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persinsala recensisce lo spettacolo ‘L’amico degli eroi’

(fonte)

(recensione di Fabio di Todaro)

Schermata 2016-06-02 alle 09.30.31Ne L’Amico degli eroi, andato in scena al Teatro della Cooperativa, Giulio Cavalli ripercorre l’ascesa sociale del politico siciliano, riconosciuto dalla giustizia come un trait d’union tra Cosa Nostra e l’alta finanza.

La storia dell’Italia dell’ultimo ventennio in un intreccio ferale tra mafia e politica, è così che Giulio Cavalli, accompagnato dalle musiche di Cisco Bellotti, ci ricorda cos’è avvenuto nel nostro paese tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del nuovo millennio. Ne L’Amico degli eroi, al Teatro della Cooperativa di Milano, l’attore, da sempre impegnato in rappresentazioni di teatro civile, ripercorre la storia giudiziaria e le relazioni di Marcello Dell’Utri con Vittorio Mangano e Silvio Berlusconi. Passando da un monologo all’altro, Cavalli coinvolge il pubblico e lo guida per mano nella drammaticità vissuta (e soltanto di rado portata a galla) lungo la Penisola sul finire del ventesimo secolo.

Lo sfondo è, con la proiezione di documenti, interviste e video che suffragano quanto raccontato dal protagonista, un valido accompagnamento, Dell’Utri viene descritto come «un giovane siciliano arrampicatore sociale che decide di essere l’anello di congiunzione di due mondi totalmente differenti: l’imprenditoria milanese estrema e l’arrembante mafia siciliana». In mezzo ci finisce la politica, con la nascita di Forza Italia e l’ascesa di Berlusconi. Cavalli riporta i passaggi conclusivi della storia giudiziaria di Dell’Utri, «un’attività volontaria, consapevole e specifica che ha contribuito al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa Nostra, alla quale è stata offerta l’opportunità di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza», sempre con la mediazione di Dell’Utri.

Lo spettacolo è interessante e coinvolgente, Cavalli si conferma un’eccellente narratore delle vicende di mafia di questo Paese, come peraltro già dimostrato con Nomi, cognomi e infami. Al Cooperativa toccherà probabilmente inserire questo spettacolo nella prossima stagione, per evitare che risulti penalizzato dalla messa in scena in coda a quella appena conclusa.

 

Perché il “voto utile” (con il PD) è una sciocchezza pazzesca

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Eccoci alla tiritera del voto utile. Dove rimbomba di più è Milano ma sono molti i comuni italiani che si preparano al voto in cui il centrocentrocentrosinistra (di solito raffazzonato con i residui di una stagione ormai conclusa) alza la voce per “non consegnare la città alla destra” oppure, meglio ancora, perché sarebbe (secondo loro) “irresponsabile dividersi”. Il voto utile è la ninna nanna del populismo in salsa intellettuale, quello proprio di una forma centrosinistra che non si accorge di essere finita. Il “voto utile” è la versione democratica dell’ultimo giapponese a cui non hanno detto della fine della guerra.

Così a Milano, ad esempio, bisognerebbe votare Sala “per non regalare Milano a Salvini” e fa niente se qualcuno trova discutibile qualche posizione del manager che s’è fatto campagna elettorale con l’Expo: “quelli là sono peggio”, ci dicono. Ma peggio di chi? Perché a vedere qualche faccia che spunta tra i sostenitori di BeppeSala (scritto tutto attaccato per dare un senso di modernità alle storiche clientele) sembra che l’era Pisapia (che sarebbe meglio cominciare a chiamare con il suo nome, «l’era delle speranze per Pisapia») sia stata un incidente di percorso.

Ma non è questo il punto. La questione politica è lapalissiana, semplice, quasi banale: si può in questo Paese così ostinatamente innamorato dal potere costituito fissare un linea di potabilità nei rapporti con le altre forze politiche? E se sì, cosa altro serve per ritenere questo PD ormai indigeribile per chiunque abbia a cuore un Paese egalitario, solidale e giusto? Io credo che il dado sia stato tratto da un pezzo, almeno dal momento in cui Possibile è diventata un’oasi necessaria per continuare a fare politica.

