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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

#Left cosa ci abbiamo messo dentro

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Nel numero in edicola sabato ho raccontato la storia di Luca Neves (in arte Fat Negga) che è diventato straniero in casa propria.

Il sommario del prossimo numero è qui. Come sempre sono curioso di sapere cosa ne pensate.

Su #renzirisponde

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Se ne sta scrivendo un po’ dappertutto oggi. E tra le tante cose vale la pena leggere due pezzi due, secondo me: c’è questo articolo di Adriano biondi che prova a verificare se e quanto tutto quello che è stato detto corrisponda al vero e c’è Galatea che fa una riflessione sulla disintermediazione qui. E, volendo, c’è la disintermediazione che non sta funzionando benissimo a Napoli, ecco. Qui.

Perché Giulio Regeni era una minaccia per le forze di sicurezza egiziane

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Un pezzo interessante di di Jean Lachapelle:

«Poche settimane fa, una persona che stava facendo ciò che faccio io — ricerca sul campo in Egitto — è stato assassinato. Giulio Regeni, cittadino italiano, era un ricercatore di filosofia presso la Cambridge University che studiava i movimenti dei lavoratori egiziani. È scomparso il 25 gennaio, il quinto anniversario delle rivolte del 2011, e i suoi resti ritrovati alcuni giorni dopo presentavano segni di bruciature, ossa rotte ed elettroshock. Queste lesioni sono state interpretate come segni di tortura, poiché somigliano alle stesse subite dai molti egiziani che si sono trovati a fare i conti con le forze di sicurezza del Paese in passato. Di fronte a quello che potrebbe essere il primo caso di uccisione da parte della polizia di uno studente straniero in Egitto, il MEA (associazione degli studi in medio oriente) ha di recente inviato un avviso di pericolo ai propri membri.

Cosa possiamo fare per questa tragedia? Perché è stato ucciso? E ancora, ci sono altri ricercatori a rischio?

La notizia della morte di Regeni è un profondo shock per tutti coloro che hanno condotto una ricerca in Egitto. Come lui, io ho intervistato attivisti dei sindacati commerciali indipendenti. E come molti altri cittadini di nazionalità non egiziana, ho potuto provare il largamente diffuso, ma raramente dichiarato assunto che il mio stato di cittadino straniero mi offrisse un po’ di protezione dai modi estremi della polizia, come l’abuso fisico. Questo terribile evento indica entrambi i limiti di quel senso di comfort e il sempre esplicitato spazio per i ricercatori, stranieri o egiziani che siano.

Non è immediatamente ovvio perché le autorità possano aver considerato Regeni una minaccia. Lui faceva ricerca sindacati indipendenti, un argomento apparentemente innocuo in un Paese dove la sinistra non solo è debole, ma anche ostile ai fratelli mussulmani, ovvero gli oppositori maggiori del regime. Inoltre, lo studente non era l’unico accademico sul campo che studiava problemi sensibili.

Altri ricercatori hanno intervistato gli attivisti dell’opposizione sotto il corrente regime militare, inclusi membri dei fratelli mussulmani, mentre studenti hanno pubblicato alcune criticità del regime. Ma è stato questo giovane ricercatore che ha incontrato un così brutale destino.

Perché?


Dal 2011, ho studiato come le forze di sicurezza egiziane percepiscono le minacce e selezionano i loro obiettivi. Ho catalogato atti di coercizione da parte della polizia, consultato documenti amministrativi e parlato con attivisti politici, inclusi i leader del lavoro e gli ex membri delle forze di sicurezza. La mia ricerca mi ha insegnato due cose. La prima è che le forze di sicurezza prestano più attenzione ai segnali di politicizzazione nei movimenti dei lavoratori. Sotto il regime di Mubarak, le forze di sicurezza stabilirono una sottile distinzione tra i disordini di tipo politico e quelli di tipo economico. Le proteste dei lavoratori venivano spesso tollerate o ignorate fintanto che i protestanti non facessero rivendicazioni politiche. In parallelo, agli attivisti politici erano comunque consentite le proteste e le critiche al regime, a patto che non tentassero di aizzare le masse a fini anti governativi.

