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Andrea Camilleri: «ecco perché voto no»

Novantantun anni, 102 libri, 26 milioni di copie solo in Italia: Andrea Camilleri è lo scrittore più importante che abbiamo. «Vorrei l’ eutanasia, quando sarà il momento. La morte non mi fa paura. Ma dopo non c’ è niente. E niente di me resterà: sarò dimenticato, come sono stati dimenticati scrittori molto più grandi. E quindi mi viene voglia di prendere il viagra, di ringiovanire, pur di vivere ancora qualche anno, e vedere come va a finire. Vedere che presidente sarà Trump: uno tsunami mondiale, un Berlusconi moltiplicato per diecimila. E vedere cosa sarà del mio Paese».

«A guardare l’ Italia ridotta così, mi sento in colpa. Avrei voluto fare di più, impegnarmi di più. Nel Dopoguerra ci siamo combattuti duramente, ma avevamo lo stesso scopo: rimettere in piedi il Paese. Oggi quello spirito è scomparso».

Renzi non è un buon presidente del Consiglio? 

«No. È un giocatore avventato e supponente. Mi fa paura quando racconta balle: ad esempio che il futuro dei nostri figli dipende dal referendum. Mi pare un gigantesco diversivo per realizzare un altro disegno».

Quale? 

«Mi sfugge, ma c’ è».

Al referendum andrà a votare?

«Pur di votare No mi sottoporrò a due visite oculistiche, obbligatorie per entrare nella cabina elettorale accompagnato. Io le riforme le voglio: il Senato deve controllare la Camera, non esserne il doppione. Ma questa riforma è pasticciata. E non ci consente di scegliere i nostri rappresentanti».

Spera nei Cinque Stelle?

«Non mi interessano. Non ci credo. Mi ricordano l’ Uomo Qualunque: Grillo è Guglielmo Giannini con Internet. Nascono dal discredito della politica, ma non hanno retto alla prova dei fatti: Pizzarotti è stato espulso dal movimento; la Raggi non mi pare stia facendo grandi cose».

Se vince il No cosa succede? 

«Entra in campo Mattarella. Che si comporterà bene; perché è un gran galantuomo».

(l’articolo continua qui)

Nel merito. Appello degli avvocati milanesi per il No.

Il prossimo referendum sulla revisione costituzionale riguarda una materia tecnicamente assai complessa, sia per l’eterogeneità e l’ampiezza delle modifiche intervenute, sia per la difficoltà di cogliere tutte le implicazioni che ne potranno derivare.

Come avvocati sentiamo il dovere di esprimerci, mettendo le nostre competenze giuridiche e la nostra concreta esperienza professionale a disposizione dei cittadini per aiutarli a compiere una scelta consapevole.

Innanzitutto occorre osservare che la scelta di adottare una così vasta revisione costituzionale ed una nuova legge elettorale con la sola forza della contingente maggioranza di governo (peraltro artificiosa) costituisce un grave limite genetico perché lascia presagire che, nel prossimo futuro, ad ogni cambio di equilibrio politico potrà corrispondere una nuova modifica della Carta fondamentale ed una nuova legge elettorale su misura dei vincitori. Una simile spirale di riforme e controriforme farebbe venire meno la concezione della materia istituzionale come terreno di valori condivisi, minando le basi della nostra convivenza democratica.

In secondo luogo, balza agli occhi dell’interprete la pessima qualità redazionale dell’intervento di revisione, che introduce nella nostra Carta fondamentale norme farraginose, illeggibili per il cittadino medio, spesso contraddittorie o ambivalenti; insomma, la forma – che in questa materia è anche sostanza – appare lontanissima da quella tipica delle norme costituzionali, che dovrebbero essere il più possibile cristalline, sobrie ed accessibili a chiunque. Lo stile involuto e l’obiettiva oscurità di non poche disposizioni raggiunge livelli tali da legittimare il dubbio che non si tratti (solo) di limiti qualitativi, bensì di un’ambiguità intenzionale per lasciare aperte diverse opzioni applicative ed interpretative a seconda degli equilibri politici che si potranno determinare in futuro.

Il principale elemento che rischia di privare l’opinione pubblica di una piena consapevolezza degli effettivi esiti che la revisione oggetto di referendum produrrà nella vita delle istituzioni è dato dalla interazione tra la modifica costituzionale vera e propria e la legge elettorale per la Camera, detta “Italicum”. Questa, avendo reintrodotto surrettiziamente i medesimi vizi stigmatizzati nella sentenza di incostituzionalità della legge precedente (Porcellum), non solo è, a sua volta illegittima, ma costituisce anche un oltraggio alla Corte Costituzionale inconcepibile in uno stato di diritto.

La revisione costituzionale, eliminando l’elettività del Senato e lasciando alla sola Camera dei Deputati il rapporto di fiducia col governo, consentirebbe all’Italicum di dispiegare per intero il proprio effetto sulle istituzioni, effetto che sarà quello di produrre una sostanziale modificazione della forma di governo del nostro paese.

Infatti, con il ballottaggio tra liste e l’assegnazione di un abnorme premio di maggioranza al vincitore (un unicum a livello mondiale), a prescindere dall’effettiva rappresentatività del corpo elettorale, la legge determinerà di fatto l’elezione diretta del presidente del consiglio, l’illimitata compressione della rappresentanza democratica e la concentrazione nel governo di tutti i poteri: dal controllo sull’assemblea legislativa alla possibilità di eleggere gli organi di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Csm), dal dominio sulla Rai alla nomina delle varie Authority.

Questo determinerebbe la fuoriuscita dal modello di democrazia parlamentare, senza peraltro le garanzie del modello alternativo, quello della repubblica presidenziale, che è caratterizzato da rigorosa separazione dei poteri e forte presenza di pesi e contrappesi.

Un così radicale ed avventuroso cambiamento del nostro assetto istituzionale è stato introdotto in modo larvato e con legge ordinaria, rimanendo perciò formalmente estraneo alla revisione costituzionale oggetto del quesito referendario.

I cittadini, che in questo modo sono privati della possibilità di esprimere il proprio giudizio sulla parte più incisiva del complessivo mutamento costituzionale che si vuole realizzare, devono essere resi consapevoli della reale posta in gioco perché possano riappropriarsi del diritto di deliberare anche su ciò che formalmente non viene loro richiesto.

Peraltro, quale che sia il giudizio sulla legge elettorale, venendo al merito della revisione costituzionale – e prescindendo in questa sede da aspetti secondari (dai presunti risparmi all’abolizione del Cnel), di carattere essenzialmente propagandistico – basterà concentrare l’attenzione sul tema cruciale del procedimento legislativo.

Non è affatto certo che la semplificazione e velocizzazione dell’attività legislativa potrà realizzarsi come i sostenitori della revisione promettono. Infatti, il carattere assai confuso delle competenze e delle modalità di partecipazione del futuro Senato al processo legislativo induce a prevedere piuttosto una complicazione delle procedure ed una moltiplicazione dei conflitti, con conseguenti ricorsi alla Corte Costituzionale. Se poi la maggioranza politica del Senato espresso dai consiglieri regionali dovesse essere diversa da quella della Camera, è logico aspettarsi un sistematico richiamo di tutte le leggi approvate dalla Camera, con conseguente generalizzazione della “navetta” tra i due rami del parlamento, che oggi è un fenomeno limitato a circa il 3 % delle leggi che vengono varate.