(continua sui quaderni di Possibile qui)

A proposito di a-mafiosi

mafia-e-politica

Perché nella nostra campagna RiCostituente ci occuperemo anche di mafie:

Nei giorni scorsi c’è stata un’illuminante intervista di Vincenzo Iurillo a Isaia Sales, sociologo e fine conoscitore della criminalità organizzata nonché storicamente vicino al PD: uno di quelli che non può essere derubricato come “gufo”, per intendersi. Un’intervista preziosa perché entra nel merito della lotta alla mafia in un momento in cui regna la confusione tra i soliti patetici comunicati stampa trionfalistici dopo l’arresto di qualche mafioso (un ritorno ai tempi verdi di Maroni Ministro dell’interno) e il brutto silenzio sul torbido tentativo di indebolire Saviano e Capacchione nella loro rappresentanza antimafia (colpire loro per sbriciolare il movimento che rappresentano, ovviamente).

(continua qui)

La barca che diventa piazza dei popoli. In mezzo al mare.

VOS Thalassa

La barca è una nave mercantile, sulla fiancata porta il nome AHTS Vos Thalassa scritto con vernice bianca. Tutto in maiuscolo. Il suo lavoro è pattugliare in acque libiche lo spazio tra due piattaforme petrolifere: un avanti e indietro tra salsedine, ferro e caldo.

Finché il 26 maggio alle 8 e 35 del mattino il comandante Cosimo de Candia (sì, italiano) riceve una telefonata dalla centrale operativa di Roma: ci sono due imbarcazioni piene di migranti da soccorrere. Non bisogna avere troppa fantasia per immaginare il battito del cuore di una nave chiamata a ripescare persone in mezzo al mare, gli undici uomini dell’equipaggio abbandonano la rotta consueta per raggiungere i bisognosi. Sì, bisognosi. Perché sarebbe bello ricominciare a dirle e scriverle, certe parole.

Alle tre del pomeriggio, come racconta Cosimo, ritrovano le carrette del mare con sopra la paura a forma di persone. Alcune sono state già salvate da un piccolo rimorchiatore che porta il nome di Ringhio, come nella drammaturgia perfetta di un’epopea. Ma qui senza luci, pellicola ed effetti speciali. Fame vera. Paura stanca. Altro che i film.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Qui, nel Paese che invita Scajola alla festa della Polizia

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Se n’è accorto Gianfrancesco Turano ed è uno scempio alla dignità delle stesse forze di Polizia che sfilavano: Scajola sul palchetto d’onore è la bomboniera di un Paese che non riesce a smafiarsi, nemmeno negli inviti del protocollo. Pensa te. Ecco l’articolo:

«Se il fotografo non fosse autorizzato e lo scatto non fosse pubblicato sul sito della Polizia di Stato, si vorrebbe credere a un montaggio. Invece è tutto vero.

Giovedì 26 maggio, durante la festa per il 164° anniversario dalla fondazione della Polizia, alla presenza delle massime cariche dello Stato, il palco autorità allestito all’Istituto Superiore di Polizia di Roma ospitava una serie di ministri dell’Interno emeriti. Fra questi, Nicola Mancino, Enzo Scotti e Claudio Scajola, ritratti da sinistra a destra in prima fila dall’obiettivo del fotografo.

Come qualcuno del protocollo avrebbe forse dovuto ricordare, Scajola è sotto processo a Reggio Calabria con l’accusa di avere favorito la latitanza dell’ex compagno di Forza Italia, Amedeo Matacena junior, erede di una dinastia di armatori fondata dal padre.

Matacena junior è stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa ed è tuttora latitante a Dubai da dove il governo ha più volte promesso di stanarlo senza troppi risultati visto che l’ex deputato forzista è in fuga da due anni e sette mesi.

