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Il Cittadino sullo spettacolo “Odio gli indifferenti”

In quali ambiti è inapplicata, se non addirittura tradita, la Costituzione italiana? Che Italia sarebbe quella in cui la politica, tutta, si ripromettesse di applicare la Costituzione? E come sarebbe un Paese fondato sulla rendita se domattina dovesse svegliarsi fondato davvero sul lavoro?

Parte da Lodi il tour della nuova “giullarata politica” firmata da Giulio Cavalli. Questa sera (ore 21) l’attore, giornalista e scrittore lodigiano sarà in scena al teatrino San Rocco in via Padre Granata 14 con “Odio gli indifferenti – Che Paese saremmo se si rispettasse la Costituzione”, anteprima dello spettacolo che dal 12 al 21 gennaio sarà al teatro della Cooperativa di Milano. Cavalli dividerà il palco con Luigi De Magistris, una lunga carriera come pubblico ministero prima dell’entrata in politica, culminata nell’incarico di sindaco di Napoli. L’anteprima lodigiana è organizzata in collaborazione con il BarZaghi (per info e prenotazione biglietti, 339 6535017), il locale nell’omonimo piazzale sempre più protagonista della vita culturale cittadina.

«”Odio gli indifferenti” è una giullarata in cui si immagina che nel 2048 esca un decreto che obblighi a rispettare la Costituzione in tutte le sue parti. Si tratta di uno spettacolo fondamentalmente comico, sullo stile di Dario Fo – racconta Cavalli che da pochi giorni ha pubblicato anche il suo nuovo romanzo, “I mangiafemmine” (Fandango libri) -. Mi serviva un pubblico ministero, da qui l’idea di invitare Luigi De Magistris, in scena da ex magistrato senza alcuna inclinazione politica. Abbiamo organizzato un “numero zero” a Foggia, una tappa andata decisamente meglio del previsto, mentre a gennaio inizierà il tour al teatro della Cooperativa di Milano. Il BarZaghi ha deciso di entrare come coproduttore dello spettacolo, chiedendoci di realizzare una prova aperta a Lodi». Cosa succederebbe in Italia se si rispettasse davvero la Costituzione? «Alcune professioni, per esempio, non esisterebbero: solo per dirne una, la rendita non è considerata una professione. Durante lo spettacolo affrontiamo passaggi storici, attraverso video della fase costituente, e gli articoli fondamentali della carta. Si parla di ambiente, di preservazione della cultura e della bellezza. Essendo una giullarata, il canovaccio ci permette di improvvisare molto. In tour, a Milano, sul palco saliranno anche alcuni ospiti, ognuno dei quali porterà un articolo sulla Costituzione: tra loro Cecilia Strada che affronterà il tema dell’immigrazione»

Dillo alla mamma, dillo all’avvocato

Fa molto ridere e fa molto preoccupare la querela che Giorgia Meloni ha deciso di presentare nei confronti di Brian Molko, cantante del gruppo britannico Placebo che l’11 luglio scorso dal palco dello Stupinigi Sonic Park a Nichelino (Torino) ha definito “fascista”, “razzista” e un altro paio di improperi la presidente del Consiglio.

Fa sorridere perché Meloni si racconta come maledettamente impegnata quando c’è da fare visita ai migranti morti (o ammazzati?) nel naufragio di Cutro e poi trova il tempo di occuparsi di un concerto, parlare con gli avvocati e firmare una querela. L’idea che non vi fossero altre priorità in un Paese che perde miliardi del Pnrr, che affoga nel cambiamento climatico, che ha la sanità pubblica in demolizione, che da due giorni a mezzo milioni di poveri in più smaschera l’ipocrisia della propaganda. Fa sorridere anche che “l’underdog” Meloni (come ama definirsi) cerchi la rivincita con una band internazionale da 13 milioni di dischi. Finisce sempre così, sognavano tutti di diventare delle rockstar.

Fa molto preoccupare invece che una presidente del Consiglio non sappia distinguere la politica dal mondo che le si muove intorno, credendo di essere “capa” a tutti gli effetti in tutti gli ambiti. Chiunque abbia un briciolo di rilevanza pubblica (perfino coloro che scrivono sul giornale della scuola) sanno benissimo che potrebbero pescare diffamazioni a piene mani dappertutto. L’aspra critica politica al limite della legge tra l’altro è un tratto caratteristico di gran parte dei fan di Giorgia Meloni e della brigata di destra che sta al governo. Ma fa molto preoccupare anche il fatto che Giorgia Meloni insista nell’entrare a piedi uniti nello spettacolo e nella cultura. Come scrive lo scrittore Francesco Pecoraro “Meloni sa che il primo dato strutturale del contemporaneo è la cultura. Se le riesce di sostituire i paradigmi correnti, tutto il resto, cioè la società fascista, verrà da sé. I suoi servi sono già pronti. Altri ne stanno già accorrendo”.