Ma poniamo, per ipotesi, che la semplificazione promessa venga realizzata. In tal caso sarebbe necessario chiedersi se, al di là delle facili suggestioni propagandistiche diffuse dalle forze di governo e da alcune rappresentanze dell’establishment economico, questo corrisponda veramente all’interesse dei cittadini o non costituisca piuttosto il classico bisogno indotto.

Nella realtà, nonostante il bicameralismo perfetto, l’Italia ha già oggi tempi di approvazione delle leggi che sono inferiori alla media degli altri stati democratici ed ha prodotto nei decenni una quantità di nuove leggi tale da rasentare un record mondiale. Il numero delle leggi in vigore nel nostro paese è da tempo sfuggito al controllo (40.000, 100.000, 150.000 ?) e questo ha creato incertezza del diritto, milioni di processi pendenti e condizioni favorevoli alla proliferazione della corruzione.

Il che è quanto dire che non abbiamo un problema di lentezza nell’attività legislativa, ma al contrario abbiamo una iper-produzione legislativa che, oltretutto, si accompagna al progressivo ed allarmante scadimento della qualità delle nuove norme che vengono approvate, e che sempre più spesso sono di iniziativa governativa e non parlamentare.

In questa situazione la prospettiva di un parlamento subalterno all’esecutivo – che oltre a detenere la maggioranza garantita dal premio ne potrà determinare anche l’agenda – costituito in prevalenza di nominati, e ridotto a sfornare a getto continuo nuove leggi a data certa, senza i tempi necessari per i dovuti approfondimenti e per la discussione, dovrebbe suscitare viva inquietudine in qualunque persona minimamente informata.

Peraltro, la (ancora) minore ponderazione delle leggi e lo slittamento verso una forma di “democrazia immediata” comportano rischi non solo sul piano qualitativo, ma anche di sistema.

Infatti, determinando una più diretta esposizione sia alle ondate emotive dell’opinione pubblica, sia alla pressione dei media spesso pilotata dai poteri forti (“lo vogliono i mercati”; “lo vuole l’Europa” …), possono dare luogo facilmente a misure penali squilibrate – ora di disumana severità, ora di esagerato lassismo – e ad improvvisate leggi civili del caso singolo. Insomma, l’esatto contrario di quella normazione fatta di poche leggi, tecnicamente accurate, organiche e stabili nel tempo di cui avrebbe davvero bisogno l’Italia per essere più moderna e competitiva.

Anche la radicale modificazione del sistema delle autonomie e del rapporto Stato – Regioni non è condivisibile perché, allontanandosi bruscamente dal disegno dei Costituenti che era quello di assegnare alle Regioni un potere di riforma delle stesse leggi dello Stato nelle materie ad esse attribuite dall’art. 117 Cost., determina uno svuotamento di questa autonomia e un ritorno di quasi tutte le competenze al potere centrale.

La revisione costituzionale porta così a compimento la sconfitta dell’autonomia regionale, trasformando progressivamente le Regioni in enti non più prevalentemente legislativi e di tutela delle autonomie locali, ma in enti di spesa; tutto ovviamente con la complicità di un ceto politico locale più attento alla clientela che alla difesa della funzione costituzionale attribuita alla Regione.

Questo ritorno al potere invasivo dello Stato centrale, sia politico che burocratico, avviene senza alcun risparmio di spesa, anzi al contrario, e con il mantenimento di un ceto politico regionale (Consigli e Giunte Regionali) titolare soltanto di potere clientelare, in senso lato, ossia di gestione di grandi flussi di denaro in funzione di vantaggio politico.

Per tutte queste ragioni, noi riteniamo che siano di gran lunga prevalenti nella revisione costituzionale gli aspetti negativi. Inoltre riteniamo che nel bilanciamento che siamo chiamati a fare, dovendo approvare o bocciare in blocco una modifica costituzionale variegata, occorra sempre far prevalere un principio di precauzione, ricordando che le Costituzioni sono quelle regole che i popoli si danno quando sono sobri per quando saranno ubriachi.

 

Per questo, il nostro consiglio è quello di votare NO.

 

Avv. Luciano Belli Paci

Avv. Felice Besostri

Prof. Avv. Maria Agostina Cabiddu

Avv. Marco Dal Toso

Avv. Claudio Tani

Avv. Velia Addonizio

Avv. Paolo Agnoletto

Avv. Alberto Amariti

Avv. Bruno Amato

Avv. Maria Anghelone

Prof. Avv. Vittorio Angiolini

Avv. Dario Ardizzone

Associazione Giuristi Democratici di Milano

Avv. Elisabetta Balduini

Avv. Enrico Barbagiovanni

Avv. Vincenzo Barone

Avv. Alessandro Bastianello

Avv. Aldo Bissi

Avv. Francesco Bochicchio

Avv. Marco Bove

Avv. Aldo Bozzi

Avv. Alessandro Brambilla Pisoni

Avv. Franz Brunacci

Avv. Riccardo Camano

Avv. Maura Carta

Avv. Alfonso Celeste

Avv. Mario Cerutti

Avv. Angela Chimienti

Avv. Dario Ciarletta

Avv. Riccardo Conte

Avv. Gianluca Corrado

Avv. Candida De Bernardinis

Prof. Avv. Francesco Denozza

Avv. Gianalberico De Vecchi

Avv. Gino Di Maro

Avv. Mario Di Martino

Avv. Carmen Di Salvo

Avv. Enrica Domeneghetti

Avv. Rolando Dubini

Avv. Maria Cristina Faranda

Avv. Tecla Faranda

Avv. Paolo Gallo

Avv. Federico Garufi

Prof. Avv. Gustavo Ghidini

Avv. Mario Giambelli

Avv. Sabrina Giancola

Avv. Angelo Iannaccone

Avv. Massimiliano Lieto

Avv. Giovanni Marcucci

Avv. Floriana Maris

Avv. Gianluca Maris

Avv. Guido Mastelotto

Avv. Mirko Mazzali

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Avv. Simona Merisi

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Avv. Cristina Mordiglia

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Avv. Stefano Paltrinieri

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Avv. Walter Pirracchio

Avv. Filippo Pistone

Avv. Giampaolo Pucci

Avv. Piera Pujatti

Avv. Francesco Rampone

Avv. Vitantonio Ripoli

Avv. Domenico Roccisano

Avv. Ilaria Rozzi

Avv. Elisabetta Rubini

Avv. Giovanni Saccaro

Avv. Danilo Scarlino

Avv. Andrea Siface

Avv. Salvatore Smaldone

Avv. Ernesto Tangari

Avv. Giulio Taticchi Mataloni

Avv. Armando Tempesta

Avv. Cristiana Totis

Avv. Fabio Vaccarezza

Avv. Giuseppe Vella

Avv. Eric Zanotelli

Avv. Paola Zanotti

Avv. Massimo Zarbin

 

Aggiornato 8.11.2016

Inviare nuove adesioni a avv.bellipaci@studiobellipaci.it

Nel merito. Quel (brutto) articolo 70.

