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Oddio si vota già e la sinistra non sa cosa mettersi

(un mio editoriale per Linkiesta, satirico ma anche no)

Oddio, si vota e la sinistra non sa cosa mettersi. Ancora. Come tutte le ultime votazioni da quando ero bambino e quando la campagna elettorale la riconoscevi dall’alito inferocito dei banchetti elettorali e dagli altoparlanti starnazzanti legati a fiocco sul tetto delle auto. Sono passati Roberto Baggio, Maldini e finanche Totti eppure la sinistra è sempre lì: tra l’indecisione di cosa indossare e la brama pericolosa di scegliere prima che arrivi l’orario di chiusura.

Si vota a settembre, si mormora nei corridoi del Parlamento. Lo spettro della smobilitazione rovescia gli sguardi sazi e tronfi in accaldate discussioni su soglie di sbarramento, collegi elettorali, promesse e crediti gelosamente custoditi nel cassetto. Nei dintorni di Montecitorio si torna con sforzo a sorridere un po’ a tutti:l’istinto dell’autopreservazione è il sentimento comune della prima Repubblica, della Seconda e di tutte le legislature che sono venute e che verranno. Matteo Renzicerca la sponda giusta per uccellare il governo Gentiloni con la promessa di farne un altro uguale ma da Presidente del Consiglio, secondo la sua consueta logica egoriferita di confondere il governo con il potere e il proprio ruolo come più alta certificazione e garanzia; Silvio Berlusconi, al solito, si gode la posizione del sornione spendendo carezze e rimbrotti ma parlando soprattutto con i silenzi; Salvini rovista tra le macerie del lepenismo anti europeo, ormai rancido, e spera di trafugare qualche feticcio ad effetto per uscire dai binari (usurati e usuranti) dell’invasione straniera; Grillo prega che non si fermi la spinta, che non venga eletta un’altra Raggi e che il mare non rabbonisca troppo la rabbia mentre gli alfaniani (minuscoli seppur pieni di rivoli) mimano di voler essere l’ago della bilancia ma si sono persi l’ago.

E a sinistra? A sinistra s’ode un mormorio incagliato, la stessa nota di sempre.

Ci sono i sommatori, innanzitutto. Sempre loro. Li riconosci perché hanno una penna nel taschino e scrivono calcoli dappertutto, dalle tovagliette del ristorante, alle carte intestate e, se serve, anche sui depliant pubblicitari: ogni volta che incontrano qualcuno che sentono “affine” iniziano a sottolineare le addizioni del “noi, se ci mettiamo con voi, più quelli altri e se convinciamo anche Pisapia” credendo che la politica sia banale come una somma in colonna da prima elementare. Esultano come per un sorpasso all’ultimo giro se riescono a inglobare un movimento indipendentista dello zero virgola zero e considerano i sondaggi il capitale sociale di un’azienda travestita da partito. Per loro l’unità della sinistra è l’ammucchiamento delle loro disperazioni. E poi perdono. Ovvio.

I disconnessi. Specie di ceto politico (bipartisan ma ben impiantato a sinistra) che misura la propria popolarità secondo astrusi metodi personali a cui vorrebbero dare validità scientifica. Sono convinti che i sondaggi tutti siano un complotto di Big Pharma (che non c’entra un cazzo ma sentite come suona bene, Big Pharma, messa dappertutto) e si basano sulle loro “sensazioni”. Così aspirano almeno a un ministero dopo una serata in Val Camonica in cui hanno “riempito un teatro” che era parrocchiale da venticinque posti. Sono quelli che dicono di sentire “aria positiva intorno a noi” perché al bar sotto casa gli hanno offerto un caffè e sono quelli che hanno messo la scritta “onorevole” sul citofono, per “restare semplici”.

(continua sul sito de Linkiesta qui)