L’inchiesta reggina, peraltro, è stata condotta dal pm Giuseppe Lombardo con l’appoggio della Direzione investigativa antimafia il cui massimo dirigente, il generale Nunzio Antonio Ferla, è seduto in seconda fila dietro il terzetto di ministri a due metri dal politico che i suoi uomini hanno arrestato l’8 maggio 2014. (fonte

Per noi è No: una campagna RiCostituente

 

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Ne avevo già scritto qui (anche se pochi se n’erano accorti) che non credo mi sia possibile esimermi dalla campagna referendaria da qui a ottobre. Non credo di potere stare fermo per una serie di motivi che passano dall’inconsistente inconcludenza di chi sembra non riuscire a liberarsi dal pensiero fisso di una sinistra renzidipendente, dai quintali di bugie che intossicano ancora una volta un dibattito che si riduce a tifo, dalla manipolazione di un populismo che sembra essere l’unica via del consenso fino alla brutta banda a cui permettiamo di fregiarsi del ruolo di padri costituenti senza nemmeno chiedere spiegazione sulle loro frequentazioni passate.

Forse davvero, come mi dice da tempo qualcuno, non riesco a non essere politico in quello che faccio. E allora sarebbe bello che fosse un’estate politica per davvero, dedicata allo studio piuttosto che ai tweet, passata ad ascoltare come davvero abbiamo potuto finire così scoraggiati e isolati senza nemmeno un sussulto. E io, per quel che mi riguarda, ci torno come un adulto che reimpara ad andare in bici per prendersi la briga di guardare e ascoltare tutto intorno.

Intanto c’è un sito (iovoto.no) che sarà il nostro diario, enciclopedia e ritrovo per tutti quelli che vogliono essere presìdi referendari: qui troverete anche tutti gli appuntamenti e, soprattutto, potrete organizzare i vostri. Poi c’è il materiale, come il manifesto e il bugiardino, per ripartire dalla verità, almeno. E ci siamo noi. tutti quelli che vogliono starci.

Saremo ovunque riusciremo ad esserci, per parlare di Costituzione ma anche di uguaglianza, mafie, potere, clientelismo e diritti in un Paese che sembra essersi arrotolato intorno alla retorica. Questo è il tempo di rimettersi ad amministrare i propri luoghi. Davvero. Io sono a disposizione. Attivo.

 

Se una ragazza brucia in giro per Roma

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Ha confessato Vincenzo Paduano, la guardia giurata ventisettenne accusata di essere l’omicida della ex fidanzata Sara Di Pietrantonio, ritrovata semicarbonizzata in via della Magliana a Roma. L’ha bruciata perché era stato lasciato e «Sara aveva un altro» ha dichiarato l’omicida, con l’efferata semplicità di chi non ha il vocabolario del rifiuto ma rimane attaccato all’animalità di chi considera la donna una proprietà privata, mica una persona.

E lascia un grande dolore sapere che, ancora una volta, lei ha dovuto fare i conti nei suoi ultimi attimi di vita con un amore sbagliato che è diventato mostro affilandosi sulla fiducia immeritatamente ottenuta. Ogni femminicidio urla del fardello di un tempo che sembra non basti mai per cancellare i propri vizi peggiori.

Mentre si consuma il dolore (e la solita sete di sangue), mentre ci si augura tutti che il processo assicuri presto giustizia, a Roma due auto stamattina continuano a circolare indisturbate e dentro ci sono i “cittadini” che hanno pensato che non valesse la pena allarmare (e allarmarsi)  per una ragazza che chiedeva aiuto grondando alcool e fiamme in giro per Roma.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Sonda.Life sullo spettacolo ‘L’amico degli eroi’

(fonte)

Al Teatro della Cooperativa, fino allo scorso sabato 28 maggio è andato in scena, per la prima volta a Milano “L’Amico degli Eroi, Parole Opere e Omissioni di Marcello Dell’Utri”. Il testo è stato scritto, diretto e interpretato da Giulio Cavalli.  Musiche di Cisco Bellotti.

Il termine, quasi d’obbligo in calce ad ogni spettacolo, “liberamente tratto” mi sembra andare un po’ stretto a quest’ultimo lavoro di Giulio Cavalli in cui viene analizzato l’intreccio tra mafia e politica, tratto dalle vicende giudiziarie (e dalle amicizie consolidate) di Marcello Dell’Utri, Vittorio Mangano e Silvio Berlusconi.

