Vai al contenuto

arresti

Le assurde parole con cui Giorgia Meloni giustifica l’astensione di Fdi su Patrick Zaki

Sono 24 ore che mi scervello sulle giustificazioni della leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, circa il voto di astensione in Senato per l’ordine del giorno che impegna il Governo “ad avviare tempestivamente le necessarie verifiche” per concedere la cittadinanza italiana a Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna agli arresti nel carcere egiziano di Tora dal 7 febbraio del 2020.

Ho sperato anche che Giorgia Meloni o qualcuno dei suoi spendesse qualche altra parola, che a qualcuno gli scappasse almeno uno sputo di tweet o una cosa qualsiasi per capire come possa una decisione presa in così larga maggioranza essere “un’ingerenza del Parlamento italiano”.

A cosa serve, secondo Giorgia Meloni, il Parlamento, se non proprio a intervenire in fatti di propria pertinenza? Cosa c’è di più significativo, per un Parlamento, dell’occuparsi di diritti da rispettare nei confronti di uno studente che proprio in Italia è stato libero per l’ultima volta e che è illegalmente detenuto in uno Stato che ha ammazzato poco prima uno studente italiano e con cui commerciamo amabilmente armi?

Mi pare tutto così chiaro, limpido, facile. Ci sono arrivati perfino i leghisti, per dire. Poi mi chiedo come la cittadinanza italiana a Patrick Zaki potrebbe “non aiutarlo” (parole sempre buttate a caso da Giorgia Meloni): ma non è proprio lei che da anni urlaccia sulla sua “patria” che deve farsi rispettare nel mondo? Ma non è proprio lei che da anni se la prende con il governo di turno per lamentare una mollezza sulla politica nazionale che, a suo dire, svergognerebbe tutti gli italiani?

E ora che potrebbe semplicemente schiacciare un pulsante (non le si chiede nulla di eroico, sia chiaro), proprio lei che vorrebbe essere quella del partito dei patrioti senza paura, ora balbetta quattro scuse sconclusionate senza senso?

Poi mi sono detto che forse non è la stessa Giorgia Meloni che, a proposito di “ingerenze”, viaggia in giro per l’Europa e per il mondo per incontrare i peggiori paradittatori sovranisti cercando di coltivare alleanze che mettono in seria crisi la credibilità dell’Italia in Europa e nel mondo. E invece no, è proprio lei.

Eppure Giorgia Meloni si è detta “solidale”. Ma come? Ma quindi non ha nemmeno il coraggio di dire che non gliene frega niente? Almeno sarebbe stata una posizione con una sua logica, qualcosa di comprensibile.

Poi ho pensato che ha un nome l’atteggiamento di Giorgia Meloni, una parola semplice semplice: vigliaccheria politica, condita con un po’ di esigenza di farsi notare.

Leggi anche: Draghi dì qualcosa: ora abbiamo bisogno di una data (e di una soglia) per sapere quando ne usciremo (di Giulio Cavalli)

L’articolo proviene da TPI.it qui

Non ce n’è Covvidi!

I dati relativi all’andamento del contagio Covid che Regione Sicilia inviava quotidianamente all’Istituto superiore della sanità venivano alterati diminuendo il numero dei positivi e alzando il numero dei tamponi per rientrare nei parametri che evitano nuove restrizioni. È l’accusa rivolta dalla procura di Trapani ad alcuni dipendenti del Dipartimento regionale per le Attività sanitarie e osservatorio epidemiologico (Dasoe) dell’Assessorato della Salute della Regione Sicilia, indagati per falso materiale e ideologico. Per il giudice per le indagini preliminari si è trattato di un «disegno politico scellerato». E non si tratterebbe di qualche caso isolato: secondo la procura sarebbe accaduto almeno 40 volte. Si tratterebbe di un atteggiamento sistematico.