(Davvero l’articolo 70 non si poteva riscrivere meglio? Se lo chiede Leonardo nel suo blog. E prova a spiegare perché:)

Questa riforma è brutta. Mi sono accorto di averlo scritto spesso, richiesto o no, quando mi capitava di assistere a una conversazione sulla riforma: non dannosa, non inutile, non pericolosa: brutta. Come se fosse più grave, e magari non lo è.

Ma cosa significa “brutto”, se si sta parlando di leggi? Forse cerco solo di spostare la discussione in un campo più congeniale, perché di leggi non mi intendo (di bruttezza invece sì?) Se dico che una ripartizione dei seggi mi sembra iniqua, sto giocando a fare il costituzionalista e non lo sono. Se dico che è brutta, beh, de gustibus. Ma in cosa consiste, per me, la bruttezza di una legge?

Sto per introdurre – qualcuno l’avrà già sospettato – il famigerato articolo 70: quello che nella stesura originale recitava semplicemente: La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere, e adesso dice così:

La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.

(In realtà questo è solo il primo comma; ce ne sono altri sei, meno brutti: ma la visione d’insieme è, come dire, notevole).

In questi lunghi mesi di campagna l’articolo 70 comma 1 è stato spesso sbeffeggiato con quel genere di foga bullistica che in me ottiene sempre l’esatto contrario: mi fa venir voglia di intervenire in favore dello sgorbio. Lasciatelo stare, poverino, mica è colpa sua se l’hanno scritto così. C’è anche chi ha provato a difenderlo: per essere brutto è brutto, nessuno lo nega, ma c’è un motivo per cui non si poteva concepirlo meglio. Lo dice gente esperta di legge, e io non lo sono, per cui potrei fidarmi.

Ma non ci riesco. A me sembra davvero scritto brutto apposta. Guardate quel “soltanto” alla seconda riga. L’estensore ha appena iniziato un elenco di situazioni in cui le due Camere eserciteranno insieme la funzione legislativa. Si capisce che gli preme far notare che la cosa non succederà spesso, e quindi usa l’avverbio “soltanto”. Seguono dodici righe di eccezioni. Evidentemente qualcosa non è andata per il verso giusto, ma a quel punto almeno si poteva togliere “soltanto”. Non c’era nessun motivo di lasciarlo lì.

Da grafomane conosco bene la situazione. A volte mi metto a scrivere un’eccezione, poi ne trovo altre ventinove, nel frattempo si è fatto tardi e a volte nemmeno rileggo perché mi addormenterei. Quando mi capita di ridare un’occhiata mi faccio schifo, ma c’è da dire che tengo un blog: se mi capitasse di riscrivere la legge fondamentale della mia Repubblica, userei qualche attenzione in più. La farei rileggere ai miei amici, e colleghi, dieci volte, cento volte. Il tempo non dovrebbe essere il problema: non credo proprio che avrei qualcosa di più importante da fare nel frattempo.

Ecco, forse ho trovato la risposta. Cos’è il brutto per me? È qualcosa che non è semplicemente sgraziato, ma lo è volutamente, pervicacemente, come per attirare l’attenzione: non un difetto di natura, ma il difetto di natura messo in scena con fuori la fila per pagare il biglietto. Un articolo di legge può essere difficile da leggere; a volte è inevitabile che sia così. Ma questa volta era davvero così inevitabile?

Art. 70
Le due Camere esercitano insieme la funzione legislativa nei seguenti casi:
(a) eventuali leggi costituzionali o di revisione costituzionale;
(b) leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di tutela delle minoranze linguistiche;
(c) referendum popolari e altre forme di consultazione previste dall’art. 71;
(d) leggi relative ai Comuni e alle Città metropolitane (ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo, funzioni fondamentali, disposizioni di principio sulle forme associative);
(e) leggi relative alle politiche comunitarie dell’Unione Europea (norme generali, forme e termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche comunitarie);
(f) casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma;
le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, si possono abrogare, modificare o derogare solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.

Ecco qui. L’ho riscritto. Ci ho rimesso dieci minuti. È ancora brutto, ma almeno si intravede una sagoma, un senso. E ho tolto quel “soltanto”, che sembra una presa in giro. Adesso non è più un brutto da circo; è un brutto noioso, è un bruttino che si impegna, che cerca di vestirsi bene ed essere simpatico a tutti, nella speranza che dopo un po’ qualcuno si dimentichi che, in effetti, è pur sempre brutto.

È quel brutto che alla Boschi e a Renzi non interessa. Mi sembra che la loro filosofia, opposta alla mia, si possa sintetizzare così: se devi fare schifo, almeno fa’ schifo alla grande. Fallo con arroganza, fallo che si veda da lontano. Fa’ in modo che tutti sappiano non solo che fai schifo, ma anche che te lo puoi permettere. Guarda quanto siamo arrivati lontano, senza nemmeno sapere scrivere in italiano. E credi che impareremo adesso? No way, siete voi plebe che dovrete sforzarvi di capirci. Ora vi vandalizziamo la carta costituzionale e poi ve la facciamo votare col ricatto dello spread. Potremmo fare meglio di così? Certo. Non sarebbe neanche così difficile. Ma non sarebbe divertente, non saremmo noi.

Il comma 1 dell’articolo 70 sarebbe discutibile anche se a riscriverlo avessero resuscitato Italo Calvino. Potrebbe essere considerato il simbolo di una riforma che era partita per semplificare e si è complicata da sola strada facendo. Il fatto che sembri invece messo giù da uno stagista in affanno non è accidentale. Forse è inevitabile – la Fretta è un po’ la grande ispiratrice di gran parte dell’azione di governo renziana. La traccia che la mia generazione lascerà sulla carta costituzionale sarà uno sbrago fatto in fretta e furia perché sennò l’Unione Europea, i mercati, Napolitano, le cavallette. E se non ci sbrighiamo poi non si potrà mai più far niente. Perché? Non si sa. I grillini, i fascisti, il riscaldamento globale, insomma o si cambia la costituzione in mezz’ora o non si cambia più. L’abbiamo riscritta male? Beh sì, ma prendere o lasciare.

Secondo me si poteva scrivere meglio, e quindi voto no.