Buon giovedì.

In foto Brian Molko e i Placebo, foto di Alessandro Caniglia, fonte Wikipedia

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La strage di Bologna e il treno palestinese

Quarantatré anni fa nella stazione di Bologna dei fascisti provocavano il più grave attentato nella storia d’Italia dopo la guerra. Come esecutori materiali sono stati individuati dalla magistratura alcuni militanti di estrema destra, appartenenti ai Nuclei Armati Rivoluzionari, tra cui inizialmente Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Nel 2020 l’inchiesta della Procura generale di Bologna ha concluso che Paolo Bellini (ex Avanguardia nazionale), esecutore insieme agli ex Nar già condannati in precedenza, avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, individuati quali mandanti, finanziatori o organizzatori.

Quarantatré anni dopo a Lonate Pozzolo, Comune lombardo su cui sorge l’aeroporto di Malpensa, il leghista Armando Mantovani durante una seduta del Consiglio comunale ci dice che è tutto falso. La strage di Bologna, secondo Mantovani, sarebbe stata provocata da un “vagone palestinese fatto esplodere apposta a Bologna”. Quando i suoi colleghi consiglieri gli fanno notare che ci sono le sentenze lui replica: “Se leggete solo una certa propaganda (le sentenze di tribunale), infatti però il treno era quello dei palestinesi”. E poi insiste: “Macché storia ragazzi, non sapete ancora perché hanno tirato giù Ustica e mi venite a parlare di Bologna”.

Armando Mantovani non è un mezzo matto eletto per caso. Mantovani è il segretario della Lega di Salvini a Lonate Pozzolo, quasi 12mila abitanti per 30 km quadrati. Qui siamo oltre al negazionismo del suo segretario e ministro Salvini che impartisce ridicole lezioni di clima: qui siamo al revisionismo storico per salvare i fascisti, i neofascisti, i quasi fascisti. Nel giorno della commemorazione un dirigente politico (eh, sì) decide di sputare sulle vittime per concimare il suo elettorato. La morale della storia non ha nemmeno bisogno di essere scritta.

Buon mercoledì.

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Giù le mani dal concorso esterno: pure De Lucia smonta la riforma Nordio

Ahi maledetta Commissione parlamentare Antimafia, foriera di tanti dispiaceri! Mentre la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro alla Giustizia Carlo Nordio sminuiscono qualsiasi osservazione sulla preannunciata riforma della giustizia come “male lingue” il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia audito dalla commissione presieduta dalla melonianissima presidente Chiara Colosimo (Fratelli d’Italia) smonta pezzo per pezzo la narrazione del governo.

La relazione di De Lucia

Si comincia con le odiosissime intercettazioni, strumento di indagine che proprio il ministro Nordio aveva definito poco utile perché, a suo dire, “i mafiosi non parlano al telefono”. De Lucia spiega che “le intercettazioni sono, nelle loro varie forme, uno strumento decisivo nella lotta alla criminalità organizzata. Perché ‘organizzazione’ vuol dire comunicazione, i mafiosi parlano tra di loro ed è indispensabile cercare di entrare all’interno dell’organizzazione ascoltando le loro comunicazioni”.

Anzi, secondo il procuratore di Palermo – che di mafiosi ne “ascolta” parecchi per mestiere – più che occuparsi di svilire le intercettazioni bisognerebbe preoccuparsi del fatto che “in questo momento – dice De Lucia – il meccanismo delle intercettazioni ci pone in ritardo rispetto alle forme di comunicazione che usano le mafie. Le mafie usano piattaforme criptate, rispetto alle quali noi siamo in ritardo. Quindi c’è un problema tecnologico ancor prima che normativo”.

Non solo: “L’importanza delle intercettazioni in tema di criminalità organizzata è tale che non posso immaginare una riforma in senso limitativo di questo strumento”, spiega De Lucia. Con buona pace di chi ne ha parlato senza la benché minima contezza del fenomeno mafioso. Il procuratore ha ribadito che “tutto quello che è stato fatto contro le mafia – ha aggiunto – è stato fatto con l’uso e il rispetto delle leggi”, a proposito degli “abusi” che vengono sventolati ogni volta.

