na­zio­nali si dispiega la pas­se­rella del cibo di «eccel­lenza». Expo parla solo alle fasce di popo­la­zione ricca dell’occidente e que­sto ne fa ogget­ti­va­mente la vetrina dell’ingiustizia ali­men­tare del mondo, nella quale la povertà si misu­rerà nel cibo: in quello spaz­za­tura per le grandi masse e in quello delle ecce­denze e degli scarti per i poveri.

In que­sti mesi, di fronte a tutto quello che è acca­duto nella nostra città, dall’ille­ga­lità allo sper­pero di ingenti risorse eco­no­mi­che per l’organizzazione di Expo in una comu­nità dove la povertà cre­sce quo­ti­dia­na­mente e che avrebbe urgenza di ben altri inter­venti, noi abbiamo matu­rato un giu­di­zio nega­tivo su Expo.

Ma come cit­ta­dini mila­nesi non pos­siamo fug­gire la respon­sa­bi­lità di impe­gnarci affin­ché l’obiettivo di «Nutrire il pia­neta» possa essere meno lontano.

Per que­sto avan­ziamo a lei e alle auto­rità poli­ti­che ed ammi­ni­stra­tive che stanno orga­niz­zando Expo alcune pre­cise richieste.

Il Pro­to­collo mon­diale sulla nutri­zione che lei intende lan­ciare, pur dicendo anche alcune cose con­di­vi­si­bili, evi­tando i nodi di fondo, rimane tutto all’interno dei mec­ca­ni­smi ini­qui che hanno gene­rato l’attuale situazione.

Noi le chie­diamo di porre al cen­tro la sovra­nità ali­men­tare e il diritto alla terra negati dallo stra­po­tere e dal con­trollo delle mul­ti­na­zio­nali, in par­ti­co­lare quelle dei semi.

Chie­diamo che sia affer­mata una netta con­tra­rietà agli Ogm, che sono il para­digma di que­sta espro­pria­zione della sovra­nità dei con­ta­dini e dei cit­ta­dini, il perno di un modello glo­ba­liz­zato di agri­col­tura e di pro­du­zione di cibo che inquina con i diser­banti, con­suma ener­gia da petro­lio, è idro­voro e con­tri­bui­sce al 50% del riscal­da­mento climatico.

Le chie­diamo che venga affer­mato il diritto all’acqua pota­bile per tutti attra­verso l’approvazione di un Pro­to­collo Mon­diale dell’acqua, con il quale si con­cre­tizzi il diritto umano all’acqua e ai ser­vizi igienico-sanitari san­cito dalla riso­lu­zione dell’Onu del 2011.

Chie­diamo che ven­gano rimessi in discus­sione gli accordi di part­ner­ship tra Expo e le grandi mul­ti­na­zio­nali, che, lungi dal rap­pre­sen­tare una solu­zione, costi­tui­scono una delle ragioni che impe­di­scono la piena rea­liz­za­zione del diritto al cibo e all’acqua.

Chie­diamo che si decida fin d’ora il destino delle aree di Expo non lascian­dole uni­ca­mente in mano alla spe­cu­la­zione e agli appe­titi della cri­mi­na­lità orga­niz­zata e che, su quei ter­reni, venga indi­cata una sede per un’istituzione inter­na­zio­nale fina­liz­zata a tute­lare l’acqua, potrebbe essere l’Autho­rity mon­diale per l’acqua, e il cibo come beni comuni a dispo­si­zione di tutta l’umanità. Una sede dove i movi­menti sociali come i Sem Terra, Via Cam­pe­sina, le reti mon­diali dell’acqua, le orga­niz­za­zioni popo­lari e i governi locali e nazio­nali discu­tano: la poli­tica per la vita.

