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Nel merito. Appello degli avvocati milanesi per il No.

Il prossimo referendum sulla revisione costituzionale riguarda una materia tecnicamente assai complessa, sia per l’eterogeneità e l’ampiezza delle modifiche intervenute, sia per la difficoltà di cogliere tutte le implicazioni che ne potranno derivare.

Come avvocati sentiamo il dovere di esprimerci, mettendo le nostre competenze giuridiche e la nostra concreta esperienza professionale a disposizione dei cittadini per aiutarli a compiere una scelta consapevole.

Innanzitutto occorre osservare che la scelta di adottare una così vasta revisione costituzionale ed una nuova legge elettorale con la sola forza della contingente maggioranza di governo (peraltro artificiosa) costituisce un grave limite genetico perché lascia presagire che, nel prossimo futuro, ad ogni cambio di equilibrio politico potrà corrispondere una nuova modifica della Carta fondamentale ed una nuova legge elettorale su misura dei vincitori. Una simile spirale di riforme e controriforme farebbe venire meno la concezione della materia istituzionale come terreno di valori condivisi, minando le basi della nostra convivenza democratica.

In secondo luogo, balza agli occhi dell’interprete la pessima qualità redazionale dell’intervento di revisione, che introduce nella nostra Carta fondamentale norme farraginose, illeggibili per il cittadino medio, spesso contraddittorie o ambivalenti; insomma, la forma – che in questa materia è anche sostanza – appare lontanissima da quella tipica delle norme costituzionali, che dovrebbero essere il più possibile cristalline, sobrie ed accessibili a chiunque. Lo stile involuto e l’obiettiva oscurità di non poche disposizioni raggiunge livelli tali da legittimare il dubbio che non si tratti (solo) di limiti qualitativi, bensì di un’ambiguità intenzionale per lasciare aperte diverse opzioni applicative ed interpretative a seconda degli equilibri politici che si potranno determinare in futuro.

Il principale elemento che rischia di privare l’opinione pubblica di una piena consapevolezza degli effettivi esiti che la revisione oggetto di referendum produrrà nella vita delle istituzioni è dato dalla interazione tra la modifica costituzionale vera e propria e la legge elettorale per la Camera, detta “Italicum”. Questa, avendo reintrodotto surrettiziamente i medesimi vizi stigmatizzati nella sentenza di incostituzionalità della legge precedente (Porcellum), non solo è, a sua volta illegittima, ma costituisce anche un oltraggio alla Corte Costituzionale inconcepibile in uno stato di diritto.

La revisione costituzionale, eliminando l’elettività del Senato e lasciando alla sola Camera dei Deputati il rapporto di fiducia col governo, consentirebbe all’Italicum di dispiegare per intero il proprio effetto sulle istituzioni, effetto che sarà quello di produrre una sostanziale modificazione della forma di governo del nostro paese.

Infatti, con il ballottaggio tra liste e l’assegnazione di un abnorme premio di maggioranza al vincitore (un unicum a livello mondiale), a prescindere dall’effettiva rappresentatività del corpo elettorale, la legge determinerà di fatto l’elezione diretta del presidente del consiglio, l’illimitata compressione della rappresentanza democratica e la concentrazione nel governo di tutti i poteri: dal controllo sull’assemblea legislativa alla possibilità di eleggere gli organi di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Csm), dal dominio sulla Rai alla nomina delle varie Authority.

Questo determinerebbe la fuoriuscita dal modello di democrazia parlamentare, senza peraltro le garanzie del modello alternativo, quello della repubblica presidenziale, che è caratterizzato da rigorosa separazione dei poteri e forte presenza di pesi e contrappesi.

Un così radicale ed avventuroso cambiamento del nostro assetto istituzionale è stato introdotto in modo larvato e con legge ordinaria, rimanendo perciò formalmente estraneo alla revisione costituzionale oggetto del quesito referendario.

I cittadini, che in questo modo sono privati della possibilità di esprimere il proprio giudizio sulla parte più incisiva del complessivo mutamento costituzionale che si vuole realizzare, devono essere resi consapevoli della reale posta in gioco perché possano riappropriarsi del diritto di deliberare anche su ciò che formalmente non viene loro richiesto.

Peraltro, quale che sia il giudizio sulla legge elettorale, venendo al merito della revisione costituzionale – e prescindendo in questa sede da aspetti secondari (dai presunti risparmi all’abolizione del Cnel), di carattere essenzialmente propagandistico – basterà concentrare l’attenzione sul tema cruciale del procedimento legislativo.