Anche sui collaboratori di giustizia (volgarmente detti pentiti) il procuratore De Lucia ci tiene a precisare che sono “determinanti” per l’azione antimafiosa. Due elementi elenca De Lucia: collaboratori di giustizia e intercettazioni. A chi fa comodo indebolire questi due strumenti è presto detto: ai mafiosi. Il procuratore di Palermo, rispondendo a una domanda, ha anche spiegato che i “trojan” sono uno strumento “invasivo” ma irrinunciabile “specie in una situazione in cui il fenomeno della corruzione si manifesta come davvero pervasivo e importante”.

Il reato di concorso esterno

De Lucia è intervenuto anche sul reato di concorso esterno, che – sempre per bocca del ministro Nordio – è tornato in discussione: “Lo strumento del concorso esterno in associazione mafiosa, siccome è oggettivamente delicato, può essere oggetto di una riflessione” ma “è assai difficile immaginare di non ricorrere più a uno strumento che esiste dal 1930 e che si è rivelato uno strumento utile e corretto per colpire disvalori”, risponde De Lucia.

“È possibile rivisitare l’area applicativa ma solo per individuare forme più tipizzate. Quanto ad altre forme di riesame e all’abolizione tout court dell’istituto mi pare difficile”, dice De Lucia. Saranno scontenti coloro che vedevano all’orizzonte addirittura un’abolizione. Al procuratore di Palermo è toccato pure il compito di ricordare che “Cosa Nostra ora si è indebolita, ma è tutt’altro che sconfitta, e anzi in questo momento di debolezza cerca di ristrutturarsi per mezzo, tra le altre cose, della ricerca di nuovi capitali”. Con una precisazione importante: Messina Denaro non era “il capo” di Cosa nostra, nonostante sia stato “mitizzato”. Anche perché la mafia ha bisogno di un vertice, più di un capo.

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Quest’ultimo Primo maggio

Racconteremo questo ultimo Primo maggio come quello in cui il governo si è schiantato contro i sindacati, mica il contrario. Con un po’ di memoria potremo anche ricordarci che l’attacco ai sindacati come posizionamento politico è una pratica che negli ultimi anni è stata adottata anche da presunti leader di presunta centrosinistra. Non è roba nuova. Giorgia Meloni e compagnia semplicemente ci ha aggiunto quella punta di vittimismo che è l’additivo che non manca mai del suo fare politica, caratteristica fondante dell’azione di questo governo che mostra nemici dappertutto per farsi perdonare degli errori che sa già di compiere in futuro.

Racconteremo questo ultimo Primo maggio come l’ennesimo in cui una fetta della stampa (anche quella che si autodefinisce progressista) si è strizzata tutto l’anno per raccogliere le lagne id imprenditori che invocano il mercato quando guadagnano e accusano la politica quando non sono capaci di stare sul mercato. Un movimento nazionale che inorridisce di fronte a gente che rivendica i diritti e rifiuta salari da fame. Ristoratori, imprenditori, bacchette televisive che scorrazzano sui media invocando il dovere alla “fatica” e allo sfruttamento almeno con i giovani. Non è roba nuova. Con un po’ di memoria potremo anche ricordarci che il dovere alla fatica dei giovani come posizionamento politico è una pratica che negli ultimi anni è stata. adottata anche da presunti leader di presunta centrosinistra.

Racconteremo questo ultimo Primo maggio per un governo che vorrebbe spedire i giovani a lavorare nei campi in nome della difesa della Patria e non è riuscito a convincere i suoi parlamentari di maggioranza a rinunciare al ponte delle vacanze, andando sotto in Parlamento. È un contrappasso violento che squarcia l’ipocrisia di gente che non ha mai lavorato e che discetta di lavoro. Gente che lavora il Primo maggio per martellare il lavoro come ha fatto finta di essere antifascista il 25 aprile per logorare i suoi alleati. Una mendacia continua, sottopelle, che vorrebbe normalizzarsi per comparire.

Buon Primo maggio ai professionisti, invece. Coloro che professano i propri valori nel proprio mestiere.

Buon lunedì.