Una sede nella quale la Food Policy diventi anche Water Policy, dove si discuta la costi­tu­zione di una rete di città che assu­mano una Carta dell’acqua e del Cibo, nella quale si inizi a con­cre­tiz­zare local­mente la sovra­nità ali­men­tare, il diritto all’acqua, la sua natura pub­blica, la non chiu­sura dei rubi­netti a chi non è in grado di pagare, la costi­tu­zione di un fondo per la coo­pe­ra­zione inter­na­zio­nale verso coloro che non hanno accesso all’acqua pota­bile nel mondo.

Una sede nella quale alle isti­tu­zioni e ai movi­menti sociali, venga resti­tuita la sovra­nità sulle scelte essen­ziali che riguar­dano il futuro dell’umanità.

«La Terra ha abba­stanza per i biso­gni di tutti, ma non per l’avidità di alcune per­sone» affer­mava Gan­dhi. E que­sta verità oggi è più che mai attuale e ci richiama alla nostra respon­sa­bi­lità, ognuno per il ruolo che svolge.

Firmatari della lettera al Presidente del Consiglio: Moni Ova­dia, Vit­to­rio Agno­letto, Mario Ago­sti­nelli, Piero Basso, Franco Cala­mida, Mas­simo Gatti, Anto­nio Lareno, Anto­nio Lupo, Emi­lio Moli­nari, Sil­vano Pic­cardi, Paolo Pinardi, Basi­lio Rizzo, Erica Rodari, Anita Sonego, Guglielmo Spettante.

* Articolo pubblicato su ilmanifesto.info, titolo originale: “Caro Renzi, Expo non diventi la vetrina dell’ingiustizia”, 21 Gennaio 2015.

Sottomissione e il coraggio di farci cambiare

UnknownHo appena finito di leggere  Sottomissione di  Michel Houellebecq e devo dire che pur avendolo acquistato sull’onda emotiva dei fatti di Charlie Hebdo è un romanzo che vale la pena di leggere e vale la pena lasciare decantare. Houellebecq è innanzitutto un grande romanziere e quindi non è difficile appallottolarsi sotto il calore della sua scrittura ma nella Parigi di un indeterminato futuro in cui il protagonista del libro vive l’ascesa al governo del partito musulmano ci sono molti tratti dell’europa di oggi. Sì, dell’Europa piuttosto che l’Islam, perché Sottomissione è soprattutto un romanzo sulla nostra ignoranza del cambiamento, sull’essere maleducati nel cogliere le differenze di un ambiente che ci modifica sotto traccia, infidamente liquido, portandoci alla sensazione di una naturale accettazione del corso degli eventi. In fondo anche a noi (come a François, studioso di Huysmans e protagonista del libro) è capitato in questi ultimi anni di impegnarci a cambiare il mondo senza mai avere imparato a farci cambiare dal mondo, sempre fissi sulle nostre convinzioni tradendo un ostinazione come compiacente virtù piuttosto che una sclerotizzazione delle nostre antenne che ascoltano là fuori. E forse davvero anche noi siamo finiti per riconoscere (senza avere il coraggio di confidarlo a nessuno) che la sottomissione, nostra e delle nostre aspirazioni, ha qualcosa di vergognosamente comodo e confortante. Mancanza di responsabilità, ecco, come condono sempre valido.

Il libro lo potete comprare qui

Mafia di Ostia: 200 anni al clan Fasciani

Carmine Fasciani
Carmine Fasciani

Quattordici condanne e cinque assoluzioni per la cosiddetta Mafia di Ostia. Per la prima volta a Roma condanne per associazione mafiosa, in un processo che si reggeva essenzialmente sulle dichiarazioni di un pentito di mafia, Sebastiano Cassia, ritenuto collaboratore di giustizia attendibile benchè, osservano gli avvocati della difesa, in sede processuale alcune sue dichiarazioni siano risultate imprecise sui tempi. Prima non era mai accaduto, neanche ai tempi della Banda della Magliana. Pesanti le condanne, per un totale di oltre duecento anni, fra cui 28 anni inflitti al capoclan Carmine Fasciani e 25 alla figlia Sabrina. ritenuta dall’accusa, vero referente dell’associazione. Il giudice ha pienamente riconosciuto anche i risarcimenti alle parti civili, fra cui la Regione Lazio e il Comune di Roma. Per Carmine Fasciani la Procura aveva chiesto 30 anni.