E’ un succedersi incessante di monologhi proposti da un Giulio Cavalli decisamente coinvolgente e capace di calare il pubblico nella drammaticità di una realtà con la quale il nostro Paese si confronta tristemente da oltre vent’anni. I monologhi sono proposti con un linguaggio diretto, sobrio e al tempo stesso divertente. Sullo sfondo e con ritmo sapiente ecco proiettati i documenti, le interviste e i video che testimoniano momenti di verità e palesi intrighi di potere.

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Sulle tavole del Teatro della Cooperativa è stata di scena, come si legge nella presentazione dello spettacolo, “ la vicenda (dis)umana di un giovane siciliano arrampicatore sociale che decide di essere l’anello di congiunzione di due mondi totalmente differenti (l’imprenditoria milanese estrema e l’arrembante mafia siciliana) passando indenne dal cambio dei vertici mafiosi, dei vertici politici: praticamente indenne dalla Storia d’Italia fino alla condanna per concorso esterno in associazione mafiosa”.

La pluralità dell’attività posta in essere da Dell’Utri, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa nostra, alla quale è stata, tra l’altro offerta l’opportunità, sempre con la mediazione di Dell’Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che politici”, così conclude la sentenza definitiva, sottolineando come la vicenda giudiziaria testimoniata da Cavalli rappresenti un passaggio fondamentale per comprendere la storia italiana degli ultimi tempi e forse, purtroppo anche di parte dell’immediato futuro.

Spettacolo interessante e coinvolgente con il limite, involontario, di essere stato inserito nella coda del ricchissimo programma proposto dal Teatro di via Hermada, uno spettacolo che spero possa essere ripresentato nella stagione 16/17 perché merita di essere visto da un grande pubblico.

Claudia Notargiacomo

Quale antimafia? (di Salvo Vitale)

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Ancora un articolo di Salvo Vitale. Da leggere.

UNA CONDANNA PRESTABILITA

Le vicende di Pino Maniaci suggeriscono alcune riflessioni. Partiamo dall’affermazione del giudice Teresi, sparata proprio nel giorno della conferenza stampa di un’operazione che doveva  essere quella dell’arresto di nove mafiosi di Borgetto e nella quale è stato “infilato” anche Maniaci. Non abbiamo bisogno dell’antimafia di Pino Maniaci, dell’antimafia a fini personali”.

Partiamo dalle azioni della Procura e dei carabinieri di Partinico. L’obiettivo era chiaro: assimilare Maniaci con i mafiosi, metterlo assieme con quelli che sono stati bersaglio delle sue denunce, fare di tutta l’erba un fascio, cioè suggerire l’idea che l’antimafia di Maniaci non serve come strumento di lotta alla mafia, ma che non c’è nessuna differenza tra il mafioso e Maniaci, tra Nicolò Salto, Giambrone e chi li chiama invece Pezzi di Merda. Insomma, nessuna differenza tra Maniaci che chiede il “pizzo” più IVA al sindaco di Borgetto, il quale si mette in bella vista sotto l’occhio della telecamera mentre conta i soldi, e chi taglieggia tutti i titolari degli esercizi commerciali della zona senza comunque rilasciare fatture. Anzi, a giudicare dal numero di pagine dedicate nell’ordinanza a Maniaci (circa 300) e quello dedicato ai nove mafiosi (circa 200), sembra che le vicende di Maniaci interessino colui o coloro che hanno commissionato le intercettazioni più di quelle dei mafiosi borgettani. Per non parlare delle modalità: alle tre di notte si presentano due capitani a casa di Maniaci per intimargli “lo sfratto”, cioè il divieto di soggiorno. Perché tale divieto e tale orario? C’è una tale pericolosità nel soggetto, da richiederne l’esilio immediato? No, ma si tratta di una misura preventiva che può essere assunta, a parte il carcere, senza bisogno di processo. In realtà è una misura “d’immagine”: mostrare che comunque un provvedimento è stato preso perché ci sono saldi elementi criminosi per giustificarlo. E poi il video, otto minuti che condensano quasi due anni d’intercettazioni: ancora una volta un preciso obiettivo maligno: mostrare a tutta Italia, prima dell’inizio di qualsiasi procedimento, che Maniaci chiede soldi, cioè estorce, che dice che Renzi è stronzo, che il premio che gli hanno regalato è un “premio del cazzo”, che ha l’amante e che interviene in suo favore presso il sindaco di Partinico obbligandolo a darle un lavoro, una carrozzella per la figlia malata, un sussidio. Anche qua salta tutto, ovvero viene fuori che, con i rapporti personali, tipo raccomandazione, si può ottenere tutto in barba a ciò che prescrive la legge. Altro che legalità! Ci troviamo davanti a un soggetto che, usando lo spettro del suo microfono e della sua telecamera, crede di poter fare tutto e di fottersene persino di quella stessa antimafia che egli dice di praticare. Si tratta, a un’attenta lettura, di mosse preventivate, studiate, accantonate al momento, cioè quand’è scoppiata la vicenda Saguto,  e poi tirate fuori “a scurdata”. In pratica “fare fuori” l’uomo attraverso la distruzione della sua immagine, vista l’inconsistenza penale delle accuse nei suoi confronti. Domanda: Perché?

