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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Gli oligarchi olimpici

Proviamo a sforzarci di essere seri. Tentiamo anche di svestire per un secondo i panni dei tifosi e disinteressiamoci dei colori del M5S e dell’orrido balletto alla ricerca di assessori e delle polemiche di questi giorni. Attenzione: non perché non siano rilevanti fatti politici (parliamo di Roma e del movimento politico tra i più importanti in Italia) ma semplicemente perché su questo punto non c’entrano. Mischiare le carte e le cose serve per dibattere e propagandare. Non ora, per favore. No.

Liberi di tutte le sovrastrutture immaginate una sindaca che si presenta alle elezioni ripetendo in ogni dove (e scrivendolo nel suo programma elettorale) che non avrebbe accettato la candidatura della propria città alle olimpiadi nel caso in cui sia eletta. Facciamo che venga eletta con un risultato che non lascia spazio a dubbi. E poi (tu pensa) mantenga la parola data. Mi si perdoni la domanda: che c’è di strano? Anzi, di più: che c’è da discutere?

Virginia Raggi ha mantenuto la promessa. E non solo: ha spiegato più volte la sua scelta convincendo evidentemente la maggioranza degli elettori. Intorno intanto si levano i gridolini dei renzini servili: mentre la Raggi parla di “scelta di responsabilità” loro, dopo aver deposto il sindaco Marino con una firma dal notaio per la vergogna di passare dal consiglio comunale, gridano alla mancanza di coraggio. Loro, il Pd e molti dei cognomi di quel tempo, che leccarono Monti quando prese la stessa decisione con le stesse identiche motivazioni. Un PD con le idee politiche funzionali al padrone di turno. Evviva.

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Toglieteci la Lorenzin

Basta. Davvero, basta. Abbiamo sopportato la castrazione mentale della ministra nelle sue perverse idee della famiglia tradizionale, l’abbiamo sopportata mentre lei (a capo del Ministero della Salute) diffondeva notizie false sulla cannabis, abbiamo subito l’orripilante campagna sul fertility day con la donna erta a utero fecondo e poi l’abbiamo sentita frignare scuse patetiche e ora ci ritroviamo di fronte all’ennesimo stereotipo del negro sporco brutto e cattivo: c’è un momento in cui si ha il dovere di dire basta. Basta. Questa grottesca signora a capo di un ministero è indegna, incapace e inopportuna.

Il punto, attenzione, non è nei contenuti politici che possono essere più o meno condivisibili: qui si tratta di estirpare un luogocomunismo che ridicolizza l’Italia agli occhi del mondo e lo Stato agli occhi dei cittadini. Beatrice Lorenzin è la testimonial perfetta dell’antipolitica più becera che si nutre delle inettitudini della classe dirigente e lei, la ministra, è il viagra perfetto per spargere rabbia e indignazione.

Non si tratta nemmeno di una linea politica che ha ben poco da vedere con un presunto e pretestuoso governo di centrocentrocentrocentrosinistra: se è vero che Renzi da tempo ci dice che questa è oggi l’unica maggioranza possibile (e qui se ne potrebbe scrivere per ore) è altresì innegabile che la Lorenzin non sarebbe potabile nemmeno se avesse pensieri condivisibili. Qui parliamo di una leggerezza (o una malafede) da sacrestano di uno sperduto paesello di fine ottocento. La Lorenzin svolge il proprio ruolo di ministra con la banalità di una chiacchierata da bar. La Lorenzin, insomma, è la peggior cattiva abitudine a cui rischiamo di abituarci.

Renzi ci spieghi, ma davvero, come sia possibile che nel cesto del NCD non si riesca a trovare qualcuno più preparato e attento. Se è una questione di poltrone assegnate per accontentare gli alleati allora scambiamo la Lorenzin con dodici sottosegretari, regaliamo agli alfaniani un giudice costituzionale o qualsiasi altra cosa che possa risarcire Angelino per un ministro in meno e che possa risarcire noi dall’aver avuto una tale ministra. Anche un ministero vacante riuscirebbe a fare meglio.

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Caro Flavio Briatore

Caro Flavio Briatore,

che oggi ci vorresti insegnare come cellofanare la bellezza, i musei e il paesaggio in una confezione take away per pigri ricconi tutti decibel e bollicine. L’intervista a Repubblica in cui annunci faraonico l’apertura del tuo nuovo locale Twiga a Otranto è il misero condensato di un Paese condannato a essere svenduto come parco dei vostri (poco) parchi divertimenti piuttosto che portatore sano della propria storia. Non stupisce la superficialità della lezioncina che tenti goffamente di impartire dall’alto del tuo snobismo così patetico ma poiché le parole sono importanti conviene fermarsi un secondo a rileggerle.