Le condanne

In particolare ad essere condannati il fratello di Carmine Fasciani, Terenzio (17 anni), l’altra figlia Azzurra (11 anni). Inoltre sono stati condannati il nipote Alessandro Fasciani a 26 anni di reclusione, la moglie di Carmine Fasciani Silvia Bartoli (16 anni e 9 mesi). Insieme con loro quelli che sono considerati gli appartenenti al clan sono Riccardo Sibio (25 anni e 3 mesi), Gilberto Colabella (13 anni), Luciano Bitti (13 anni e 3 mesi), Eugenio Ferramo (10 anni), Danilo Anselmi (7 anni), Mirko Mazzoni (12 anni), Ennio Ciolli (3 anni) e Emanuele Coci (2 anni). Ad essere assolti sono stati Nazareno Fasciani, fratello di Carmine, Gilberto Inno, Fabio Guarino nonchè Vito e Vincenzo Triassi. Questi ultimi appartenevano all’omonimo clan che secondo gli investigatori agiva nella zona di Ostia e del litorale in pieno contrasto con il gruppo Fasciani.

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Operazione Aemilia: mentre la mafia mafiava dove guardava il PD?

“Solo tre mesi fa, in direzione regionale del Pd, dissi chiaramente: io ho contrastato la ‘ndrangheta e voi mi state escludendo da tutto. Nonostante le consultazioni dei circoli, non sono entrata nella lista per le elezioni regionali, e così voi fate fuori una persona che ha contrastato la criminalità organizzata. Ma quando ci sono persone oggetto di pressioni di questa natura non bisogna lasciarle sole, perché significa metterle in pericolo. Voi in questo modo date un segnale alla ‘ndrangheta che ho combattuto. Queste parole oggi le riconfermerei tutte, anche se Stefano Bonaccini sembrò allora molto infastidito dal mio discorso e cercò pure di interrompermi. Ma io sono andata avanti. Perché questa è una cosa che i mafiosi hanno capito e l’ha capito anche la magistratura”.

Sonia Masini era presidente della Provincia di Reggio Emilia e nella maxinchiesta sulle infiltrazioni della criminalità organizzata in Emilia il suo nome è quello di una persona nel mirino degli indagati. Nelle intercettazioni degli investigatori si trova che Giuseppe Pagliani, allora capogruppo del Pdl in Provincia, ora agli arresti, avrebbe voluto riservarle “una “curetta” come dio comanda”. E lei, politica classe 1953, un cursus honorum che la vede anche capogruppo Ds in Regione dal 1995 al 2000, quelle pressioni le aveva avvertite, eccome. Ma, denunciò allora e ribadisce oggi, “io sono stata lasciata sola nel mio partito o con pochissime persone intorno”.

“Io avrei chiamato l’Antimafia”. Il suo intervento in direzione regionale venne accolto da reazioni gelide, come riportò all’epoca anche Roberto Balzani, sfidante di Bonaccini alle primarie. “Masini ha lanciato un’accusa pesante ai vertici del partito e sa cos’è successo? – raccontava Balzani in un’intervista – nulla. Io al posto di Bonaccini avrei subito chiamato il procuratore nazionale antimafia”. Gli investigatori però erano già al lavoro, mentre Masini veniva circondata da quella che oggi definisce “un’atmosfera di sufficienza verso le mie denunce, come se io volessi a tutti i costi una poltrona che avevo già occupato anche per troppo tempo, come se fossi semplicemente stizzita per non essere stata ricandidata per l’ennesima volta”. Molti dirigenti allora sbuffarono, liquidando quell’intervento come una protesta sopra le righe per esser rimasta fuori prima dalla lista per le elezioni europee e poi da quella regionale.