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Non hanno nemmeno il coraggio di fare i razzisti

Ci siamo. Il cosiddetto decreto Cutro, quell’abominio giuridico che il governo Meloni ha partorito con i cadaveri ancora caldi a pochi metri che la presidente del Consiglio e i suoi ministri non hanno avuto il tempo di onorare per correre a cantare al karaoke della festa a sorpresa per il compleanno di Matteo Salvini. Il disegno è chiaro: costruire un Cpr (centri di permanenza che in realtà sono centri illegali di detenzione) in ogni Regione per “normalizzare” l’illegalità; velocizzare i rimpatri per fottersene ancora di più dei diritti calpestati sulle domande d’asilo; cancellare fieramente la “protezione speciale”.

Poiché Giorgia Meloni vorrebbe apparire una xenofoba di “buon senso” (è il trucco per fingersi non razzisti) ci ha spiegato che «la protezione speciale è una protezione ulteriore rispetto a quello che accade nel resto d’Europa» durante la sua visita in Etiopia. Falsissimo. La protezione speciale può essere assegnata (art. 19) a un migrante se ci sono «fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare». Questa parte della legge è stata eliminata con il decreto Cutro.

Come spiega il sito Pagella Politica “Eurostat, l’ufficio statistico dell’Ue, raccoglie periodicamente i dati sugli esiti delle richieste d’asilo nei 27 Stati membri. Secondo i dati più aggiornati, nel 2022 almeno 11 Paesi europei, tra cui Germania e Spagna, avevano riconosciuto una forma di protezione per «motivi umanitari», in aggiunta allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria. È in questa categoria che rientrano i dati delle protezioni speciali assegnate dall’Italia, che fino al 2018 concedeva la protezione umanitaria (poi sostituita da quella speciale), eliminata dal primo governo di Giuseppe Conte, sostenuto da Lega e Movimento 5 stelle. Curiosità: anche all’epoca vari esponenti del governo avevano difeso l’eliminazione della protezione umanitaria dicendo che esisteva solo in Italia. Come avevamo spiegato, non era vero. Meloni, all’epoca all’opposizione, aveva fatto dichiarazioni simili.  Nel 2022, per esempio, la Germania ha concesso oltre 30 mila protezioni per ragioni umanitarie e la Spagna quasi 21 mila. L’Italia ha invece riconosciuto quasi 11 mila forme di protezione speciale. Nel 2018 la Camera dei deputati ha pubblicato un dossier dove ha confrontato i vari permessi di soggiorno concessi dai Paesi europei per motivi umanitari. Ognuno di questi permessi ha le sue caratteristiche e va ad aggiungersi, come detto, ai permessi di soggiorno concessi ai rifugiati o a chi è stata concessa la protezione sussidiaria”.

Le organizzazioni hanno criticato profondamente la nuova norma e gli emendamenti presentati in parlamento. Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e membro dell’Asgi, ha commentato: “Gli emendamenti al disegno di legge Cutro proposti dal governo in sede di conversione del decreto stesso al senato sono scellerati non solo per ciò che riguarda l’abrogazione della protezione speciale ma anche per la demolizione del sistema di asilo vigente (sia per ciò che riguarda la accoglienza che le procedure)”.

Scrive Asgi: “Rifiutiamo la contrapposizione tra migranti regolari e irregolari che emerge dalla scelta di inserire in questo testo provvedimenti inerenti al Decreto flussi, senza rafforzare il sistema di asilo: se da tempo chiediamo a gran voce l’allargamento dei canali legali di ingresso, sappiamo bene che non possono essere queste misure a rispondere al bisogno di protezione internazionale. E chi in questi venti anni ha provato ad assumere in regola dei lavoratori stranieri sa che le misure previste sono del tutto insufficienti, perché l’unica possibilità per favorire incontro tra domanda e offerta di lavoro regolare sta nel scardinare del tutto il meccanismo previsto dalla Bossi Fini. E’ fondamentale invertire velocemente la rotta e promuovere politiche eque ed efficaci sull’immigrazione e sul diritto di asilo. Partendo dall’opposizione a queste norme, in un percorso che chiede ingressi legali, corridoi umanitari, garanzia dell’accesso alla procedura di asilo e all’accoglienza, abbandono delle politiche di esternalizzazione e dei loro scellerati risultati, come l’accordo con la Libia, salvaguardia delle vite in mare”.

Buon martedì.