GIORNALISMO E ANTIMAFIA

Assumiamo sempre come linea guida l’affermazione di uno dei giudici che si occupa del caso, Vittorio Teresi, la quale, è stato notato dall’ex collega Ingroia, che difende Maniaci, sembra già una sentenza di  condanna prima che si faccia il processo. Che ne sa Teresi dell’antimafia fatta da Telejato, di giorni e giorni con la telecamera in giro per documentare favori, abusi, disfunzioni, cattura di boss, sequestri e confische, manifestazioni, interviste alla gente comune, agli studenti,agli studiosi, ai fedeli, agli scettici? Che ne sa di imprenditori venuti in redazione per denunciare le ingiustizie nei loro confronti, in nome dell’antimafia? Delle interviste messe in onda a gente che, in nome dell’antimafia e per azione della legge aveva perso tutto, soprattutto il lavoro, ma che ci teneva a salvare almeno la dignità? Che ne sa delle riprese al matrimonio della figlia di Totò Riina (QUI), di quelle per l’arresto dei Lo Piccolo, di quelle a Montagna dei Cavalli nel covo di Provenzano? Che ne sa di ragazzi con la telecamera in mano che vanno a fare le interviste e si ritrovano aggrediti e malmenati, anche da parte di coloro dei quali volevano trasmettere la voce e le idee? Si potrebbe rispondere che altro è l’antimafia di alcuni ragazzi, l’antimafia di Salvo Vitale, che da Radio Aut ha continuato il percorso iniziato con Peppino Impastato, altro è l’antimafia di Pino Maniaci, ovvero che c’è un’antimafia di Telejato e una di Pino Maniaci, ma non è così, perché non c’è l’una e l’altra, è tutto la stessa cosa. Che ne sa degli estenuanti viaggi in tutta Italia, non per ritirare un “premio del cazzo” intestato agli “eroi del nostro tempo”, ma per parlare a centinaia di ragazzi e trasmettere loro il messaggio che senza i mafiosi il mondo è migliore? E allora, se di questa antimafia che usa il mezzo d’informazione televisivo come uno strumento per propagandare le iniziative di legalità, per far cambiare mentalità alla gente, per distruggere l’immagine di “uomo di rispetto” che il mafioso si porta addosso, per far conoscere le facce di malandrini, per diffondere i comunicati sull’operato delle forze dell’ordine, che denuncia le malefatte, anche le disfunzioni, da qualsiasi parte esse provengano, non ce n’è bisogno, qual’è l’antimafia giusta, di quale antimafia c’è bisogno?