Dici «ci sono persone che spendono 10-20mila euro al giorno quando sono in vacanza – dice Briatore nel corso dell’incontro ‘Prospettive a Mezzogiorno’ a Otranto – ma a questi turisti non bastano cascine e masserie, prati e scogliere: vogliono hotel extralusso, porti per i loro yacht e tanto divertimento» ma qui, caro Briatore, sbagli subito bersaglio. La clientela a cui tu aneli non ha nulla a che vedere con il turismo: è turista chi viaggia per visitare un luogo ed immergersene mentre tu parli di bulimici consumatori d’arrembaggio. L’ecosistema che sviluppa il tuo modello di locale (dai vari Billionaire fino alla tua discoteca extralusso imbullonata in mezzo al Kenya) sono la brodaglia di esibizionisti, paparazzi, potentuncoli e starlette del sottobosco politichese. Non c’entrano prati, scogliere e nemmeno cascine e masserie: il tuo progetto è una riserva naturale che per egoismo imprenditoriale potrebbe stare benissimo in un angolo qualsiasi del mappamondo, tra il cemento o il mare, con il primario bisogno di non avere interferenze dal resto del mondo tutto intorno.

Il turismo esclusivo, del resto, non è nient’altro che l’abuso privatistico di un brand. Il tuo Twiga di Marina di Pietrasanta (tanto per prenderne uno a caso) grazie a dio non ha nulla da condividere con la città tutta intorno: è uno zoo, una riserva chiusa, un bunker di divertimento turbospinto che di Pietrasanta ha solo il domicilio fiscale. Per voi è il parterre, quello che vi sta intorno.

Dici: «masserie e casette, villaggi turistici, hotel a due e tre stelle, tutta roba che va bene per chi vuole spendere poco ma non porterà qui chi ha molto denaro.» E poi aggiungi «servono alberghi di lusso sul mare» con la faciloneria di chi è convinto di poter sopravvivere mangiandosi i suoi soldi.

Vedi, caro Briatore, io non so esattamente quando sia successo che ti sia stata assegnata la palma d’oro dell’imprenditore credibile.

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Credibili piuttosto che credenti

Rosario Livatino. Il giudice ragazzino. Chissà se oggi con questa moda internettiana di riesumare un morto al giorno riusciremo davvero a raccontare quel giudice antimafioso raggiunto dal colpo di grazia mentre franava lungo una scarpata. Chissà se in questo tempo di antimafia di plastica oggi troveremo la voglia di provare ad essere seri, di approfondire, di esercitare memoria oltre al semplice commemorarla.

Rosario Livatino viene ucciso dalla mafia agrigentina il 21 settembre del 1990 mentre si recava in tribunale. Senza scorta. Erano i tempi della lotta alla mafia che non seminava divismo: erano gli anni in cui lottare personalmente contro la mafia era un gesto incomprensibile; perché buttarsi in una battaglia tanto grande, si dicevano.

«Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili.» scriveva Livatino nei suoi appunti e, al di là, dell’attività giudiziaria forse la caratura di Livatino è tutta qui: il rovesciamento dei pregiudizi da cui non riusciamo a liberarci è il primo passo di ogni rivoluzione culturale. Anche di giustizia.

Ecco, oggi che siamo diventati così bravi a appuntire i nostri giudizi su tutti gli altri, oggi che ci siamo ammaestrati a sentirci assolti mentre condanniamo il resto, oggi che ci sgoliamo nelle pretese concedendoci di non essere nemmeno informati, mi chiedo, oggi, come ne usciremmo noi dai nostri stessi giudizi?

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La gentilezza è rivoluzionaria

È successo una decina di giorni fa: a San Giorgio Liri, paese frusinate tra i monti Aurunci, stavamo tenendo la piazza per un incontro sul prossimo referendum costituzionale. Una della tante serate di politica che si ripetono in questi giorni negli spiazzi ancora temperati d’estate: un tavolo, microfoni, qualche bottiglietta d’acqua naturale, la bandiera di un partito o di un comitato intovagliata cadendo di fronte al pubblico e un angolo che diventa palco lì dove c’è più luce. Bene o male questo referendum ha moltiplicato le riunioni all’aperto che coltivano il fare comunità: bene o male questo referendum ha sbriciolato il rarefatto talk show nel più nobile “parlarne insieme”.

Una serata che si svolgeva come spesso succede tra lo snocciolare i nodi critici, i dubbi e le proposte. A vederla fino a qui sarebbe sembrato tutto normale. Fin qui.

Poi all’improvviso un anziano signore con passo lento benché sicuro si è avvicinato con una scatola in mano e il viso gentile. Portava caramelle all’anice e uno a uno ha preso a offrirle a tutti. Tutti: scivolando tra le file come il cestino delle offerte in chiesa ha guardato tutti diritti negli occhi. «Caramella?». Solo questo diceva. Si è avvicinato anche al tavolo dei relatori: cosa volete che gliene freghi dei palchi e dei confini immaginari a chi s’è preso la briga di scendere così tardi da casa per sapere se qualcuno volesse una caramella.