È da un po’ di tempo che Pisapia è un bluff

Giuliano Pisapia, dopo mesi alla ricerca dell’ombra per non doversi schierare o comunque per schierarsi poco, oggi rilasci un’intervista a Repubblica in cui dichiara che non voterà no. Dice l’ex sindaco di Milano:
«Nessuna apocalisse sia che vinca il No, sia che vinca il Sì. E mi sembra che siano ormai ben pochi quelli che paventano tale rischio. Io però non credo che, in caso di vittoria del No, avremmo un anno di tregua nel quale sarà possibile lavorare per riorganizzare il paese; vedo invece un Parlamento ancora più diviso, paralizzato e un periodo di instabilità politica che non farebbe bene al paese».
Repubblica non perde l’occasione e titola tutto maiuscolo: Lo strappo di Pisapia: “Referendum, con il ‘No’ Italia instabile”
Ora, al di là del titolo sparato su una scelta bisbigliata, forse sarebbe anche arrivato il tempo di prendere atto di un fatto politico ormai assodato: Pisapia (ma mi prendo il rischio di aggiungerci Zedda che si accoderà nei prossimi giorni) ha “strappato” (tanto per citare Repubblica) fin da quando ha aperto le porte alla svolta di un PD intento a mettere in atto politiche non più di sinistra. Pisapia ha “strappato” quando di intruppato per rendere potabile Beppe Sala come suo successore; Pisapia ha “strappato” quando non ha voluto esporsi per il referendum sulle trivelle; Pisapia ha strappa to ogni volta che s’è tenuto in gola un giudizio su Jons Act e Buona Scuola.
C’è stata un’epoca qui da noi in cui qualcuno è riuscito ad attivare antenne a sinistra che sembravano spente per poi infilarci i sempreverdi moderati tendenti a destra. Basterebbe chiedere agli amici di Sinistra Italiana e di SEL oppure ai cittadini milanesi che non sono tornati a votare. Se ne sono accorti quasi tutti. Tranne Repubblica.

(scritto per i Quaderni di Possibile qui)

Mafia, operazione “Reset 2”: chiesti 150 anni di condanne per i gestori del pizzo a Bagheria

Quasi un secolo e mezzo di carcere è stato chiesto per 17 imputati, accusati a vario titolo di associazione mafiosa, estorsioni, favoreggiamento. Si tratta degli arrestati nel corso dell’operazione “Reset 2”, condotta dai carabinieri a Bagheria nel 2015.

Le pene più pesanti sono state chieste per Pietro Liga e Giacinto Di Salvo per cui il pm Francesca Mazzocco ha chiesto venti anni. Chiesti anche 6 anni per Andrea Fortunato Carbone e Francesco Centineo, 7 per Nicolò Eucaliptus, 6 per Silvestre Girgenti e Umberto Gagliardo, 4 per Salvatore Lauricella, 12 per Francesco Lombardo, 6 per Francesco Mineo, 8 per Gioacchino Mineo, 6 per Onofrio Morreale, 12 per Giuseppe Scaduto, 6 per Giovanni Trapani, Gioacchino Tutino, Paolo Liga e Giovanni Mezzatesta. Nel processo si sono costituiti parte civile i Comuni di Bagheria, Altavilla Milicia, Ficarazzi, Santa Flavia, il centro studi Pio La Torre, Confindustria di Palermo, Addiopizzo, Confcommercio e Confesercenti, assistiti – tra gli altri – da Francesco Cutraro e Ettore Barcellona.

Mafia, gestivano il pizzo a Bagheria: chieste condanne per 17 boss e gregari
„Con l’operazione “Reset 2” gli inquirenti avevano evidenziato la “soffocante pressione estorsiva esercitata dai boss che, dal 2003 al 2013, si sono succeduti ai vertici del clan”. Una cinquantina le estorsioni documentate grazie alla dettagliata ricostruzione fornita da 36 imprenditori locali che hanno trovato il coraggio, dopo decenni di silenzio, di ribellarsi al giogo del “pizzo”.

(LE INTERCETTAZIONI: VIDEO).

(fonte)

 

Sempre lui, il ladro di libri: Dell’Utri rinviato a giudizio per il saccheggio della Biblioteca Girolamini

Ne scrive Simona Maggiorelli per Left:

Dopo la condanna definitiva dell’ex direttore Massimo M. De Caro e dei suoi complici per il saccheggio della Biblioteca Girolamini, il 14 febbraio Marcello Dell’Utri dovrà presentarsi in aula. Secondo l’accusa, l’ex senatore di Forza Italia sapeva da dove provenivano i libri che De Caro gli consegnava e con lui si sarebbe accordato su quali volumi trafugare.L’inchiesta è nata come filone secondario del filone principale, che ha portato in carcere l’ex direttore della Biblioteca di Vico, da cui sono stati rubati migliaia di libri antichi e preziosi. Una parte del bottino è stato nel frattempo ritrovato, ma molti volumi risultano danneggiati, sono state strappate le etichette e tutto ciò che poteva rendere chiara la provenienza dei volumi. Inoltre sono stati distrutti i registri e i cartelli che avrebbero permesso di ricostruire la originaria collocazione dei libri. Dopo l’assalto alla biblioteca operato da chi aveva l’incarico di dirigerla e preservarlapurtroppo l’antica biblioteca napoletana non potrà mai tornare come era. Anche perché all’appello mancano libri preziosi come l’edizione dell’Utopia di Tommaso Moro che fu consegnata a Dell’Utri. Introvabili, fin qui, anche preziose rilegature quattrocentesche. Questo filone dell’inchiesta in cui è coinvolto anche Dell’Utri è partito analizzando le caratteristiche della biblioteca dei Girolamini, di particolare interesse per gli studiosi vichiani, e intercettando alcune conversazioni telefoniche che hanno chiarito la rete di rapporti fra Dell’Utri e De Caro, del quale che l’ex senatore aveva sostenuto la carriera, prima al ministero all’Agricoltura e poi ai Beni culturali, all’epoca in cui era ministro Ornaghi. Dell’Utri, che si trova nel carcere di Rebibbia in attesa che il Tribunale di Sorveglianza valuti la compatibilità del suo stato di salute con il regime carcerario, non è stato ancora interrogato. In passato ha sempre sostenuto di ignorare la provenienza dei volumi ricevuti da De Caro perché non vi erano segni distintivi della biblioteca e a ottobre 2012 presentò agli inquirenti una memoria con l’elenco di tutti i libri antichi avuti dall’ex direttore dei Girolamini consentendo il sequestro in via Senato di volumi antichi. Secondo i pm «non è ipotizzabile che il senatore, esperto collezionista di libri antichi, abbia potuto non avere contezza della provenienza dei preziosi volumi a lui consegnati da De Caro».

L’articolo continua qui. Se invece volete acquistare il nostro libro proprio su Marcello, L’amico degli eroi, vi basta andare qui.

Mafia, operazione Monte Reale: i fatti e i nomi

(gran pezzo di Monrealepress, dedicato a chi all’informazione locale con la schiena dritta)

Durante la notte i Carabinieri del Gruppo di Monreale hanno dato esecuzione ad una ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Palermo Guglielmo Ferdinando Nicastro, su richiesta della Procura distrettuale diretta da Francesco Lo Voi, nell’ambito di un’indagine coordinata dal Procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dai sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise e Siro Deflammineis, che ha riguardato 16 persone ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, lesioni gravi, estorsione, illecita detenzione di armi, detenzione di sostanze stupefacenti, tutti delitti aggravati per essere stati commessi al fine di agevolare l’attività di Cosa Nostra.

L’operazione costituisce il compendio delle indagini condotte dal Nucleo Investigativo di Monreale relative al mandamento mafioso di San Giuseppe Jato all’esito delle quali, già lo scorso 16 marzo 2016 a conclusione dell’operazione denominata “QUATTRO.ZERO” – erano stati tratti in arresto numerosi esponenti apicali del sodalizio.