Personalmente non credo all’antimafia della magistratura e a quella delle forze dell’ordine: quella non è antimafia, è lavoro, è il loro lavoro. Essere mafiosi è un reato, perseguire i mafiosi, da chi è pagato dallo stato per farlo è un obbligo, un dovere. Sulla correttezza di questo lavoro, ma non di tutto il lavoro, qualche dubbio è d’obbligo: quattro giorni prima dell’inizio dell’operazione denominata Kalevra le imputazioni a Maniaci e l’indagine su di lui erano state anticipate sapientemente da un articolo di Francesco Viviano su “La Repubblica”: lo stesso giornale ha tenuto una linea d’accusa e di condanna prestabilita anche nei successivi articoli. Domanda: chi ha fornito le informazioni a Francesco Viviano? C’è stato un disegno preventivo per incastrare Maniaci, l’azione è stata progettata predisponendo attentamente ogni mossa? Il discorso si allarga al rapporto strettissimo tra alcuni giornalisti e i magistrati della Procura di Palermo. Non ci vuole molto a rispondere su chi fornisce a costoro informazioni riservate, frammenti d’indagine, testi delle intercettazioni. Ma questo stretto rapporto può diventare funzionale ad alcune strategie che i magistrati adottano quando vogliono andare oltre le comuni garanzie che tutelano i diritti della persona sotto indagine, nel tentativo di aggiungere ulteriori tasselli al materiale probatorio di cui dispongono. Il giornalista è uno strumento che può gonfiare o distruggere l’immagine e la credibilità di qualsiasi persona. Il sospetto, il “pare che…” “si dice…”, “secondo voci di corridoio” “negli ambienti bene informati gira voce che…” sono premesse professionali indispensabili per poter dire ciò che non è provato, di cui non si hanno completi riscontri. A volte basta buttare un cerino acceso, basta ingenerare il sospetto. Supponiamo che io dica: il procuratore Vittorio Teresi ha lavorato fianco a fianco della Saguto nell’ufficio misure di prevenzione: se qualcuno non conosce Vittorio Teresi e non sapesse delle sue posizioni di distacco dall’operato della Saguto, potrebbe pensare che egli stia agendo per “vendicare” l’azione di Telejato nei confronti della collega.

E qua entra il giornalismo di Maniaci, quello che non fa sconti a nessuno, neanche ai due sindaci di Borgetto e Partinico, neanche alle associazioni antimafia o alle icone intoccabili dell’antimafia ufficiale, a cominciare da Ciotti per finire a Giovanni Impastato, senza per questo voler metterne in discussione l’operato e i meriti di nessuno. A questo giornalismo d’assalto, spesse volte aggressivo e istintivo, sino a colpire la dignità della persona accusata, si contrappone quello di coloro che Maniaci chiama “porgitori di microfono”, pronti a scrivere un articolo col telecomando, magari a colpi di copia-incolla, dimentichi dei rischi e ormai incapaci di portare avanti un’inchiesta sul campo. In questo contesto si possono leggere le interviste piene di incensamenti, vedi quella fatta da Leopoldo Gargano alla presidente Saguto nello scorso maggio, quasi contemporanea all’articolo sull’attentato farlocco alla stessa Saguto, che portò a un rafforzamento della scorta e alla possibilità di disporre di una nuova macchina blindata. Nelle intercettazioni si legge della volontà della stessa Saguto di mettere a disposizione di Gargano, e quindi dell’ordine dei giornalisti un appartamento confiscato, in zona centrale a Palermo. E comunque a Gargano va riconosciuto di avere raccolto nel suo archivio un’enorme mole di materiale di ogni provenienza sulle vicende dell’antimafia in vetrina.

Fuori discussione l’antimafia dei politici: è passerella, vetrina, in qualche raro caso è rivisitazione della memoria, ma non lascia tracce operative. Una fiaccolata, un corteo, un’inaugurazione di una targa, un convegno e l’antimafia si esaurisce nella sua improduttiva doverosa formalità.

Meno che mai è esente da dubbi  l’antimafia degli imprenditori che dicono di non pagare il pizzo, che fanno convegni e invitano altri imprenditori a ribellarsi. Non so e lo lascio decidere a chi legge, se abbiamo bisogno dell’antimafia di questi giornalisti, di questi magistrati, di questi uomini politici, di questi imprenditori. E allora di quale antimafia abbiamo bisogno?