I dialoghi tra l’assessore alla Sanità della Regione Ruggero Razza (che ieri ha rassegnato le dimissioni) al telefono con la dirigente del Dasoe Maria Letizia Di Liberti sono di quelli che fanno venire la pelle d’oca per la ferocia e per il disinteresse verso la salute pubblica: discutono dei numeri dei morti dicendosi «Ma sono veri?». «Sì, solo che sono di tre giorni fa». «E spalmiamoli un poco…». «Ah, ok allora oggi gliene do uno e gli altri li spalmo in questi giorni, va bene, ok. Mentre quelli del San Marco, i sei sono veri e pure gli altri cinque sono tutti di ieri… quelli di Ragusa, Ragusa cinque! E questi sei al San Marco sono di ieri.. perché ieri il San Marco ne aveva avuti ieri altri cinque del giorno prima, in pratica. Va bene? Ok». «Ok». «Ciao, ci metto questi io».

Allo stesso modo ci si comportava con i nuovi contagi: «61 Agrigento, 75 Caltanissetta, 90 Catania, 508 Palermo…», snocciola il funzionario Salvatore Cusimano, uno dei tre dirigenti regionali finiti agli arresti domiciliari. Dati che fanno saltare sulla sedia Di Liberti, che urla: «Ma che dici? Ma che dici? No, scusa non può essere, se sono quei i dati definitivi, Palermo va in zona rossa subito, subito». E la zona rossa, come è accaduto anche dalle parti di Bergamo in Lombardia a inizio pandemia, deve essere evitata per non perdere soldi.

Allora conviene fare un passo indietro, al 5 novembre scorso, quando il presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci sparava fuoco e fiamme contro il governo nazionale per le restrizioni imposte alla sua regione: anche in quell’occasione aveva parlato di un complotto antisiciliano, di un governo che chiudeva tutto senza «evidenza di dati» e di una «Sicilia senza colpe». Accade in Sicilia ma è un refrain a cui ormai siamo abituati: le restrizioni viste come “una punizione” possono essere buone per la propaganda di qualche complottista ma che a lanciare l’accusa siano stati spesso dei presidenti di Regione ha alimentato non poco l’idea di una dittatura sanitaria appiattendo un dibattito che invece meritava (e merita) di essere fatto senza che sia sempre e solo propaganda e scontro.

Non è una questione di profili penali (quelli ci penserà la giustizia a approfondirli): si tratta di un uso spregiudicato del potere che sembra non avere mai la capacità di valutare la salute pubblica serenamente, senza metterla in competizione con il fatturato. Siamo sempre qui, siamo ancora qui. E forse la questione è molto più larga della semplice Sicilia: da mesi molti analisti (gente che i numeri li maneggia per mestiere) segnalano “stranezze” nei dati giornalieri. E il dubbio è che il tempo ci mostri il vero volto del potere in questa pandemia. E non sarà un bel vedere.

Buon mercoledì.

* In foto, l’assessore alla Sanità della Regione Sicilia Ruggero Razza e il governatore Nello Musumeci

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La mattanza non percepita

Provate a immaginare cosa scriverebbero certi giornali se dei terroristi, meglio ancora se islamici ché funzionano meglio, ogni 5 giorni ammazzassero qualcuno in Italia…

Provate a immaginare se dei terroristi, meglio ancora se islamici ché funzionano meglio, ogni 5 giorni ammazzassero qualcuno in Italia. Ogni 5 giorni esce una notizia sulle pagine di cronaca contro questa violenza che, sono sicuro lo scriverebbero così, “mette in pericolo il nostro Paese”. Oppure immaginate un’etnia, preferibilmente nera ché funziona meglio, che ogni 5 giorni uccida una donna, una “nostra” donna come scriverebbero sicuramente certi giornali e provate a prevedere cosa direbbe la politica, certa politica. Oppure immaginate di mettere certe morti tutte in fila, una dopo l’altra. Così:

11 gennaio: Sharon ha 18 mesi e vive a Cabiate, in provincia di Como. Muore per una stufa che le cade addosso in casa. La Procura di Como scopre che la bimba però era stata maltrattata e violentata e ha disposto l’arresto del compagno della madre, Gabrile Robert Marincat, che ora si trova in carcere. La madre nutriva dei sospetti.

