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Grazie Dario. Però che male.

Ci sono persone che sai che sono prossime all’andarsene eppure non trovi la chiave inglese per avvitare il dolore e prepararlo al momento. Niente. Ci sono persone, nella vita, che ti mangeresti il cervello per non avergli detto una parola che avresti dovuto pronunciare: ci sono persone che forse non hai ringraziato abbastanza o che per soggezione e ebete pudicizia non gli hai detto quanto ti abbiano cambiato la visione del mondo.

Quando mi dissero che avrei potuto lavorare con lui rimasi come un bambino davanti al primo ciuffo di zucchero filato nella vita. Per chi è cresciuto studiando e indossando le maschere Dario era l’inarrivabile scellerato capace di non avere bisogno né di maschere né di orpelli: Dario era una maschera. Il piego della bocca, l’andar su e giù degli occhi, i cerchi con le mani e quel passo strascicato e truffaldino hanno aggiornato il catalogo dei giullari: Arlecchino, Zanni, Pantalone, Colombina e Dario. Dario Fo.

A casa sua c’era la storia del teatro italiano. Ho sempre pensato che se avessimo dovuto dare un forma al teatro fuori dal teatro, se avessimo dovuto disegnarlo senza palcoscenico, se dovessimo pensare al teatro che si fa casa ecco avrebbe avuto quella forma lì. Il suo salotto che sputava copioni, locandine e quadri, le pile di giornali e tutt’intorno che si faceva scena. Mi tremavano le gambe quando mi chiese di sedersi di fianco a lui. Oh, sì, quanto ci fa bene confrontarci con il mito nei momenti in cui ci riesce tutto in modo fin troppo facile. Quanto mi è servito scoprire che lui, Dario, aveva ancora quella curiosità che a noi attori di solito si spegne per accidia o per egocentrismo.

La sua, in realtà, non fu nemmeno una regia nel senso più classico del termine. Non ci perdemmo nel contare spostamenti o dare il tempo alle battute: il mio provino con Dario Fo fu la più densa chiacchierata sul senso della risata che mi capitò mai di fare. La più lunga riflessione sul sorriso come puntuta arma contro il potere che ha bisogno di fare il prepotente per riuscire a governare perché incapace di farlo secondo le regole e sulla forza catartica dello smutandamento dei prepotenti. Il riso è sacro, mi disse raccontandomi di quanto nerbo ci voglia per vigilare sul sorriso: come tutti i gesti liberatori anche ridere è guardato con sospetto da chi aspira al controllo del popolo. Dario Fo era allo stesso tempo un condottiero e una vestale: se il ridere ci è arrivato ancora così vivo e in salute lo dobbiamo a uomini come lui.

Andai in scena qualche mese dopo con il suo “Benvenuta catastrofe” al Festival del Teatro di Napoli. Dario e Franca non avevano potuto partecipare alla prima perché la malattia cominciava a intorpidire lei e lui cominciò ad aver paura di restare monco. Fui orfano per la seconda volta nella vita. Quando lo spettacolo arrivò a Milano fummo costretti a cancellare le date in programma per il ritrovamento di alcuni proiettili prima del debutto. Prepotenza, merda, teatro e parole tutte insieme: non un gran periodo per me. E come mi capitava spesso fui tentato di ammalarmi del mio cattivo spavento. Fu lui, Dario, ad aprire invece la serata “Aperti per mafia” che molti colleghi milanesi vollero mettere in piedi in fretta e furia per starmi vicino. “Hai sbagliato a non andare in scena – mi disse – il teatro è sacro e non si interrompe per niente al mondo”. Aveva ragione: avevo pensato troppo a me e vegliato troppo poco sulla risata. Chiesi scusa alla satira e a lui ché in questo Paese per anni sono stati la stessa cosa.

Ci capitò di incontrarci anni dopo per politica. Era il solito Dario ma la partenza di Franca gli aveva steso sul viso un velo di malinconia. Eppure era lì, sul palco, a gridare che il re è nudo. Comunque. Perché Dario è stato il cialtrone più professionale che abbia mai conosciuto: aveva trovato, nella vita, il mestiere in cui poter professare tutti i suoi valori. Tutti. “Noi teatranti facciamo in scena il lavoro che avremmo dovuto fare nella vita”, diceva e lui in scena era il pittore e l’architetto che avrebbe potuto essere: gli archi, i capitelli, i colori e i materiali erano impastati nella sua fantasia a betoniera che miscelava le parole. “Senza mai prendersi troppo sul serio. Mai.”

Ci sono persone che sai che sono prossime all’andarsene eppure non trovi la chiave inglese per avvitare il dolore e prepararlo al momento. Niente. Ci sono persone, nella vita, che ti mangeresti il cervello per non avergli detto una parola che avresti dovuto pronunciare: ci sono persone che forse non hai ringraziato abbastanza o che per soggezione e ebete pudicizia non gli hai detto quanto ti abbiano cambiato la visione del mondo. È che Dario, oggi, in mezzo a tutti questi salamelecchi ci prenderebbe comunque tutti per il culo perché non c’è niente di più barboso e ridondante di un elogio funebre.

Grazie, maestro. Però che male.

(scritto per Fanpage)