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Fazzolari, le armi a scuola e la vergogna per le sue passioni

Penna, calamaio, libri e moschetto. Non riuscendo a trattenere l’irrefrenabile amore per le armi e per la guerra secondo il quotidiano La Stampa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari si sarebbe fiondato a parlare con il generale Franco Federici per spiegargli la sua brillante idea di mettere a contatto “una rete di associazioni con il mondo delle scuole” per un bel corso di tiro a segno degli studenti.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giovanbattista Fazzolari, propone corsi di tiro a scuola, poi smentisce La Stampa

Il sottosegretario Fazzolari, braccio destro della presidente Giorgia Meloni, smentisce un secondo dopo ritenendo l’articolo “ridicolo e infondato”. Potrebbe essere, certo, ma non è infondato il video su YouTube in cui spiega le ragioni della sua battaglia in difesa del tiro a segno sostenendo che la liberalizzazioni delle armi non porterebbe a “nessun Far West” perché, dice, “chi fa tiro sportivo sa che non può sgarrare, altrimenti perde il porto d’anni”. Che si perda il porto d’armi dopo avere ammazzato qualcuno è un particolare che al sottosegretario sfugge.

La buriana però infuria. “Ci mancavano solo le armi a scuola. Le parole del numero due di Giorgia Meloni Fazzolari paladino dei portatori di armi, che secondo quanto riportato dalla stampa vorrebbe mettere le pistole in mano ai nostri studenti, sono gravissime e vanno chiarite al più presto”, dice la capogruppo del M5S in Senato Barbara Floridia.

Provenzano: “A quando le adunate del sabato?”

“A quando le adunate del sabato? Avete scambiato il Governo del Paese per un’assemblea del Fuan? Volete trasformare l’Italia nell’incubo trumpiano di disuguaglianze e notizie false contro gli oppositori. Ora anche armi”, twitta il vicepresidente del PD Peppe Provenzano mentre Piero De Luca, vicepresidente dei deputati Pd, ricorda che “la scuola non è un poligono”.

Il tesoriere di +Europa, Alfonso Maria Gallo sottolinea come “quello ‘bravo di Fratelli d’Italia” Fazzolari si occupi di “poligoni di tiro in tutte le scuole, per insegnare ai nostri giovani ad essere dei pistoleri provetti. Non ingegneri, non medici, non latinisti, storici o scienziati: pistoleri. Probabilmente il modello educativo di Fazzolari e di Meloni – spiega Gallo – è quello della strage di Columbine, o delle altre scuole americane dalle quali, troppo frequentemente, arrivano notizie delle drammatiche sparatorie che vedono coinvolti gli studenti”.

Nonostante “l’amore per le armi di Fratelli d’Italia sia evidente”, come sottolinea Conte, alla fine deve intervenire perfino il capo della Lega Matteo Salvini per smussare la polemica parlando di “idea non illuminata” del suo compagno di governo.

Da canto suo Fratelli d’Italia prova a fare quadrato. Giorgia Meloni manda in avanscoperta i suoi per difendere il compagno di partito e Fazzolari nel primo pomeriggio annuncia una querela per La Stampa. Il direttore del quotidiano piemontese però non sembra particolarmente intimorito: “Con temerario sprezzo del ridicolo, il sottosegretario Fazzolari ‘spara’ letteralmente la palla in tribuna, – dice il direttore Massimo Giannini – per smentire ciò che non è smentibile, cioè la sua idea di portare nelle scuole corsi di tiro a segno con le armi. L’articolo del nostro Ilario Lombardo, che confermiamo parola per parola, è inattaccabile e di fonte sicura al cento per cento”.

È una metafora di questi tempi: questi sono arrivati al governo solleticando intestini di cui pubblicamente si vergognano. Così il paradosso si conclude con una querela per un amore esibito da sempre.

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Letizia Moratti come James Bond

Stancamente in Lombardia trascina la sua campagna elettorale Letizia Moratti, ex sindaca di Milano per conto di Berlusconi poi ex ministra per conto di Berlusconi e infine vicepresidente regionale e assessora alla sanità per conto del leghista Attilio Fontana.

La campagna elettorale di Letizia Moratti sarebbe una storia perfetta per un romanzo dell’assurdo, un paradosso paradigmatico di questi tempi liquidi in cui si può essere tutto e il contrario di tutto, basta essere supportati da una buona comunicazione. Così dopo avere provato a candidarsi per il centrodestra (sulla base di una promessa che le sarebbe stata fatta, non si è mai capito bene da chi), Letizia Moratti si è offesa perché il centrosinistra non ha scelto lei. Già qui siamo oltre il paradosso eppure una fetta della politica italiana (Calenda e Renzi, e chi se no?) crede davvero che Letizia Moratti sia uno splendente fiore del riformismo e del progressismo.