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Pisapia e il partito del “ni”

Avrebbero dovuto essere il fiore della sinistra che doveva cambiare il Paese: l’onda arancione, ci dicevano, sarebbe stata la marea positiva che si sarebbe portata via il vecchio e avrebbe concimato il nuovo. Dico, ma ve la ricordate la speranza su Zedda, Pisapia, Doria e De Magistris (quest’ultimo, tra l’altro sempre sbertucciato dagli altri in nome di una diversità antropologica che forse con il senno di poi non è mica tanto sbagliata). Arancione vivo che poi negli anni è diventato rosso stinto.

Andiamo con ordine: ieri Giuliano Pisapia rilascia un’intervista in cui ci dice di non avere ancora deciso cosa votare al referendum sulla riforma costituzionale. Un’intervista che segna una svolta nella comunicazione politica: la dichiarazione di cosa non si pensa spiattellata su un quotidiano nazionale. Pisapia, insomma, ci insegna cosa NON è vero. E si accoda a Bersani (che si sta lasciando andare a riti vodoo in attesa di decidere cosa deve decidere), a Speranza (che dice che oggi voterebbe no ma chissà come si sveglierebbe domani) e poi agli altri non pervenuti come Zedda e Doria.

Stupisce? No, per niente. Per caso qualcuno ha avuto modo di sapere cosa ne pensino gli “arancioni” di jobs act, buona scuola e tutte le ultime riforme? Dati non disponibili, come nelle stazioni meteo più sperdute che sembra non interessino a nessuno.

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Se-ces-sio-ne

Poi, all’improvviso, piovono perle e sembra di tornare indietro di vent’anni. Così.

Umberto Bossi rilancia la secessione dal palco di Pontida, la tradizionale festa del Carroccio. Ma è botta e risposta con Matteo Salvini . La Lega – scandisce il Senatur – “non potrà mai essere un partito nazionale”: e l’obiettivo deve rimanere la “secessione” della Padania. “Io ho ascoltato in questi tempi con molta attenzione la Lega – ha detto tra l’altro Bossi -. La Lega è in un momento di grande confusione, è stata né carne né pesce, ma la Padania resta nel cuore e nella testa”. Bossi ha sostenuto che “la Lega è stata fatta per la libertà del nord dall’oppressione del centralismo italiano, non per altri motivi”, e ha osservato che “troppo spesso si sente parlare di uscire dall’euro, ma i fatti dicono che l’Italia si porta via 100 miliardi di euro e l’Europa due: chi è dunque il nemico? State attenti a tirare le conclusioni così”. Bossi, senza fare nomi, si è infine rivolto ai leghisti radunati a Pontida nel ventennale della dichiarazione di indipendenza della Padania affermando che “a volte i dirigenti devono essere richiamati dai veri proprietari, i militanti”.

(fonte)

La riforma più urgente? Allenare la curiosità.

Se dovessi augurarmi una riforma urgente per questo Paese opterei per l’educazione obbligatoria alla curiosità. Sarebbe probabilmente osteggiata da gran parte del blocco dirigente di questo Paese, non verrebbe ben vista dall’establishment finanziario, non andrebbe molto giù alle lobby in generale ma sarebbe il miglior parco giochi da augurare ai propri figli.

Insegnare curiosità, quindi? No, per niente, figurarsi: i professori emeriti della curiosità, del vedere oltre e dell’infilare la faccia dentro tutto ciò che non ci è completamente chiaro sono i nostri figli. I bambini del resto finiscono per perderla, la curiosità, logorati dalla fissità di visioni e dalla idolatria dei pregiudizi. Non bisogna mica insegnarla la curiosità: serve preservarla, evitarne la sclerotizzazione e concimarla con etica, coraggio e fantasia.

Molte delle scelte peggiori delle classe dirigenti in questi ultimi anni sono “passate” grazie alla disattenzione, la curiosità impolverata e la stanchezza dei cittadini. Un popolo curioso è ostico alle decisioni che non perseguono il bene comune; un popolo poco curioso è burro per gli interessi personali.

Allenare il muscolo della curiosità quindi significa promettersi che il muscolo rimanga sempre tonico e allungato. Allenare il muscolo della curiosità significa imporsi di fare politica oltre che ascoltarla. Allenare il muscolo della curiosità significa imparare a scardinare gli slogan, rifiutare i demagoghi e riconoscere meglio i truffatori.

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Artisti e intellettuali. Ma timidi.

Va di moda la timidezza politica fuori dalla politica. Soprattutto tra attori, scrittori, intellettuali di ogni sorta, cantanti e tutti quelli che appaiono probi e coraggiosi quando non si tratta di prendere una posizione politica.