“Attaccata e non difesa dal partito”. “Io in questi anni nel Pd sono stata molto attaccata e poco difesa – si sfoga adesso – le lotte interne al Pd di Reggio avevano creato una competizione forsennata e io in quel momento non avevo abbastanza potenti a proteggermi, o forse anche qualcuno contro”. Ma la realtà che Masini si trovava a fronteggiare era quella durissima delineata nell’inchiesta. “Cercavo di spiegare al Pd: guardate che sono sotto pressione, come presidente della Provincia c’è una ditta che mi ha chiesto 15 milioni di danni. Sono comportamenti che possono intimidire un amministratore. Ma non importava niente a nessuno, veniva prima la lotta per il potere”. Un potere che lei non ha più: “Non ho lasciato il partito, ma non ho incarichi e non mi invitano quasi più neanche alle riunioni”.

E la Masini scrive a Renzi. Delusa dai vertici locali, Masini si rivolge direttamente al segretario nazionale Matteo Renzi, che già ha dimostrato sensibilità ed attenzione, nel caso della denuncia del sindaco anticemento di San Lazzaro Isabella Conti. “Ora io Renzi sicuramente lo informerò  dice Masini  e chiederò anche conto del fatto che sono stata tolta dalle liste per le europee. Quando la lista è arrivata a Roma, il mio nome c’era, poi è stato tolto”.

“Fenomeno mafioso sottovalutato”. Secondo Masini, alla base di tutto c’è una sottovalutazione del fenomeno mafioso in Emilia: “All’inizio non lo conoscevamo e l’abbiamo sottovalutato, ma dal 2010 qualcosa è cambiato. Abbiamo cominciato ad assistere ai roghi notturni, una tecnica di intimidazione fin lì mai vista, fino a che ora abbiamo tutte le informazioni, i nomi e gli indirizzi. E non abbiamo più scuse. Per me è stato un dolore continuo, perché io amo visceralmente la mia terra, i nostri servizi, il nostro modello”. Un modello che Masini dice di aver tentato di difendere. “Io il mio dovere l’ho fatto, e quando ho dovuto revocare un appalto perché era arrivata l’interdittiva antimafia, l’ho fatto anche se ho dovuto combattere, pure dentro al Pd  chiosa  ma è troppo facile fare i comunicati stampa dopo. Bisogna aiutare prima, quando c’è bisogno di prove, e invece si incontrano solo omertà e ricerca di interessi personali. Almeno avessero riflettuto sul perché a Reggio, alle ultime regionali, ha votato solo il 35% degli elettori…”.

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A Padova la camorra non esiste: sequestrati 130 milioni di euro

Beni per 130 milioni di euro sono stati sequestrati in otto regioni dai Carabinieri del Nucleo investigativo di Padova, alle prime ore di oggi, ad un campano, legato ad un noto clan della camorra, sospettato di riciclaggio di ingenti somme di denaro.

I militari dell’Arma hanno dato esecuzione ad un decreto di sequestro preventivo d’urgenza, emesso dal Tribunale di Padova, su proposta della Direzione distrettuale antimafia di Venezia.

L’operazione vede impegnati circa 400 carabinieri, che stanno operando, con il supporto dei comandi provinciali interessati, nelle province di Padova, Vicenza, Treviso, Belluno, Ferrara, Bologna, Siena, Roma, Napoli, Salerno, Taranto, Matera, Cosenza e Varese.

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Il poliziotto (autista del questore) che andava a braccetto con la ‘ndrangheta in Aemilia

Attenzione a credere che tutto sia bianco o nero, che ci siano i sicuramente buoni e i sicuramente cattivi, che ci siano le mafia da una parte e lo Stato dall’altra senza avere la capacità di ricordarsi sempre che la forza delle mafie sta negli “amici” dentro le istituzioni:

imageE’ accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso e di accesso abusivo alle banche dati della polizia. E di minacce a una giornalista, Sabrina Pignedoli del Resto del Carlino. Minacce perché non venisse scritto nulla a proposito delle vicende che squassarono un anno fa la politica reggiana: le elezioni amministrative per la scelta del sindaco e, ancora prima, le tormentate primarie del centrosinistra per scegliere il candidato sindaco.