Nell’ambito di tale contesto di indagine, sviluppatosi sino alla fine del 2014, era emerso che nella zona di San Giuseppe Jato la fazione di Gregorio Agrigento, coadiuvato nella gestione del sodalizio mafioso, tra gli altri, da Ignazio Bruno e Antonino Alamia, si era imposta, anche con il ricorso alla forza, dopo un preoccupante periodo di fibrillazione e contrapposizione, sul gruppo costituito da Giovanni Do Lorenzo ed altri affiliati, anch’essi tratti in arresto con il medesimo provvedimento restrittivo. E’ stata anche documentata la riorganizzazione della famiglia mafiosa di Monreale, al cui vertice era stato designato Giovan Battista Ciulla, attivamente coadiuvato da Onofrio Buzzetta, Nicola Rinicello e Giuseppe Giorlando.

Le indagini svolte, a partire dalla fine del 2014 e nei primi mesi del 2015, hanno registrato in presa diretta l’evoluzione delle dinamiche interne dell’organizzazione mafiosa di San Giuseppe Jato e della famiglia di Monreale, con particolare riferimento alle successioni al vertice del mandamento e della dipendente articolazione mafiosa. E’ emerso, infatti, che, in considerazione dell’aggravarsi delle condizioni di salute dell’anziano boss Gregorio Agrigento, più volte ricoverato nei mesi di ottobre e novembre 2014, Ignazio Bruno ha ricoperto la reggenza del mandamento di San Giuseppe Jato, assumendo decisioni importanti sia nella ridefinizione dell’organigramma interno delle varie famiglie mafiose che lo compongono, in particolare quella di Monreale – che continuava a vivere un periodo di fibrillazione interna – sia accreditandosi e partecipando ad incontri e riunioni con esponenti apicali di altre articolazioni territoriali di cosa nostra, segnatamente del mandamento mafioso di Corleone.

Il mutamento di leadership della famiglia di San Giuseppe Jato da Agrigento a Bruno si è reso necessario per garantire la continuità nella gestione del mandamento, che risulta avere grande importanza strategica, in quanto di fatto controlla il cuore di un’importante zona economica della Sicilia occidentale.

LA FAMIGLIA MAFIOSA DI MONREALE
A seguito dell’operazione “NUOVO MANDAMENTO” conclusa nell’aprile 2013, si era venuto a determinare un vuoto nel panorama mafioso monrealese a causa dell’arresto del capo famiglia Vincenzo Madonia e di numerosi altri associati. Tale spazio di manovra veniva colmato con la decisione del nuovo vertice del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, nel frattempo ricostituitosi, di individuare il reggente della famiglia di Monreale in Giovan Battista Ciulla (poi arrestato il 16 marzo con l’operazione “QUATTRO.ZERO”).

Nel periodo compreso tra gli ultimi mesi del 2014 ed gli inizi del 2015 in seno alla famiglia mafiosa di Monreale venivano registrate fibrillazioni a causa dell’intenzione di Giovan Battista Ciulla e Onofrio Buzzetta di tessere nuove alleanze e di modificare in parte anche le strategie operative della locale famiglia mafiosa. Questa fibrillazione veniva ulteriormente amplificata dalla scarcerazione di Benedetto Isidoro Buongusto, avvenuta il 5 novembre 2014, dopo aver espiato la condanna ad 8 anni di reclusione per associazione di tipo mafioso.

Le indagini permettevano di disvelare le nuove strategie operative perseguite da Giovan Battista Ciulla e Onofrio Buzzetta, prevalentemente finalizzate a ricercare l’appoggio di Benedetto Buongusto e di altri due soggetti a lui vicini. La nascita di questa nuova alleanza, ha aggravato i risentimenti già nutriti dai vertici del mandamento di San Giuseppe Jato nei confronti del Ciulla, sempre più inviso per la cattiva gestione degli affari della famiglia di Monreale, nonché per aver sottratto parte dei ricavi derivanti dalla gestione degli stessi.

In particolare, le indagini hanno permesso di scoprire con precisione i reali motivi delle perduranti tensioni nella: gestione dei proventi di attività illecite perpetrate nel territorio di competenza, per i quali si imputava a Ciulla di avere trattenuto delle somme che sarebbero dovute confluire nella cassa del mandamento, detenuta da Antonino Alamia; mancata presentazione ad appuntamenti fissati per discutere della sua gestione della famiglia mafiosa; relazione extraconiugale con la moglie di un soggetto, all’epoca dei fatti detenuto, in violazione del codice d’onore che disciplina in maniera ferrea la vita di Cosa nostra.

Proprio sulla scorta di tali accuse si delineavano i contorni di un progetto omicidiario, avallato dai vertici del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, in danno di Giovan Battista Ciulla, Onofrio Buzzetta e Antonino Serio. “I propositi criminali – spiegano dal Comando – non avevano concreta attuazione solo perché il capo famiglia di Monreale, Giovan Battista Ciulla, si allontanò dalla Sicilia l’8 febbraio 2015 e trovando rifugio in un lontano comune della provincia di Udine”.

Con la fuga di Giovan Battista Ciulla nasceva, in capo ai vertici del mandamento jatino, l’esigenza di individuare un nuovo responsabile che si occupasse della gestione della famiglia mafiosa di Monreale. Su segnalazione dei componenti della famiglia Lupo, Domenico (imprenditore edile) ed il figlio Salvatore, veniva individuato Francesco Balsano, nipote del già capo famiglia Giuseppe Balsano, catturato latitante nel 2002 e morto suicida in carcere.

L’investitura di Balsano nasceva dall’esigenza di evitare la diretta esposizione degli appartenenti alla famiglia Lupo e, in particolare, di Salvatore Lupo, per il quale nel recente passato era già stato documentato il legame alla famiglia di Monreale, insieme a Giovan Battista Ciulla e a Onofrio Buzzetta. La formale attribuzione del mandato a Francesco Balsano avveniva nell’ambito di una riunione di mafia, tenutasi nel pomeriggio del 25 febbraio 2015, presso un capannone in agro di Monreale, di proprietà di Domenico Lupo, alla quale partecipavano, quali esponenti del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, Girolamo Spina (nipote ed autista di Gregorio Agrigento), Vincenzo Simonetti e Ignazio Bruno, mentre per la famiglia mafiosa di Monreale, Salvatore Lupo e Francesco Balsano.

Nel corso dell’incontro, oltre alla citata nomina, si stabiliva che il principale interlocutore di Balsano in seno al mandamento avrebbe dovuto essere Antonino Alamia e, soprattutto, veniva sancito di esautorare e punire i componenti del gruppo legato a Giovan Battista Ciulla. Da qui scaturirono una serie di episodi di intimidazione, aggressioni e minacce, il più eclatante dei quali risultava essere sicuramente, il 28 febbraio 2015, il grave atto intimidatorio ai danni di Buongusto, il quale denunciava di aver rinvenuto, davanti la porta della propria abitazione, una testa di capretto su cui era stata conficcata una pallottola da caccia, con annesso un biglietto recante testualmente la scritta: “Da questo momento non uscire più di dentro perchè non sei autorizzato a niente”.