16 gennaio: Victoria Osagie, 34 anni, è stata uccisa dal marito nel tardo pomeriggio all’interno della propria abitazione a Concordia Sagittaria in provincia di Venezia. L’uomo l’ha colpita più volte con un coltello al termine di un litigio. I tre figli hanno assistito alla scena.

24 gennaio: Roberta Siragusa. Il corpo della diciassettenne al momento del rinvenimento si presentava parzialmente carbonizzato e nudo nella parte alta, con i pantaloni abbassati, il volto tumefatto, il cranio ferito e parte dei capelli rasati (da stabilire se di proposito o a causa delle bruciature).‍ Per recuperare i resti della ragazza sono dovuti intervenire sul posto i Vigili del fuoco. È stato arrestato Pietro Morreale, 19 anni, fidanzato della vittima. I due litigavano spesso: un mese prima la vittima aveva un occhio tumefatto.

29 gennaio: Teodora Casasanta, 39 anni e il figlio Ludovico di 5 anni sono stati uccisi dal marito e padre Alexandro Vito Riccio a Carmagnola. Il gesto sarebbe stato premeditato, poiché sul posto è stato ritrovato un biglietto su cui il trentanovenne avrebbe espresso l’intenzione di togliere la vita alla coniuge e al bambino. Lei aveva espresso la volontà di separarsi. L’esame autoptico ha rilevato circa 15 fendenti sul corpo della moglie e 8 su quello del figlio. L’aggressore avrebbe prima accoltellato le vittime nel letto, poi si sarebbe accanito su di loro pestandoli con diversi oggetti presenti in casa, tra cui il televisore.‍

1 febbraio: Sonia Di Maggio, 29 anni, è stata uccisa a Minervino di Lecce. La vittima si trovava in strada, nella frazione di Specchia Gallone, insieme al fidanzato quando all’improvviso è stata aggredita da un individuo: era Salvatore Carfora, 39 anni, ex compagno della giovane. Armato di coltello, ha sferrato numerosi fendenti alla ventinovenne. Il fidanzato ha tentato di difenderla, ma nulla ha potuto contro la furia dell’aggressore. Sonia si è accasciata al suolo in un lago di sangue. Vani i tentativi dei sanitari giunti sul posto che hanno provato a rianimarla, ma le lesioni erano troppo gravi.

7 febbraio: Piera Napoli, cantante di 32 anni e madre di tre figli, è stata uccisa la mattina del 7 febbraio 2021 all’interno dell’abitazione in cui risiedeva a Palermo, nel quartiere Cruillas. Il marito della donna, Salvatore Baglione, 37 anni, dipendente di una ditta che trasporta carni, intorno alle ore 13.00 si è costituito dai Carabinieri alla caserma dell’Uditore per confessare il delitto. Circa un mese prima la donna aveva richiesto l’intervento della Polizia dopo un’ennesima lite in casa con il coniuge, ma alla fine non se l’era sentita di sporgere denuncia.

7 febbraio: Luljeta Heshta, 47 anni, è una donna originaria dell’Albania, da 10 anni in Italia e regolare sul territorio, morta nel pomeriggio del 7 febbraio 2021 all’ospedale Humanitas di Rozzano in provincia di Milano. È stato arrestato il convivente della donna. Il gesto sarebbe stato compiuto a causa della presenza di un presunto amante nella vita della donna. La stessa nei giorni precedenti avrebbe lasciato l’abitazione che condivideva con il compagno per separarsi da lui.