Secondo, le forze di sicurezza hanno diverse idee sulle cause delle mobilitazioni popolari. Come i ricercatori sociali, le autorità egiziane hanno sviluppato teorie sull’esplosione delle rivolte popolari nel 2011. Mentre i primi hanno enfatizzato la spontaneità, il coraggio e le azioni dei cittadini ordinari durante i 18 giorni delle rivolte del 2011, le forze di sicurezza egiziane credono che la rivolta fu suscitata da ben organizzate forze politiche, capaci di manipolare la maggioranza dei cittadini per fini politici. Nell’estate 2011, quando chiesi ad un ex membro delle forze di sicurezza perché i protestanti anti-Mubarak avessero avuto successo, lui diede la colpa a cospirazioni dall’estero, in particolare dal gruppo palestinese Hamas. Accuse di pressioni dall’esterno che causano instabilità politica in Egitto sono comuni tra i media egiziani.

Negli USA, queste visioni sono spesso chiuse come classica propaganda autoritaria. Comunque sia, la mia ricerca suggerisce che queste ansie sono reali e spiegano il modo in cui il regime egiziano percepisce le minacce. In particolare, fanno in modo che le forze di sicurezza siano molto attente ai legami tra gli elementi stranieri e i settori “mobilizzabili” della società.»


È possibile che le attività di ricerca di Regeni siano state scambiate come tentativo di preparare una nuova rivolta. Lui ha costruito legami con gli attori locali, frequentato incontri con gli attivisti del lavoro e parlava un arabo eccellente — una abilità essenziale per un ricercatore, ma anche un elemento che sfortunatamente tende a creare sospetti. Sembra che avesse a cuore i problemi del lavoro e scrisse articoli critici sul regime guidato dal presidente Al-Sisi per un giornale italiano. Un articolo, pubblicato postumo, che offre una analisi accurata dello stato dei sindacati indipendenti in Egitto.

Contrariamente a ciò che è stato suggerito altrove, le sue visioni critiche erano probabilmente meno consequenziali rispetto alle sue connessioni, i suoi contatti e il suo attento lavoro di reporting sul campo.

Regeni è sparito durante un’azione di sicurezza atta a prevenire qualsiasi tipo di protesta il giorno del 25 gennaio. Nei giorni precedenti questo anniversario, le forze di sicurezza hanno perquisito 5000 appartamenti nel centro del Cairo, un’azione che, a quanto riferito, aveva seguito mesi di lavoro di intelligence per trovare “attivisti pro-democrazia dentro e fuori dal Paese, stranieri inclusi”.

Forse il rapimento di Regeni fu ordinato dopo una lunga osservazione. O forse è stato semplicemente preso dalla strada da qualche ufficiale nervosetto mentre era sulla via per incontrare un amico, per poi aumentare il sospetto durante la detenzione. Ad ogni modo, il fatto che sia stato “interrogato fino a 7 giorni” indica la probabilità che le forze di sicurezza lo vedessero come una minaccia.

(continua qui)

«Renzi? Più che un rottamatore è in effetti un disneyficatore»: scrive un professore di Harvard

Lettera di Francesco Erspamer, professore a Harvard:

renziharvard-600x766«Questa mattina Matteo Renzi parlerà a Harvard. Penso che abbia voluto venirci, oltre che per promuovere se stesso, per promuovere in Italia la sua riforma dell’università. Il premier italiano lo disse chiaramente, alcuni mesi fa: bisogna imitare il modello americano. E ora è venuto per far vedere ai suoi connazionali ed elettori che lui quel modello lo conosce. Harvard è la più prestigiosa università del mondo e questo gli basta: non si domanda con quali criteri e scopi siano stilate le classifiche di eccellenza o quali siano le condizioni e implicazioni di una simile preminenza (per esempio che Harvard sia una corporation con un capitale di più di 36 miliardi di dollari che ammette lo 0,04% degli studenti che ogni anno vanno al college) o tanto meno quale sia il livello delle altre 4139 università americane: no, lui tornerà tutto contento in patria e proclamerà che l’università italiana, la più antica del mondo, deve diventare come quella americana, convinto che se lo diventasse non sarebbe una scopiazzatura fuori contesto e fuori tempo (l’America sta cominciando a guardare all’Europa per rimediare ai disastrosi scompensi del suo sistema educativo) ma una sua grande innovazione. Un po’ come se gli riuscisse di aprire uno Starbucks in Piazza della Signoria a Firenze; o ancor meglio in Piazza della Repubblica a Rignano sull’Arno.