D’altra parte in mezzo a tutti questi timidi c’è anche chi usa il proprio mestiere (o arte, ma mestiere mi sembra già una parola talmente poetica da non doverne cercare un sinonimo) per entrare nel merito di quello che succede. Questa sera con noi c’era Maurizio de Giovanni che ha parlato senza sconti miscelando Costituzione, referendum, scrittura, narrazione della violenza e memoria.

Roba da non credere, oggi. Eppure Maurizio l’ha fatto. E sarebbe così normale in un Paese che la smetta di accettare intellettuali politicamente frigidi. Sarebbe così normale in un Paese che finisca di tollerare l’apatia di chi sembra avere le idee chiare sul mondo ma non riesce a inimicarsi uno straccio di assessore.

Buona notte.

Perché parto per Salerno

A volte le grandi occasioni stanno nascoste nelle pieghe sottilissime di panni a cui non prestiamo più troppa attenzione: l’abitudine, si sa, è il miglior regalo che si possa concedere a un governante che anche da sgradito riesce a issarsi a bandiera del meno peggio. Funziona così: creare il deserto è chiamarlo pace, piallare tutto il resto e poi piangere per la troppa pianura oppure, ancora meglio, fare la parte del coltello in un momento in cui il burro è praticamente liquido.

A volte la politica, ma anche la cultura o la società o semplicemente l’ingegneria del vivere insieme, coccola le sensazioni peggiori per usarle come clave: la disperazione, per la politica, è l’arma più potente che sia mai riuscita ad inventare; ma mica la disperazione coscientemente disperata che porta le persone a scendere in piazza, no, quella no, troppo appuntita e rumorosa piuttosto la politica nostrana (ma in fondo la politica tutta) preferisce di gran lunga la disperazione che rimane un po’ fessa, basita e imbolsita, nella testa di chi crede che è tutto finito, che è tutto un incastrato immobile, che si vota per dire di non avere voglia di votare.

Ma cosa ci siamo messi in testa, un altro partito? Perché servirebbe un partito in un panorama strapieno di bande organizzate sotto diversi loghi, sigle e vessilli? La domanda circola, si ripete e rimbalza in ogni angolo mentre camminiamo per l’Italia a raccontare la nostra riforma costituzionale, il nostro NO che è un “SÌ, facciamola con misura e intelligenza”: un altro partito?, mi chiedono con l’esasperazione scambiata per stanchezza.

Possibile si debba mettere insieme Possibile? Mi dicono. Con Sinistra Italiana, il PD, la sinistra del PD, la destra di SEL, De Magistris e i sindaci, il M5S. E Bersani? E D’Alema? E Pizzarotti? Il sogno della disperazione sarebbe almeno mettere insieme gli avanzi per poter fingere un piatto ricco. Serve un altro partito? Non lo so. Serve, certo, rimanere fuori dalle beghe che imperversano nei partiti non ancora nati. Questo sì. Ci sia concesso almeno questo. Fateci credere che una volta, una volta almeno, se falliamo abbiamo fallito noi senza poter trovare scuse. Possibile (che a lungo molti hanno voluto dipingere come “Improbabile”) è un seme che non ha nemmeno lo spazio per le correnti: progetti, disegni, pensieri, politica. Possono piacere o no ma dentro possibile ci sono fluidi che scendono a valle. Nessun mulinello, nessuna masturbazione.

Perché serve Possibile? Perché ci stanno lavorando in molti. Ci stiamo lavorando. In molti. Discutendo di ciò che sarebbe da fare senza preoccuparci di fabbricare merce di scambio. Serve un altro partito, quindi? O beh, che ne servano milioni se la moltitudine garantisce meno preoccupazione per i giochi interni. Da queste parti si sogna un Paese in cui ogni cittadino si fa partito, pensa te. E poi, solo poi, costruire un luogo che è coalizione di obiettivi, pensieri lunghi e comunità di sensibili concordi. Ne servono milioni di partiti in un Paese che ha fatto dei partiti le mutande pubbliche di qualche signorotto. Sì. Credo di sì.

Perché il Politicamp di Salerno è importante? Perché la politica è una palestra umana e per restare umani serve anche restare insieme. Abbiamo milioni di cose da raccontarci: senza scendere nei patetici inferi dei complottismi c’è un pezzo di politica che ha cercato di cancellarci e non c’è riuscito. E ora tocca a noi, è la nostra mossa. Ora c’è da raccogliere le forze, le persone, la via e le energie. Ora c’è l’occasione di fare del nostro bancone da bar all’aperitivo il nostro comitato politico. Ora.

La politica si fa, non si dice. E a Salerno stringiamo il patto di rispettare le nostre storie. Praticandole. Insieme. Ecco perché è cruciale. O no?

(il programma della manifestazione è qui)

(come arrivare, come dormire, lo trovate qui)