12 febbraio: Lidia Peschechera, 49 anni, è stata trovata morta durante il pomeriggio del 17 febbraio 2021 all’interno della sua abitazione in zona Ticinello a Pavia. In carcere c’è il suo ex convivente Alessio Nigro. Il ventottenne, senza fissa dimora, si definiva un clochard e aveva problemi legati alla dipendenza dall’alcol. La donna si era offerta di aiutarlo, ospitandolo anche in casa, ma l’individuo non aveva fornito segnali di ripresa, anzi, in un’occasione lei aveva anche dovuto chiamare la Polizia per sedare una lite, al termine della quale non se l’era sentita di denunciare. Successivamente però la stessa aveva intimato al giovane l’intenzione di volerlo mandare fuori dall’abitazione a causa dei suoi comportamenti violenti, sfociati poi nell’omicidio.

19 febbraio: Genova. Clara Ceccarelli, 69 anni, è stata uccisa dall’ex compagno Renato Scapusi, 59 anni. Si parla di circa 100 coltellate. La donna è stata uccisa al termine del proprio turno di lavoro. All’inizio del 2020 si erano lasciati e da quel frangente sarebbero iniziate una lunga serie di aggressioni e persecuzioni messe in atto dall’uomo. La donna da giorni si era pagata il funerale e aveva provveduto a organizzare l’assistenza per il padre anziano e il figlio disabile. Sapeva di morire.

Ieri, 22 febbraio: Deborah Saltori, 42 anni, è stata uccisa in località Maso Saracini a Cortesano, frazione della città di Trento. La vittima sarebbe stata colpita con un’accetta dall’ex marito Lorenzo Cattoni, 39 anni, in una zona di campagna dove lui stava lavorando. Ad allertare i soccorsi sarebbe stato un passante che, durante il pomeriggio, ha notato i corpi esanimi dei due ex coniugi, riversi al suolo (l’uomo avrebbe infatti tentato di togliersi la vita). Secondo le prime ricostruzioni, Cattoni era già stato ammonito due volte dal questore della città per violenza domestica, anche verso la sua precedente compagna. Lo stesso era sottoposto agli arresti domiciliari a casa dei genitori nel comune di Terre d’Adige (Trento) perché, nel corso degli ultimi anni, era ricorso più volte a violenze fisiche e psicologiche nei confronti della vittima.

Sempre ieri, 22 febbraio: Rossella Placati, 51 anni, è stata trovata morta e sanguinante nel suo appartamento di Bondeno, Ferrara. Per ora non ci son arresti ma il suo compagno si è presentato in caserma raccontando di una discussione avvenuta la sera precedente e di essersi allontanato.

Questo è il punto in cui siamo.

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La sindaca della Lega arrestata perché negava aiuti alimentari ad anziani soli e stranieri

Se vi serve la rappresentazione plastica del leghismo nella sua forma già truce, quello che in nome dello slogan “prima gli italiani” in realtà mette per primi gli interessi personali egoriferiti di chi sdogana l’egoismo come rivendicazione politica, allora basta fare un giro a San Germano Vercellese, dov’è sindaca Michela Rosetta.

La sindaca Rosetta è una che era finita sulle pagine di cronaca per le solite crociate razziste che serpeggiano tra i salviniani, una che aveva deciso di vietare i giochi del parco della città ai figli degli extracomunitari (badate bene: solo gli extracomunitari) che non pagavano la retta della mensa.

Rosetta è agli arresti domiciliari, col suo vice e due addetti comunali, con l’accusa di falsità materiale e falsità ideologica in atto pubblico commessa da pubblico ufficiale, abuso d’ufficio e distruzione di beni sottoposti a vincolo culturale.

In sostanza le forze dell’ordine hanno scoperto che i soldi che avrebbero dovuto essere a disposizione per le derrate alimentari acquistate al Comune per lenire l’emergenza finivano a persone che non ne avevano bisogno (c’è da scommetterci, amichetti della suddetta sindaca), lasciando fuori invece alcuni anziani non autosufficienti e ovviamente gli stranieri.

Non solo: con quei soldi la sindaca e la sua cricca si compravano mazzancolle e capesante da portare a casa e consumare in famiglia. Perché, si sa, per loro “la famiglia” è tutto, soprattutto la loro famiglia.