A questo punto ovviamente la campagna elettorale diventa difficile. Che credibilità può avere una berlusconiana di ferro che vorrebbe agghindarsi come nuova iscritta a Lotta continua Così passano le settimane e Moratti viene attaccata dal candidato leghista Fontana («non la riconosco più», disse una volta con un velo di malinconia sul volto) e dal candidato del centrosinistra Pierfrancesco Majorino (a cui basta srotolare il curriculum dell’ex sindaca).

Siamo a ieri. Letizia Moratti deve avere avuto una lunga riunione con i suoi comunicatori perché ha estratto un coniglio dal cilindro. «Da dentro alla Regione ho potuto vedere tante inefficienze»: dice Letizia Moratti a Tgcom24 assicurando di sapere come risolverle. «Quando mi domandano perché non me ne sono occupata, semplicemente – è la sua risposta – perché le criticità che ho trovato in sanità erano talmente tante che tutte le mie giornate erano spese per quello. Non potevo dedicarmi ad altro. Le criticità che ho visto ora però so come sanarle». Avete capito bene. Dice Letizia Moratti di essere stata un’agente sotto copertura in missione per il riformismo che si è intrufolata nella destra per carpirne gli errori e quindi candidarsi come risolutrice.

E tutto questo riesce a pronunciarlo senza un minimo di vergogna. Il suo nome è Bond, Letizia Bond.

Buon martedì.

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Il senso del ridicolo su Matteo Messina Denaro

Era inevitabile che l’arresto del latitante più ricercato d’Italia scatenasse l’euforia che smutanda i vizi. Come la virologia e la geopolitica anche l’antimafia è un tema divertente su cui scannarsi, facile da strumentalizzare perché ricco di misteri e comodo per riempire le pagine dei giornali.

Sull’attribuzione del merito al governo Meloni (come vale da sempre per qualsiasi governo) tocchiamo le prevedibili vette della banalità della propaganda. Il governo che su qualsiasi argomento da giorni si difende spiegandoci che i problemi sono ereditati “dal governo precedente” e che “in tre mesi non si può risolvere tutto” vorrebbe convincerci di essere riuscito a risolvere l’arresto di Messina Denaro prima del problema di accise e bollette. Basta un po’ di logica per cogliere l’inganno. Ma è notevole anche l’orda di editorialisti che hanno il fegato di scrivere che “con il governo Meloni sono cadute le protezioni del boss”. I fatti – mica le opinioni – dimostrano che la latitanza di Matteo Messina Denaro è stata coperta da famiglie politiche appartenenti a una precisa area politica (in primis quella dell’ex senatore berlusconiano D’Alì). Va bene l’entusiasmo ma almeno evitiamo di cancellare la storia.

C’è poi il solito vizio di romanticizzare il boss e di raccontarlo come corpo alieno alla borghesia, alla politica e all’imprenditoria. Anche questo è già accaduto sia per Totò Riina sia per Bernardo Provenzano. Raccontarne i profumi, gli orologi, gli abiti, i profilattici è un errore di spostamento di attenzione. Ciò che ci interessa di Matteo Messina Denaro è capire chi lo ha protetto così a lungo, con chi ha fatto affari, chi ha fatto eleggere, con chi ha riciclato i suoi soldi. Volendo ci sarebbe anche da sapere chi fossero i veri mandanti dell’uccisione di Falcone e di Borsellino. Questi sono i punti. A meno che la romanticizzazione del boss non sia utile a indorare la sua prossima facoltà di non rispondere. Meno letteratura, più pressante richiesta di verità. Sarebbe meglio per tutti.

La latitanza. Ah, la latitanza. Matteo Messina Denaro frequentava il quartiere («usciva, salutava, faceva una vita normale», racconta un vicino di casa), era in cura nella clinica più prestigiosa di Palermo, scattava selfie insieme agli infermieri, scambiava messaggi con le pazienti della clinica per corteggiarle. Questo significa qualcosa in particolare? Troppo presto per arrivare a conclusioni. Un cosa è certa: che certi politici e commentatori vadano su giornali e televisioni a spiegarci che l’impunità e la libertà con cui si muoveva Matteo Messina Denaro lo rendessero ancora più difficile da individuare è una bestemmia illogica che non si può sentire.

Un po’ di serietà, per favore, sull’antimafia.

Buon mercoledì.

Nella foto: Matteo Messina Denaro nel 1993 (identikit della Polizia di Stato)

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