Il suo nome, tra quelli che all’alba sono finiti in manette è legato a filo doppio alle ultime vicende politiche cittadine. Vicende che hanno coinvolto sia il centrodestra, sia il centrosinistra. Domenico Mesiano, dopo anni passati alle dipendenze del questore, come autista e fact-totum, da circa un anno era stato trasferito.

Il suo nome spunta per la prima volta nero su bianco su una lettera anonima. E’ quella che, a meno di una settimana dal voto per le amministrative arriva ai giornali: parla delle parentele del candidato sindaco Luca Vecchi e in particolare di sua moglie, l’allora dirigente comunale Maria Sergio.

La ricostruzione delle parentele acquisite di Vecchi arriva fino ai cugini di terzo e quarto grado della moglie. E tra queste parentele c’è anche quella del poliziotto Mesiano che, secondo l’anonimo, era colui che alla vigilia delle primarie del centrosinistra per la scelta del candidato sindaco, telefonò – da un ufficio della questura – a un referente della comunità albanese. Per dire di votare Vecchi.

La reazione del candidato sindaco Vecchi fu durissima: negò di aver mai conosciuto o avuto contatti con Mesiano e soprattutto, andò in procura a sporgere denuncia contro ignoti.

In realtà però – lo si scoprirà soltanto più avanti – il nome di Mesiano era già spuntato in altre carte, sia pure assai più riservate di quella lettera del corvo. Il nome del poliziotto figurerebbe anche tra quelli dei commensali della famosa cena, in un ristorante di Montecchio, a cui avrebbero preso parte pregiudicati e imprenditori cutresi, assieme al consigliere comunale Giuseppe Pagliani, finito anch’egli in manette nell’operazione Aemilia.

Massoneria, Vaticano e Cassazione: quanti amici ha il boss Nicolino Grande Aracri

nicolinoMassoneriaVaticano e Cassazione. Il boss Nicolino Grande Aracri riusciva ad aprire porte che la ‘ndrangheta di Cutro, paese in provincia di Crotone, neanche immaginava. Quanto scritto nel decreto di fermo emesso dalla Direzione distrettuale di Catanzaro lascia intendere che i 46 arresti di ieri, nell’ambito dell’inchiesta “Aemilia” che in Emilia Romagna ha portato in carcere altre 117 persone, sono solo l’inizio di un’indagine che rischia di svelare retroscena impensabili per chi crede che le cosche mafiose siano solo un’accozzaglia di uomini con la coppola e la lupara.

Non è un caso, infatti, che quando è stato arrestato Nicolino Grande Aracri, il cui clan è egemone anche in Emilia, i carabinieri hanno sequestrato anche una spada simbolo dei cavalieri di Malta. La Procura ha messo le manette ai polsi anche a un noto imprenditore di legnami, Salvatore Scarpino detto “Turuzzo”, affiliato alla ‘ndrangheta ma soprattuto, secondo i magistrati, si tratta di un uomo che “per conto della consorteria cutrese si impegna in operazioni finanziarie e bancarie, e mantiene contatti diretti e frequenti con il capo locale Grande Aracri Nicolino”, ponendosi “da intermediario tra questi e altri soggetti estranei all’associazione al fine di consentire l’avvicinamento a settori istituzionali anche per il tramite di ordini massonici e cavalierati”.

È lo stesso Scaprino che, intercettato, spiega l’importanza del rapporto tra boss e massoni: “Ho un problema, per esempio, lo vedi per esempio ho un problema su Roma, qualsiasi tipo di problema… Gli dico io ho questo problema. Loro hanno il dovere … siccome è una massoneria, siamo. Cioè uno, quando uno di noi ha un problema, si devono mettere a disposizione… E devono risolverlo il problema”. Ecco perché – scrivono i magistrati – “le indagini hanno portato alla luce un allarmante aspetto relativo al livello di relazioni, sociali ed istituzionali, che l’organizzazione criminale è in grado di tessere per le necessità ed i fini della stessa”.