A tale messaggio dal chiaro contenuto mafioso, Salvatore Lupo e Francesco Balsano, con l’aiuto di Sergio Denaro Di Liberto (il picchiatore “prestato” dai vertici di San Giuseppe Jato) facevano seguire, la sera del 3 marzo 2015, una missione punitiva ai danni di Benedetto Isidoro Buongusto, il quale veniva rintracciato per le vie di Monreale e pestato violentemente con tubi in ferro, riportando diversi traumi e la frattura di una costola e venendo sottoposto d’urgenza ad intervento chirurgico per toracotomia. Ancora, il 6 marzo 2015 Onofrio Buzzetta, braccio destro di Ciulla, venne minacciato nella propria autovettura da Francesco Balsano, il quale gli puntò una pistola in bocca, pronunciando le seguenti parole “Sono autorizzato ad ammazzarti pure ora”.

Onofrio Buzzetta, temendo per la propria vita in relazione al progetto omicidiario di cui si è detto, chiedeva, per il tramite di un amico, un incontro con Rosario Lo Bue, capo mandamento di Corleone, unica persona in grado di intervenire in maniera determinante nei confronti dei vertici del mandamento di San Giuseppe Jato. Per questo motivo il 7 marzo 2015 si recava a Corleone, riuscendo ad ottenere la protezione.

Minacce erano state indirizzate anche a Nicola Rinicella da Balsano, il quale in un duro confronto precisava all’interlocutore “Ti è finita bene perchè dall’altra parte mi avevano detto di spaccarti le gambe”. Nel frattempo, l’intervento dei Carabinieri di Monreale faceva venir meno la reggenza della famiglia mafiosa di Monreale da parte di Francesco Balsano – incarico di fatto ricoperto per 10 giorni, dal 25 febbraio 2015 al 6 marzo 2015 – procedendo al suo arresto per detenzione illegale di una pistola automatica cal. 7,65 e relativo munizionamento, rinvenuta nel corso della perquisizione presso la sua abitazione.

Nel periodo successivo alle richiamate minacce ed azioni violente, fu registrata un’apparente posizione defilata del gruppo legato a Ciulla, a vantaggio della fazione emergente, che aveva ormai assunto il controllo della famiglia mafiosa, sotto la reggenza di Salvatore Lupo, appoggiato dai vertici del mandamento di San Giuseppe Jato. All’inizio del 2016, però, venivano intercettate alcune conversazioni nel corso delle quali Salvatore Lupo ed il capo decina Giovanni Pupella (incaricato della gestione dello spaccio nella piazza di Monreale) facevano riferimento ad una riorganizzazione del gruppo mafioso capeggiato da Benedetto Isidoro Buongusto, che aveva l’obiettivo finale di spodestare a qualsiasi costo i Lupo e di riprendere il controllo della famiglia.

Pupella, preoccupato da tale eventualità, consiglò a Salvatore Lupo di agire per tempo e soprattutto di intervenire mettendo in atto, all’occorrenza, anche atti violenti “TOTO’ LORO DEVONO BUSCARLE, TOTÒ, E BASTA, TOTÒ, A LORO NON DOBBIAMO… NON DOBBIAMO FARE CAPIRE NULLA, O FRATE, NOIALTRI… LORO DEVONO BUSCARLE… LORO DEVONO RIMANERE A PIEDI…”. In quella circostanza, Salvatore Lupo ribatteva che avrebbe immediatamente richiesto al vertice del mandamento di San Giuseppe Jato l’autorizzazione ad agire contro i rappresentanti del gruppo capeggiato da Benedetto Isidoro Buongusto, nel rispetto delle ferree regole gerarchiche di Cosa nostra.

Le parole di Salvatore Lupo non lasciavano dubbi sul fatto che un’eventuale azione da parte del gruppo retto da Benedetto Isidoro Buongusto, peraltro in cerca di vendetta per il violento pestaggio subito, potesse scatenare una vera e propria violenta faida tra le due fazioni antagoniste, tenuto conto della disponibilità del gruppo retto da Lupo di armi da fuoco, come accertato nel corso dell’indagine. Proprio con riferimento alla disponibilità di armi da fuoco da parte della famiglia mafiosa di Monreale, è importante sottolineare quanto già delineato in precedenza sulle acquisizioni investigative che hanno portato all’arresto di Francesco Balsano, avvenuto il 6 marzo 2015 per detenzione abusiva di una pistola clandestina del relativo munizionamento.

“In merito ai canali di approvvigionamento di armi – aggiungono dal Comando – è utile richiamare anche l’arresto di Umberto La Barbera, ritenuto vicino alla famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, al quale, il 28 dicembre 2015, nel corso di una perquisizione domiciliare, veniva rinvenuta sostanza stupefacente e 47 cartucce cal. 22 corto”. Lo stesso, poco meno di un mese dopo l’arresto, esattamente il 26 gennaio 2016, veniva denunciato in stato di libertà dal Comando Stazione Carabinieri di San Giuseppe Jato, a seguito del rinvenimento in un appartamento nella sua disponibilità, di un fucile cal. 12 con matricola alterata e diverse munizioni del medesimo calibro.

La disponibilità da parte del sodalizio mafioso di armi da fuoco ha ricevuto ulteriore conferma il 21 marzo 2016, quando in sede di perquisizione vennero rinvenute e sottoposte a sequestro una pistola cal. 9 con matricola abrasa e canna modificata e 122 cartucce di vario calibro, riconducibili a Domenico Lo Biondo, tratto in arresto nell’ambito dell’operazione del 16 marzo scorso “QUATTRO.ZERO”.

Infine, non di minor rilievo è l’arresto in flagranza di reato eseguito dai Carabinieri di Monreale il 29 marzo 2016 a carico di Pietro Lo Presti, appartenente alla famiglia mafiosa di Monreale, dopo il ritrovamento di una pistola marca “Valtro”, con matricola abrasa, modificata per permettere l’utilizzo di munizioni calibro 7,65 browning, nonché di 53 cartucce del medesimo tipo.

Gli approfondimenti investigativi condotti hanno anche consentito di evidenziare una serie di reati fine del programma criminoso della compagine mafiosa, tra cui particolare importanza rivestono certamente le quattro vicende estorsive ai danni di imprenditori del settore edile e di commercianti, ricostruite in modo compiuto nel corso dell’indagine.

Altrettanto rilevanti sono le attività investigative che hanno consentito di comprovare il reimpiego di parte dei proventi delle attività illecite nello spaccio di sostanze stupefacenti e nella realizzazione di una vasta piantagione di marijuana nelle campagne di Piana degli Albanesi. In tale quadro si innesta l’arresto di Michele Mondino e Gaetano Di Gregorio, eseguito dai Carabinieri di Monreale il 3 agosto 2015, con il recupero di 900 piante di cannabis sativa. Le successive analisi hanno evidenziato che dalle piante sequestrate sarebbe stato possibile ottenere circa 150 chuli netti di sostanza, per un totale di oltre 55 mila dosi singole, che – immesse nel mercato – avrebbero potuto garantire un guadagno di quasi un milione di euro.