L’ANTIMAFIA DIFFICILE

La definizione risale a un convegno organizzato a Cinisi nel ventennale della morte di Peppino Impastato i cui atti furono pubblicati da Umberto Santino. Allora ci si riferiva alla difficoltà di operare in un ambiente ostile e ostinatamente richiuso nella difesa dei suoi valori spesso arcaici. Certamente è difficile l’antimafia che si pratica nelle scuole. Con tutti i suoi limiti, con le ostilità di docenti che non vogliono “sottrarre” ore di lezione e che si sentono quasi “derubati” della loro presenza o “obbligati” ad assicurarla darla quando sono annunciate iniziative che coinvolgono tutta la scuola, con l’atteggiamento spesso distaccato e menefreghista di buona parte degli studenti che accoglie tali iniziative solo per fare “vacanza”. Le scuole sono un luogo naturale dell’antimafia, dove possono essere individuati e portati avanti gli elementi, i principi educativi per promuovere e realizzare una società in cui tecniche, metodi e strategie mafiose possano essere messi nell’angolo. Il principio dell’informazione e della comunicazione  che, dal docente passa all’alunno, non è diverso da quello che dal giornale o dal teleschermo passa al lettore o al telespettatore. Si tratta, per il giornalista, di individuare contenuti deontologici e comportamentali da tenere come faro guida e di non scordare che si tratta di un mestiere a rischio. Soprattutto se, assieme alle persone di cui si parla c’è anche lo Stato, che progetta sino ad otto anni di carcere per la diffamazione a mezzo stampa, anziché accontentarsi, come nei paesi civili, di una rettifica o di una presa d’atto. In tal senso l’operato di Maniaci, tra le pressioni per un aiuto a una ragazza, individuata frettolosamente come la sua amante e tra l’oscura e ancora irrisolta vicenda dei cani uccisi (Chi ha ucciso e impiccato i cani a Telejato?, ndr), si configura penalmente irrilevante, ma eticamente problematica.

L’ANTIMAFIA SOCIALE

E infine c’è quella cui ha fatto riferimento lo stesso Teresi, l’antimafia sociale, quella che interessa i vari strati della società civile, che si pratica nei luoghi di lavoro, nelle manifestazioni per il lavoro o per i diritti civili, tra i senzatetto, in mezzo ai quartieri degradati della città o alle storie di violenza nascoste dentro le case dei paesi, quella che ci porta a diretto contatto con le vittime del sistema, con gli estorti, con i figli dei mafiosi, con i ragazzi che si trovano a scegliere se iniziare una carriera criminale veloce o la lenta ma onesta ricerca di un lavoro che non c’è.  L’antimafia di chi si ribella al pizzo, denuncia gli estorsori, ma si ritrova solo e, per colmo, con i beni sequestrati, grazie a una legge sulle misure di prevenzione che può consentire di travalicare i normali diritti del cittadino, anche sulla base di sospetti.

L’antimafia di coloro ai quali viene affidato un bene confiscato ai mafiosi e che devono studiare come renderlo attivo e produttivo. Attivo, se si tratta di luogo destinato ad utilità sociale, luogo d’incontro e di lavoro culturale comune, produttivo se si tratta di luogo da destinare ad attività economiche che possano realizzare la vittoria di un modello di gestione diverso da quello mafioso, nel rispetto delle garanzie di chi ci lavora o vi partecipa. Non è facile. Si potrebbe pensare ad Addio Pizzo e a Libera e chiuderla lì, ma si troverà, se si vuole, ugualmente qualcosa da dire: magari che si fa antimafia per fini economici o, secondo l’accusa di Teresi a Maniaci, per il proprio tornaconto. Che tornaconto poi possa avere uno che ogni mese è costretto ad elemosinare i soldi per tenere aperta la televisione, è da discutere.