A fare scattare le indagini è stata proprio una cittadina straniera in forte difficoltà economica che aveva denunciato il fatto di essere stata arbitrariamente cancellata dal registro degli aiuti (chissà perché anche questo non stupisce).

Tra le altre cose si è scoperto anche che la sindaca Rosetta avrebbe provocato un crollo di una porzione della facciata della chiesa (a proposito della religione che loro sventolano con presepi e crocifissi) per poterne giustificare poi la conseguente demolizione che tornava comoda per i piani della prima cittadina.

C’è dentro tutto: c’è la gestione egoistica della cosa pubblica per solleticare con un po’ di razzismo i proprio elettori e per riempire le pance della propria cerchia, c’è l’incapacità di rispettare le regole (proprio loro che gridano “ordine e disciplina”) per mungere soldi e occasioni, c’è la stortura di ritenere il proprio ruolo politico una possibilità di “pieni poteri” per fare ciò che gli pare.

E questi sono gli stessi che vorrebbero rivendersi come salvatori in questo periodo nero. Dai, anche no, grazie.

Leggi anche: L’assessore di FdI in Veneto canta “Faccetta nera” alla radio. C’è una destra ormai oltre la vergogna (di G. Cavalli)

L’articolo proviene da TPI.it qui

La ‘ndrangheta, appunto

Vogliamo occuparci di mafie, mica solo in Calabria? Vogliamo che ritornino nell’agenda della politica? O si aspettano sempre gli arresti, sempre

Si è riusciti a parlare per giorni, settimane, di Calabria senza mai pronunciarla. Non so se avete notato ma le mafie sono scomparse dal dibattito pubblico come se fossero qualcosa di non rilevante in tempo di pandemia (mentre per loro è un momento ghiottissimo) e ora se ne torna a parlare a bomba per l’arresto del presidente del Consiglio regionale calabrese Domenico Tallini, per gli amici Mimmo.

Ora sarà il processo a decidere, noi siamo e restiamo garantisti, ma la parabola di Tallini è interessante perché stiamo parlando di uno che era finito nell’elenco degli impresentabili formulato dalla Commissione antimafia guidata da Nicola Morra. Proprio Morra aveva messo in guardia la presidente Jole Santelli nell’affidare compiti di responsabilità a chi era rinviato a giudizio per diversi profili di corruzione. L’hanno nominato presidente del Consiglio regionale, per dire.

Parliamo di un politico che è sulla scena da 40 anni (a proposito del rinnovamento sempre professato e mai praticato) che esce dalle grinfie del vecchio Udeur e si ricicla, come molti altri, in Forza Italia. Le accuse raccontano che «in qualità di assessore regionale fino al 2014 e quindi candidato alle elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale del 2014, e successivamente quale consigliere regionale», Tallini «forniva un contributo concreto, specifico e volontario per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione», si legge nell’ordinanza che ha portato all’arresto del presidente del Consiglio regionale. «In cambio del sostegno elettorale promesso ed attuato da parte del sodalizio», secondo l’accusa il politico di Forza Italia ha garantito alla cosca «le condizioni per l’avvio prima e l’effettivo esercizio poi dell’attività imprenditoriale della distribuzione all’ingrosso dei prodotti farmaceutici».

Tallini, è scritto sempre nell’ordinanza, è intervenuto per «agevolare e accelerare l’iter burocratico per il rilascio di necessarie autorizzazioni nella realizzazione del Consorzio Farma Italia e della società Farmaeko Srl». Inoltre, «imponeva l’assunzione e l’ingresso, quale consigliere, del proprio figlio Giuseppe, così da contribuire all’evoluzione dell’attività imprenditoriale del Consorzio farmaceutico, fornendo il suo contributo, nonché le sue competenze e le sue conoscenze anche nel procacciamento di farmacie da consorziare». In tal modo, si legge ancora nell’ordinanza, «rafforzava la capacità operativa del sodalizio nel controllo di attività economiche sul territorio, incrementando la percezione delle capacità di condizionamento e correlativamente di intimidazione del sodalizio, accrescendo la capacità operativa e il prestigio sociale e criminale».

