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Li armano e poi li combattono /7

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(di Lorenzo Cremonesi, inviato a Erbil da Il Corriere della Sera del 13 agosto 2014)

Viaggiando in piena notte tra Erbil, la capitale della zona autonoma curda, e la cittadina di Dahuk, sulla provinciale che porta in Turchia, salta all’occhio quanto precaria sia la situazione. Dove ancora a fine luglio la minaccia dell’invasione islamica appariva remota, e comunque sotto controllo, ora vige l’incertezza. Larghe fette di territorio sono prese e perdute in operazioni della durata di poche ore. «Siamo pienamente consapevoli del fatto che, nonostante l’intervento militare americano, le forze del Califfato potrebbero ancora attaccarci e riuscire a mettere in dubbio l’esistenza stessa delle aree autonome curde», ammette Fuad Hussein, capo del gabinetto del presidente della provincia autonoma del Kurdistan iracheno Massoud Barzani. «Per questo motivo ringraziamo gli Stati Uniti per il prolungamento dei loro blitz e chiediamo alla comunità internazionale di fornirci qualsiasi aiuto militare possibile», aggiunge.

All’origine dell’evidente disorientamento tra i curdi e le loro richieste di assistenza sta il totale effetto sorpresa causato dell’offensiva lanciata dalle brigate islamiche ai primi di agosto. E’ come se il vecchio mito degli indomiti guerriglieri curdi sempre all’erta sulle montagne fosse un poco ossidato. I giovani sono meno propensi al sacrificio. Il benessere degli ultimi anni li distrae. E gli eroi delle guerre contro Saddam Hussein sono in pensione. Pure, in tanti tra questi rispondono alla mobilitazione, anche se con i baffi grigi e la pancetta. «Sinceramente non ci aspettavamo che i radicali sunniti potessero attaccarci tanto presto. Ci avevano provato a giugno e li avevamo battuti. Quindi avevano concentrato i loro sforzi per la conquista di Bagdad. Ancora adesso stentiamo a comprendere la loro logica. Nell’arco di poche ore hanno distolto uomini e mezzi dal loro obbiettivo principale per lanciarli verso nord», dice il generale Helgurd Hikmet Mela Ali, responsabile per la comunicazione dei peshmerga.

La spiegazione più calzante giunge però dall’esame degli arsenali di carri armati, autoblindo, artiglierie, mitra e munizioni di ogni calibro catturati dalle brigate islamiche all’esercito regolare iracheno durante la loro presa di Mosul e la strabiliante serie di vittorie nel centro-nord del Paese ai primi di giugno. Allora ben sei divisioni regolari irachene armate ed equipaggiate di tutto punto alzarono le mani e si dettero alla fuga praticamente senza combattere. «Da quel momento le ancora disordinate e male armate milizie islamiche hanno subito una trasformazione radicale. Da forse 30.000 guerriglieri più o meno improvvisati sono diventati un vero esercito con oltre 100.000 soldati dotato di armi e mezzi molto più sofisticati dei nostri. Noi usiamo ancora le armi prese all’esercito di Saddam Hussein battuto degli americani nel 2003, loro posseggono il meglio della tecnologia bellica made in Usa. Sappiamo che in due grandi basi a Mosul e una ancora più vasta a Beiji erano stoccati centinaia di gipponi blindati ultimo modello, batterie da 150 millimetri in grado di sparare a oltre 30 chilometri di distanza, oltre a depositi immensi di munizioni di ogni calibro e tipo. Ormai il Califfato è uno Stato, un’entità territoriale organizzata che controlla un’armata super equipaggiata e con ottimi soldati addestrati sui campi di battaglia, specie quelli nella Siria degli ultimi tre anni», spiega ancora Hussein.

Non stupisce che i primi raid Usa abbiano colpito alcune batterie di cannoni che stavano per sparare su Erbil e il suo aeroporto internazionale. Gira voce che gli islamici posseggano anche missili terra-aria, ma non ci sono conferme. «I nostri peshmerga si accorsero subito che i loro bazooka anticarro erano impotenti di fronte alle blindature dei mezzi in mano al nemico. Nella piana di Ninive, attorno ai villaggi cristiani, l’unica scelta possibile è stata la ritirata». Lo stesso avvenne per le unità attestate attorno alla diga che forma il gigantesco bacino idrico di Mosul. I comandi curdi non credono ora che i capi del Califfato intendano distruggerla. «Se lo facessero, l’intera città di Mosul e parte di quella di Kirkuk, assieme a diversi pozzi petroliferi, sparirebbero sotto 11 metri d’acqua. Ma a pagare il prezzo sarebbe anche il Califfato, visto che proprio a Mosul ha posto il suo quartier generale. Usano la diga per ricattarci: se noi dovessimo cercare di riprenderla e loro si sentissero minacciati, allora sì che potrebbero distruggerla», dice Hikmet.

Uno scenario diverso presenta invece la regione della montagna di Sinjar, nelle regioni occidentali al confine con la Siria, ove sono tutt’ora intrappolati migliaia di yazidi. «Quella zona è complicata. Tutto attorno vivono tribù arabe sunnite, che sono passate nei ranghi del Califfato, specie dopo la sua cattura della città di Tel Afar. Ciò rende difficilissimi i movimenti dei peshmerga. Le colonne islamiche hanno preso i villaggi uno per uno, causando la fuga di massa delle popolazioni. I nostri soldati sono accorsi per salvare le loro stesse famiglie e si sono uniti all’esodo dei profughi», ricorda Hussein. La presenza massiccia di volontari locali ha dato un importante vantaggio agli islamici: la conoscenza del terreno. I comandanti curdi guardano preoccupati alla commistione tra jihadisti fanatici arrivati dall’estero (parlano di ceceni, libici, afgani, cinesi, ma anche olandesi, francesi, inglesi) e guerriglia sunnita locale. Per combatterli chiedono carri armati, moderne armi anticarro, aerei, elicotteri, munizioni. Conclude Hussein: «Noi non possiamo farcela da soli. Voi europei dovete capire che la nostra battaglia è la vostra battaglia. Dopo Erbil il Califfato mirerà a Roma, Londra, Parigi».