Ma non è per questo che stamattina non andrò a sentirlo. E neppure per via del mio radicale dissenso con il suo progetto di reaganizzare l’Italia (e per di più in ritardo, quando gli altri paesi stanno cercando rimedi): non andrò a sentirlo perché è venuto a Harvard con lo stesso spirito con cui sarebbe andato a inaugurare un centro commerciale o ad aprire il nuovo anno alla Borsa di Milano. Tutte cose che un primo ministro deve fare: ma accorgendosi che sono differenti e rispettando le loro differenze. Per Renzi invece sono la stessa cosa: occasioni di visibilità, interamente prive di contenuti.

Significativamente, non parlerà alla Kennedy School of Government, dove avrebbe avuto senso per il ruolo istituzionale che ricopre. E neppure a economia, in riconoscimento delle sue riforme liberiste. Parlerà in un museo, all’Harvard Museum. Scelto, immagino, per confermare l’immagine che dell’Italia hanno gli americani: il paese della cultura e della bellezza. Forse chi lo ha invitato ricordava la sua foto insieme a Angela Merkel sotto il David, al meeting di un anno fa alla Galleria dell’Accademia: senza accorgersi (o peggio: senza curarsi) di quanto non autentica fosse quella cornice: ambienti carichi di storia abusati per promuovere politiche globaliste, volte a distruggere proprio quell’identità culturale.

Più che un rottamatore Renzi è in effetti un disneyficatore: che banalizza tutto ciò che tocca riducendolo a evento mediatico, dunque equivalente a qualsiasi altro che attiri l’attenzione dei giornali e dei network televisivi, senza gerarchie, distinzioni, senza valori di riferimento. La sua dimensione è quella della pubblicità e dei reality, in cui si fa finta di essere veri ma facendo in modo di non essere davvero creduti, in cui ci si maschera ma mantenendo una distanza ironica che impedisca equivoci, guardandosi bene dal correre il rischio che possa diventare un’esperienza autentica e dunque cambiare qualcosa. In ciò Renzi è integralmente liberista, impegnato nella sistematica deregulation dei princìpi e specificamente dell’autenticità: contro la quale impiega collaudate tecniche come la cazzata, che toglie di significato (scrisse il filosofo Harry Frankfurt in un celebre saggio) all’opposizione verità-menzogna e realtà-virtualità.

Non so di cosa parlerà a Harvard. Gli annunci del suo intervento non aiutano: “A keynote address”, “un discorso ufficiale”, senza ulteriori specificazioni, a confermare che non è venuto perché avesse qualcosa da dire. C’è venuto per far sapere che c’è stato. Presumo che abbia messo qualcosa insieme all’ultimo momento, cercando su Google qualche aneddoto su Harvard; come fece poco più di un mese fa in un’altra università, quella di Buenos Aires, dove al termine di un discorso confuso e infarcito di perle da Baci Perugina (“Non c’è parola più grande dell’amicizia per descrivere la storia di popoli diversi”: qualcuno mi spieghi cosa significa) citò in spagnolo dei versi di Borges. Solo che non era una poesia di Borges, subito notò El País, bensì un falso che compare su internet quando si inserisca la coppia di parole borges-amicizia.