GUARDA IL VIDEO DELLE INTERCETTAZIONI

I NOMI DEGLI ARRESTATI
Antonino Alamia, 52 anni nato a San Giuseppe Jato, attualmente detenuto;
Sergio Denaro Di Liberto, 42 anni nato a San Giuseppe Jato, già detenuto;
Ignazio Bruno, 43 anni di San Giuseppe Jato, detenuto;
Giovan Battista Ciulla, 35 anni, di Monreale, nato a Palermo e attualmente detenuto;
Onofrio Buzzetta, 42 anni di Palermo, già in carcere;
Vincenzo Simonetti, 56 anni, nato a Palermo;
Domenico Lupo, 57 anni, di Monreale;
Salvatore Lupo, 28 anni, di Monreale;
Giovanni Pupella, 26 anni, di Monreale;
Benedetto Isidoro Buongusto, 66 anni di Monreale;
Antonino Serio, 62 anni, di Palermo;
Pietro Lo Presti, di Monreale di 32 anni;
Alberto Bruscia, 38 anni, nato ad Aqui Terme, residente a Monreale;
Francesco Balsano, 40 anni di Monreale;
Salvatore Billetta, 47 anni, di Monreale;
Giovanni Matranga, 54 anni di Piana degli Albanesi.

Twitter, il fango, le offese, De Luca e il mondo reale

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Quindi oggi è stata la giornata dell’indagine contro il “sistema d’odio” del Movimento 5 Stelle su twitter (e invece l’indagine non c’è) e poi del solito De Luca che si conferma uomo di bassissimo spessore. Se avete tempo e voglia ne ho scritto qui (sulla presunta Spectre grillina) e qui su De Luca. Ma adesso che è sera vorrei spendere un minuto per parlare d’altro.

Viaggio da mesi per la campagna referendaria in vista del prossimo 4 dicembre. Lo faccio da convinto sostenitore del No (ah, qui trovate i miei appuntamenti) e come tutti mi ritrovo a scriverne qui sul blog e sui miei social. Mentre tra twitter e Facebook (ma anche su certa cattiva informazione) si infiamma la propaganda più violenta (e mendace) durante i miei dibattiti con sostenitori del sì (sarò stato fortunato io, probabilmente) mi son sempre ritrovato a discutere della riforma, delle modifiche articolo per articolo e delle diverse visioni politiche. Tutto molto tranquillamente. Tutto molto serenamente. E anche quando le distanze sono incolmabili il clima è comunque di ragionevolezza.

Ecco, ci tenevo a dirlo. Perché a viverla, questa campagna referendaria, sembra che tutti gli imbecilli poi non esistano nella vita reale. Chissà perché.

La Milano che lavora: un imputato per mafia su quattro (98 negliultimi 15 anni) è un imprenditore

Nei processi per mafia a Milano un imputato su quattro è un imprenditore. Nella metà dei casi, opera nell’edilizia, seguita da ristorazione e gestione di locali notturni. E fra le organizzazioni criminali, a farla da padrone – dato tutt’altro che sorprendente – è la ‘ndrangheta. E’ il risultato di uno studio realizzato all’Università Bocconi da un gruppo di ricercatori guidato dal professor Alberto Alessandri, docente di diritto penale dell’ateneo milanese. Il gruppo ha preso in esame tutti i 105 fascicoli avviati tra il gennaio 2000 e il dicembre 2015 dalla Procura della Repubblica di Milano per il reato di associazione di tipo mafioso (416 bis), con attenzione ai casi in cui è stata contestata questo tipo di aggravante.

Negli ultimi sedici anni – spiega la ricerca  sostenuta dalla Camera di commercio di Milano, da Assimpredil Ance, dal Banco Popolare e con la collaborazione del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale sono stati 1.251 i soggetti indagati nell’ambito dei 105 procedimenti considerati. Dei 384 rinviati a giudizio, 98 sono appunto imprenditori, segno di una crescente presenza mafiosa nell’economia lecita. “Oggi non può più parlarsi di un fenomeno di infiltrazione della criminalità organizzata al Nord, quanto piuttosto di un radicamento nell’economia lecita, e più in particolare milanese”, è il commento ai dati del professor Alessandri. E che il radicamento abbia soppiantato la più labile infiltrazione è un dato acquisito da anni anche in sede giudiziaria, comprese le analisi della Direzione nazionale antimafia.

L’edilizia si conferma il settore più colpito – ci lavora il 25,52% degli imprenditori finiti sul banco degli imputati in processi per mafia – mentre il 15,2% opera nella ristorazione e nella gestione di bar o locali notturni. Dei 384 rinviati a giudizio, 330 sono stati condannati con una sentenza di primo grado. Nel 24,2% dei casi il ruolo nell’organizzazione criminale dell’imprenditore indagato per l’articolo 416 bis è quello di organizzatore e/o promotore dell’attività criminosa. Riguardo al tipo di reato commesso dagli indagati nel periodo considerato dalla ricerca, si evidenzia come le attività criminali più tipiche prevalgano di poco sui reati di tipo economico (53,7% rispetto al 46 ,3%).

I dati mostrano una crescita del peso della criminalità nel tessuto economico milanese, almeno per i casi individuati dagli investigatori. In 15 anni, peraltro, il numero di procedimenti aperti per mafia non è stato costante: due i picchi, nel 2006 e tra il 2010 e il 2014: se nel 2000 i fascicoli aperti dalla Procura sono stati 5 e nel 2001 solo 2, tra il 2010 – anno fra l’altro della grande operazione Crimine-Infinito, con 160 arresti nella sola Lombardia – e il 2014 il numero è di 43 procedimenti (16 dei quali solo nel 2014).

L’associazione di tipo mafioso più coinvolta nei procedimenti avviati a Milano è la ‘ndrangheta: è presente in ben il 78% dei procedimenti, mentre Cosa nostra e Sacra corona unita si ritrovano rispettivamente nel 10% e nel 3% dei fascicoli. Vi è tuttavia da registrare un 7% di casi in cui compare una convergenza di interessi criminali tra più realtà associative di tipo mafioso (‘ndrangheta, camorra, Cosa nostra).

La ricerca della Bocconi ha preso in esame anche l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali antimafia, attraverso la consultazione dei fascicoli relativi ai 67 provvedimenti di confisca definitivi emessi nei sedici anni presi in esame: 80 sono i soggetti proposti per le misure di prevenzione, per il 63% originari della Calabria e per il 13% originari della Lombardia. Di questi proposti, 34 sono stati indagati o imputati per reati in materia di sostanze stupefacenti, mentre 22 per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Anche in questo ambito appare prevalente la presenza della ‘ndrangheta, associazione collegata in almeno 48 casi esaminati. I beni immobili confiscati sono stati 249 (il 47% del totale); 119 i conti correnti (23%); 57 i beni mobili registrati (11%) e 52 le azioni o le quote societarie (10%). In 6 decreti (tra il 2009 e il 2012) le imprese sono state destinatarie della misura.

(fonte)

Ah, a proposito: hanno condannato Nicola Cosentino. E alcuni che lo dicevano innocente sono al governo.

Nove anni di reclusione. E altri due anni di libertà vigilata al termine della pena. Durissima condanna per l’ex sottosegretario Pdl Nicola Cosentino, a lungo coordinatore campano di Forza Italia, accusato di concorso esterno in associazione camorristica. Questa la sentenza della prima sezione collegio C del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, presieduta dal giudice Giampaolo Guglielmo.