In sostanza, grazie alla massoneria, alcuni soggetti pur se non affiliati alla ‘ndrangheta sono in grado di assicurare al sodalizio entrature nelle sedi istituzionali più disparate come quelle della Chiesa e della magistratura, per garantire, – è scritto nel provvedimento di fermo – “’pressioni’ e capacità di intervento circa le vicende processuali degli affiliati”.

Il troncone calabrese dell’inchiesta “Aemilia”, infatti, ha svelato la capacità del boss Nicolino Grande Aracri di muoversi con facilità nei corridoi del Vaticano e, addirittura, di arrivare fin dentro le stanze della Suprema Corte di Cassazione.

Secondo la Procura, infatti, la cosca di Cutro ha cercato di aggiustare un processo a Roma per far annullare la decisione del Tribunale del Riesame di Catanzaro che aveva confermato l’arresto per Giovanni Abramo, cognato del boss Grande Aracri. Quella sentenza è stata annullata con rinvio dalla Cassazione ma la Dda non è riuscita ad accertare il coinvolgimento di un magistrato. È stato arrestato però, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, Benedetto Stranieri, un ex maresciallo dei carabinieri diventato avvocato, il quale avrebbe avvicinato “soggetti – scrivono i pm – gravitanti in ambienti giudiziari della Corte di Cassazione, anche remunerandoli, al fine di ottenere decisioni giudiziarie favorevoli ad Abramo Giovanni”.

Qualcosa si inceppa e i telefoni iniziano a fornire elementi utili agli inquirenti che sospettano ci sia stato quantomeno un tentativo di corruzione. Dopo la sentenza favorevole, infatti, la cosca non avrebbe ricompensato gli avvocati Benedetto e Lucia Stranieri. Proprio quest’ultima, intercettata, si sfoga con il fratello: “Io ho fatto figure di merda con l’avvocato di là… figure di merda con questo qua… figure di merda con il giudice perché ho detto che è parente mio”.

Dai contatti di alcuni esponenti del sodalizio, inoltre, è emersa la figura di tale Grazia Veloce, una giornalista residente a Pomezia, “soggetto asseritamente molto vicino a personalità di rilievo del Vaticano e della politica italiana”. È lei che presenta l’avvocato Stranieri al boss Nicolino Grande Aracri il quale, nel corso di una conversazione, vantava i suoi buoni contatti nella capitale: “Noi a Roma abbiamo buone… buone amicizie… buone strade”.

Una di queste porta in Vaticano ed è stata intrapresa dalla cosca di Cutro per tentare di far trasferire sempre Giovanni Abramo (detenuto per associazione mafiosa e omicidio) dal carcere di Sulmona a quello di Siano, a Catanzaro, in modo da stare più vicino alla famiglia. Un tentativo che non riesce, ma che consente ai magistrati di verificare la capacità della consorteria di Cutro di infiltrarsi nel mondo ecclesiastico.

Nicolino Grande Aracri si era rivolto all’amica giornalista in stretto contatto con il monsignore Maurizio Costantini, nunzio apostolico e, nel 1995, “cappellano di sua Santità”. Un prelato, non indagato, che sarebbe capace di smuovere cardinali su richiesta di Grazia Veloce la quale avrebbe favorito il boss (come risulta da alcune conversazioni) anche per alcuni “investimenti ed affari in Montenegro”.

La giornalista e il monsignore si sentono e i carabinieri annotano le loro conversazioni, così come quelle intrattenute con la moglie dell’affiliato che doveva essere trasferito di carcere. L’incontro in Vaticano avviene e Grazia Veloce (intercettata dai carabinieri) lo comunica subito ai parenti del detenuto: “Il nostro piccolo Giovanni tra una settimana starà vicino casa sua”. Il monsignore manda i saluti alla moglie di Abramo: “Ha detto che è stata generosa e splendida. Gli ha lasciato 500 euro che lui ha preso volentieri per i suoi poveri”.

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