Qualcuno ricorderà il concetto rinascimentale di sprezzaturateorizzato nel Cortegiano, uno dei libri italiani che più influenzarono la civiltà europea. Castiglione pretendeva dalla classe dominante, in cambio dei suoi privilegi, capacità e stile senza ostentazione: bisognava sapere tutto e saper fare tutto però come se fosse una cosa naturale. Ma quella era una società fortemente regolamentata. Nell’età della deregulation i vincenti alla Renzi seguono un precetto opposto: ostentazione senza capacità né stile. Per questo stamattina non andrò a Harvard ad ascoltarlo. Perché a differenza di Berlusconi e di tanti altri politici, Renzi non si limita a ignorare la cultura o magari disprezzarla. La cultura può sopravvivere all’ignoranza e al disprezzo. No, Renzi la svuota. Con la sua programmatica trivialità svilisce la ragione e il linguaggio, riduce la comunicazione, ossia la facoltà più propriamente umana e sociale, a rumore. La chiarezza e il rigore costringono a una certa misura di coerenza; le improprietà deresponsabilizzano, rendono tutto indifferente, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, le qualità e i difetti, i profittatori e le loro vittime. E quando il vuoto diventa uno stile e un programma, la fine della democrazia è pericolosamente prossima.»

(fonte)

Ops, Sala si è dimenticato della sua casa e del suo conto in Svizzera

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(Gianni Barbacetto per Il Fatto Quotidiano)

«Giuseppe Sala, candidato sindaco a Milano per il centrosinistra, nella sua risposta alle tre domande poste dal Fatto Quotidiano (rapporti con Cl, possesso di conti all’ estero, appartenenza alla massoneria) ha ammesso di avere un conto corrente all’ estero: “Ho un appartamento di vacanze a Pontresina in Svizzera e ho un conto bancario per le spese strettamente connesse all’ abitazione e per nessun altro utilizzo”.
È una casa a La Senda, nell’ incantevole paese di Pontresina, in Engadina, a un passo da St. Moritz. Un conto e una casa all’ estero devono essere dichiarate al fisco italiano, nel quadro RW della dichiarazione dei redditi. Non abbiamo l’accesso all’ anagrafe tributaria, dunque non possiamo verificare se il candidato abbia fatto il suo dovere con il fisco. Ma sappiamo che non l’ha fatto con il Comune di Milano e la società Expo 2015 spa. Perché come amministratore di un’azienda pubblica, Sala ha l’ obbligo di dichiarare i beni immobili posseduti.
Nelle sue dichiarazioni, la casa in Svizzera non c’ è. E non c’ è, a essere puntigliosi, neppure la sua villetta al mare di Zoagli. Sala ha messo online una “Indicazione reddituale e patrimoniale” aggiornata al 31 dicembre 2014 in cui dichiara un reddito imponibile di 410 mila euro e, come beni immobili, il possesso del 12,5% di un fabbricato con due box (è la quota della casa di famiglia a Varedo) e del 100% di un terreno: non ci sono indicazioni ulteriori, ma è il terreno di Zoagli, che però non è un semplice terreno, bensì una villa, quella per cui Sala ha chiesto l’ intervento, a pagamento, dell’ architetto Michele De Lucchi che, mentre lavorava per il commissario di Expo, riceveva da Expo (anche attraverso Fiera Milano spa) incarichi per un valore di oltre 600 mila euro per il Padiglione Zero e l’ Expo Center. In questa dichiarazione non c’ è alcun accenno all’ appartamento in Svizzera.»

Nero di Lucania

Tramutola (Val d’Agri), affioramento naturale di petrolio. © Michele Amoruso
Tramutola (Val d’Agri), affioramento naturale di petrolio. © Michele Amoruso

Simone Valitutto e il fotoreporter Michele Amoruso hanno fatto un bel lavoro per raccontare il rapporto tra il petrolio e la Lucania. Ed è importante leggerlo per capire quanto la questione non sia strettamente giudiziaria, economica o imprenditoriale ma soprattutto culturale. E quando qualcuno racconta il brutto con bellezza è sempre un’occasione rara.

Trovate tutto qui. O cliccando sulla bella foto di Michele.