Assoluzione solo per un capo d’imputazione residuale, quello relativo allo scambio di assegni e titoli di credito tra esponenti del clan e impresa di famiglia, la Aversana Petroli. Tra novanta giorni apprenderemo le motivazioni. Il pm della Dda di Napoli Alessandro Milita aveva chiesto 16 anni di condanna. La sentenza è arrivata al termine di lunghissimo processo iniziato il 10 marzo 2011 e spalmato in 141 udienze, forse il più lungo mai celebrato con un solo imputato. In cinque anni e mezzo il pm Milita e gli avvocati Agostino De Caro e Stefano Montone hanno formato una lista testi di 300 persone e ne hanno sentite circa 110, di cui 16 collaboratori di giustizia collegati in videoconferenza dai luoghi protetti. Tra i testimoni sono stati sentiti i big del clan dei Casalesi, oggi pentiti di camorra, tra cui l’ex reggente del clan Bidognetti Luigi Guida, Gaetano Vassallo, Anna Carrino, Franco Di Bona, e alcuni tra i leader della politica campana, tra cui l’ex Governatore della Campania Antonio Bassolino, sentito a febbraio 2012 per rispondere a domande sulla gestione del commissariato per l’emergenza rifiuti. Sono stati sentiti anche il suo ex braccio destro Massimo Paolucci, l’ex parlamentare Lorenzo Diana, l’ex ministro dell’Ambiente Altero Matteoli.

Le 199 pagine dell’ordinanza di arresto nei confronti di Cosentino vengono firmate il 7 novembre 2009 dall’allora gip di Napoli Raffaele Piccirillo. Arresto più volte respinto dalla Camera fino al 15 marzo 2013, giorno in cui Cosentino, non ricandidato per decisione di Berlusconi e privo delle guarentigie parlamentari, si costituisce presso il penitenziario di Secondigliano. Dopo qualche mese di carcere e di arresti domiciliari fuori regione, a fine 2013 Cosentino torna libero e si rimette a fare politica. È l’ispiratore di ‘Forza Campania’, gruppo consiliare regionale che intende fare la fronda alla gestione napoletana e campana di Luigi Cesaro e Domenico De Siano, e mettere in difficoltà il ‘rivale’ Stefano Caldoro, all’epoca Governatore azzurro. Ma il 3 aprile 2014 torna in carcere con accuse di estorsione ai danni di un imprenditore dei carburanti, un concorrente dell’impresa di famiglia, la Aversana Petroli, leader di mercato nell’area di Casal di Principe e dintorni. Due anni e due mesi ininterrotti di carcere, terminati il 1 giugno 2016, quando il tribunale revoca la misura attenuandola negli arresti domiciliari a Venafro con divieto di comunicare all’esterno della cerchia dei familiari più stretti.

Cosentino è stato accusato dalla Dda di Napoli di concorso esterno in associazione camorristica. Secondo l’accusa, è stato sin dal 1980 e fino al 2014 il referente politico-istituzionale dei clan Casalesi, dai quali avrebbe ricevuto sostegno elettorale e capacità di intimidazione, e ai quali avrebbe offerto la possibilità di partecipare ai proventi degli appalti del ciclo dei rifiuti e delle assunzioni. L’impianto accusatorio si è concentrato intorno alle vicende della nascita dell’Eco 4 con a capo i fratelli Sergio e Michele Orsi (quest’ultimo ucciso nel 2008 dall’ala stragista del clan di Giuseppe Setola), imprenditori vicini al clan dei Casalesi, nonché società operativa del Consorzio Ce4 con a capo Giuseppe Valente, diventato poi nel corso del dibattimento uno dei principali testi della Procura. L’Eco 4 fu “società a partecipazione mafiosa”, sostiene il pm Milita, Questo il contesto in cui la Procura ha collocato gli sversamenti illeciti nel casertano e fuori regione, e la mancata realizzazione dell’inceneritore di Santa Maria la Fossa. Cosentino avrebbe fatto finta di appoggiare i comitati che si battevano contro l’impianto, per favorire invece un altro progetto. Cosentino avrebbe avuto un controllo assoluto delle assunzioni e degli incarichi all’interno della Eco4.

L’inchiesta giudiziaria prende il via dal pentimento di Gaetano Vassallo, il ministro dei rifiuti del clan Bidognetti. “L’ Eco 4 è una mia creatura, la Eco 4 song’io”, avrebbe detto l’ex parlamentare a Vassallo. A verbale il pentito ricostruisce i suoi contatti e i suoi rapporti con l’ex parlamentare, si sarebbe recato a casa di Cosentino per incontrarlo – ne descrive le stanze agli inquirenti – e discutere di un suo ruolo in una società controllata dalla Eco 4. Vassallo racconta che Cosentino gli risponde no, spiegandogli che in quel momento gli interessi economici dei clan si erano spostati a Santa Maria la Fossa e lì comandava il gruppo camorristico degli Schiavone, che avevano estromesso i soldati di Bidognetti.

Cosentino avrebbe poi cercato di costruire un vero e proprio ciclo dei rifiuti alternativo e concorrenziale a quello ufficiale gestito da Fibe-Fisia-Impregilo attraverso il contratto stipulato con il commissariato per l’emergenza, ovvero attraverso l’Impregeco. Per il pm, Cosentino da un lato aveva un progetto, quello di realizzare il ciclo integrato dei rifiuti nel Casertano, e per questo con loro e con la Impregeco mette in atto un piano. Dall’altro, sfruttava il suo ruolo e le sue relazioni per favorire la camorra in cambio di voti. “La camorra non votò Cosentino e non c’è alcuna prova contro di lui e ci troviamo di fronte ad un vuoto probatorio”, ha invece replicato la difesa composta da Stefano Montone e Agostino De Caro nel corso dell’arringa del 27 ottobre scorso.

I legali hanno messo in discussione l’attendibilità dei collaboratori di giustizia “completamente inaffidabili per le versioni discordanti”. Nell’udienza di oggi si è consumato un ultimo, duro scontro, sulla circostanza che Cosentino nel 2008, poco dopo le rivelazioni dei primi verbali di Vassallo, ha promosso iniziative politiche e parlamentari per creare una sezione Dda a Santa Maria Capua Vetere. Per il pm Milita questo fu un tentativo per “frantumare” il ‘modello Caserta’ della Dda di Napoli che stava ottenendo ottimi risultati nei contrasto ai clan dei Casalesi, e quindi indebolire anche le indagini a carico dell’ex sottosegretario. Un progetto che secondo Milita era sostenuto anche da Donato Ceglie, pm attualmente al centro di varie inchieste giudiziarie, di recente assolto a Roma nel suo primo processo, che all’epoca era sostituto procuratore a Santa Maria ed era legato ai fratelli Orsi. De Caro ha controbattuto: “È una tesi che poggia su una cultura del sospetto che non può approdare a una sentenza emessa in nome del popolo italiano”. Gli avvocati hanno preannunciato ricorso in Appello.

(fonte)