ASSALTO ALL’ANTIMAFIA

Da alcuni mesi c’è un attacco senza precedenti all’antimafia. L’attacco più violento è stato sferrato a Libera, alla gestione autoritaria di Don Ciotti, ad alcune disfunzioni al suo interno, al monopolio che essa detiene nell’assegnazione dei beni confiscati, al mancato rapporto tra quanto prodotto e quanto messo in vendita ecc. Non meno criticati i ragazzi di Addio Pizzo che, attraverso un’agenzia di viaggio lucrerebbero su progetti di itinerari di turismo civile. Nel mirino ci sono in particolare alcuni imprenditori, Helg, Montante, Lo Bello, Catanzaro che sono finiti in inchieste giudiziarie a causa di relazioni con il mondo che hanno combattuto. Di tutto si fa un bel fascio e si tenta di dargli fuoco. Difficile dire le motivazioni di questo “obiettivo antimafia”. Cosa c’è dietro queste manifestazioni critiche? Un’ipotesi provocatoria potrebbe essere quella della mafia nascosta nel nostro subconscio, legata a lontane origini mai cancellate, a messaggi sepolti, ma sempre attivi, per cui la mafia è nell’ordine naturale delle cose e l’antimafia rappresenta il suo sommovimento, un’ipotesi di ribellione rispetto a tutto quello che è stato sedimentato da secoli. Per dirla con Salvo, cioè con me, nel film “I cento passi”“E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo! Non perché fa paura, ma perché dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace! Noi siamo la mafia”.

L’altra ipotesi è quella del purismo: l’antimafia, nella sua sacralità, nella sua scelta di costruire un mondo nuovo, non può lasciarsi coinvolgere da tentazioni economiche non può essere “usata” a fini di lucro”, quasi che il denaro sia sporco, mentre c’è invece chi ne profitta per arricchirsi. Anche Telejato lo ha fatto nella convinzione, che l’antimafia non dovrebbe diventare affare.

Vengono fuori voci, spesso messe in giro ad arte, particolarmente da chi non ha tagliato il cordone ombelicale con la sua “mafia sommersa”, di finanziamenti di cui i destinatari si sarebbero appropriati, di fondi male usati e senza il conseguimento degli obiettivi, di soldi chiesti in cambio di prestazioni le cui motivazioni erano educative, di protagonismo, di millantato credito, di testimonianze di presenze e di azioni e collaborazioni che non ci sono state ed altro. L’intenzione, che qualcuno teorizza è di rifondare l’antimafia, di reimpostarla su una “sacralità” che nulla a da spartire con l’altra ipotesi più concreta, ovvero di come l’economia può ripartire con un corretto uso degli strumenti della legalità. Il pericolo nascosto, la destinazione finale di queste critiche è di smontare l’antimafia, di prospettarla come un’emergenza ormai inutile,di lasciare tutto in mano allo stato e ai suoi rappresentanti, gli unici deputati ad agire. In pratica, smontare l’antimafia per lasciare la mafia: se così è non ci sto e credo che non ci stiano tanti altri. Migliaia di altri…

(fonte)

Come sarà l’America di Trump. Satira. O forse no.

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Oggi 30 maggio 2020 a Washington il Presidente degli USA Donald Trump ha firmato la nuova legge sulla povertà: «è fatto divieto in territorio americano di essere indigenti e procurare perdita d’immagine allo Stato d’appartenenza. Per chi viene trovato povero è prevista una sanzione dai 5.000 ad un massimo di 20.000 dollari”. Trump, presentando alla Casa Bianca la sua ultima riforma prima della battaglia cruciale per la rielezione ha specificato che la povertà è uno dei peggiori freni all’economia americana (solo dopo all’impurità di razza) e che questa nuova norma sradicherà una volta per tutte la nullafacenza,  vero cancro della produttività.

A chi gli ha chiesto come sia possibile sperare di recuperare i soldi delle multe da persone dichiarate povere Trump ha risposto con una sonora risata: «non sono i soldi ad interessarci – ha dichiarato il Presidente – ma l’iscrizione a credito da parte dello Stato di denaro che servirà per ottenere finanziamenti dagli istituti bancari per la rincorsa agli armamenti che, da tempo, è uno dei punti principali del governo americano. Non solo potremmo finalmente rendere inoffensivi i poveri che oltre che poveri risulteranno formalmente indebitati ma così facendo si otterrà una solidità finanziaria (“mica economica, come interessa a quei quattro straccioni democratici” – ha specificato Trump nda) che ci permetterà di investire negli ambiti nevralgici di questo governo». Il discorso di Trump è stato accolto con un lungo e scrosciante applauso da parte del Direttivo Ristretto, il nuovo organo consultivo e deliberativo che ha sostituito il Congresso già nel 2018 per “snellire l’iter decisionale”.

(il mio racconto per Fanpage continua qui)