Non è affatto certo che la semplificazione e velocizzazione dell’attività legislativa potrà realizzarsi come i sostenitori della revisione promettono. Infatti, il carattere assai confuso delle competenze e delle modalità di partecipazione del futuro Senato al processo legislativo induce a prevedere piuttosto una complicazione delle procedure ed una moltiplicazione dei conflitti, con conseguenti ricorsi alla Corte Costituzionale. Se poi la maggioranza politica del Senato espresso dai consiglieri regionali dovesse essere diversa da quella della Camera, è logico aspettarsi un sistematico richiamo di tutte le leggi approvate dalla Camera, con conseguente generalizzazione della “navetta” tra i due rami del parlamento, che oggi è un fenomeno limitato a circa il 3 % delle leggi che vengono varate.

Ma poniamo, per ipotesi, che la semplificazione promessa venga realizzata. In tal caso sarebbe necessario chiedersi se, al di là delle facili suggestioni propagandistiche diffuse dalle forze di governo e da alcune rappresentanze dell’establishment economico, questo corrisponda veramente all’interesse dei cittadini o non costituisca piuttosto il classico bisogno indotto.

Nella realtà, nonostante il bicameralismo perfetto, l’Italia ha già oggi tempi di approvazione delle leggi che sono inferiori alla media degli altri stati democratici ed ha prodotto nei decenni una quantità di nuove leggi tale da rasentare un record mondiale. Il numero delle leggi in vigore nel nostro paese è da tempo sfuggito al controllo (40.000, 100.000, 150.000 ?) e questo ha creato incertezza del diritto, milioni di processi pendenti e condizioni favorevoli alla proliferazione della corruzione.

Il che è quanto dire che non abbiamo un problema di lentezza nell’attività legislativa, ma al contrario abbiamo una iper-produzione legislativa che, oltretutto, si accompagna al progressivo ed allarmante scadimento della qualità delle nuove norme che vengono approvate, e che sempre più spesso sono di iniziativa governativa e non parlamentare.

In questa situazione la prospettiva di un parlamento subalterno all’esecutivo – che oltre a detenere la maggioranza garantita dal premio ne potrà determinare anche l’agenda – costituito in prevalenza di nominati, e ridotto a sfornare a getto continuo nuove leggi a data certa, senza i tempi necessari per i dovuti approfondimenti e per la discussione, dovrebbe suscitare viva inquietudine in qualunque persona minimamente informata.

Peraltro, la (ancora) minore ponderazione delle leggi e lo slittamento verso una forma di “democrazia immediata” comportano rischi non solo sul piano qualitativo, ma anche di sistema.

Infatti, determinando una più diretta esposizione sia alle ondate emotive dell’opinione pubblica, sia alla pressione dei media spesso pilotata dai poteri forti (“lo vogliono i mercati”; “lo vuole l’Europa” …), possono dare luogo facilmente a misure penali squilibrate – ora di disumana severità, ora di esagerato lassismo – e ad improvvisate leggi civili del caso singolo. Insomma, l’esatto contrario di quella normazione fatta di poche leggi, tecnicamente accurate, organiche e stabili nel tempo di cui avrebbe davvero bisogno l’Italia per essere più moderna e competitiva.

Anche la radicale modificazione del sistema delle autonomie e del rapporto Stato – Regioni non è condivisibile perché, allontanandosi bruscamente dal disegno dei Costituenti che era quello di assegnare alle Regioni un potere di riforma delle stesse leggi dello Stato nelle materie ad esse attribuite dall’art. 117 Cost., determina uno svuotamento di questa autonomia e un ritorno di quasi tutte le competenze al potere centrale.

La revisione costituzionale porta così a compimento la sconfitta dell’autonomia regionale, trasformando progressivamente le Regioni in enti non più prevalentemente legislativi e di tutela delle autonomie locali, ma in enti di spesa; tutto ovviamente con la complicità di un ceto politico locale più attento alla clientela che alla difesa della funzione costituzionale attribuita alla Regione.

Questo ritorno al potere invasivo dello Stato centrale, sia politico che burocratico, avviene senza alcun risparmio di spesa, anzi al contrario, e con il mantenimento di un ceto politico regionale (Consigli e Giunte Regionali) titolare soltanto di potere clientelare, in senso lato, ossia di gestione di grandi flussi di denaro in funzione di vantaggio politico.

Per tutte queste ragioni, noi riteniamo che siano di gran lunga prevalenti nella revisione costituzionale gli aspetti negativi. Inoltre riteniamo che nel bilanciamento che siamo chiamati a fare, dovendo approvare o bocciare in blocco una modifica costituzionale variegata, occorra sempre far prevalere un principio di precauzione, ricordando che le Costituzioni sono quelle regole che i popoli si danno quando sono sobri per quando saranno ubriachi.

 

Per questo, il nostro consiglio è quello di votare NO.

 

Avv. Luciano Belli Paci

Avv. Felice Besostri

Prof. Avv. Maria Agostina Cabiddu

Avv. Marco Dal Toso

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Avv. Velia Addonizio

Avv. Paolo Agnoletto

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Avv. Bruno Amato

Avv. Maria Anghelone

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Associazione Giuristi Democratici di Milano

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Aggiornato 8.11.2016

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