«Insomma… l’investimento è per voi… mica lo facciamo per noi… no? Fino a mo’ ci abbiamo solo rimesso…però nonostante tutto… anche gratis… Mi devi spiegare meglio com’è impostato tutto il ragionamento», diceva a Domenico Scozzafava, «un formidabile portatore di voti» per il politico di Forza Italia finito ai domiciliari, ma anche uno «’ndranghetista fino al midollo», secondo la magistratura.

Ora al di là del profilo processuale rimane però un punto sostanziale: vogliamo occuparci di mafie, mica solo in Calabria? Vogliamo che ritornino nell’agenda della politica? O si aspettano sempre gli arresti, sempre. Anche perché le mafie intanto in questa disperazione stanno prosperando come non mai. E sarebbe il caso di accorgersene prima che ce lo dica la magistratura.

Buon venerdì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il dramma di Valerio, suicida in cella dove non doveva stare…

Per il suicidio del detenuto Valerio Guerrieri, suicidatosi nel carcere di Regina Coeli il 24 febbraio del 2017 all’età di 21 anni, si dovrà perseguire penalmente anche la direttrice del carcere in quel periodo, Silvana Sergi, e una dirigente del Dap. L’ha deciso il gip Claudio Carini che ha respinto per la seconda volta la richiesta di archiviazione del pm Attilio Pisani. Ora si valutano le accuse di omissione di atti d’ufficio e reato di morte come conseguenza di un altro delitto, oltre all’indebita limitazione di libertà personale. Valerio Guerrieri non doveva essere in carcere, c’era scritto a chiare lettere perfino nella sentenza con cui era stato condannato a quattro mesi di reclusione in cui il giudice indicava chiaramente di trasferirlo in una Rems, la residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza che accoglie chi ha gravi disturbi mentali. Insieme alla direttrice del carcere e alla dirigente del Dap, il procedimento va avanti anche per sette agenti della penitenziaria di Regina Coeli e un medico, tutti già imputati. Il medico è accusato di omicidio colposo per non aver controllato in cella il ragazzo sottoposto «alla misura della grande sorveglianza».

La vicenda di Valerio Guerrieri, ennesimo morto per malagiustizia, inizia alle dieci di sera di venerdì 2 settembre del 2016. Valerio è fermo con la sua moto ai bordi del Grande raccordo anulare di Roma, una pattuglia della Polizia lo nota e accosta ma il ragazzo non risponde e riparte immediatamente: un inseguimento che dura 30 chilometri e che coinvolge cinque volanti della Polizia e che si conclude con la caduta del motociclista. Trasportato d’urgenza all’ospedale Sant’Andrea viene arrestato per «resistenza, lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato». Il ragazzo dice di non ricordare nulla e di non avere la patente. Viene condannato agli arresti domiciliari.
Non è una vita facile quella di Valerio: già a cinque anni i genitori decidono di chiedere aiuto al centro di tutela salute mentale e riabilitazione in età evolutiva di Ostia perché le maestre dell’asilo osservano strani comportamenti.

Nel 2009 era stato ricoverato al reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico di Roma dove gli viene diagnosticata «una personalità borderline con lievi tratti psicomaniacali». A quattordici anni comincia a prendere psicofarmaci, viene mandato alla comunità terapeutica Casetta Rossa di Roma e segue un percorso terapeutico che dovrebbe aiutarlo. Poi nel 2010 viene trasferito alla comunità Lilium, in provincia di Chieti, nel 2011 è a Villa Letizia, un centro romano che si occupa di problemi psichiatrici. La sua è una vita passata tra farmaci e le evidenti difficoltà famigliari. Il 1 maggio del 2012 lo arrestano mentre cerca di rubare una Vespa e viene portato al carcere minorile di Casal Del Marmo e poi ai domiciliari a Villa Letizia. Secondo il racconto della madre sarebbe proprio lì che il figlio conosce uno dei capi della banda della Magliana che gli insegna a rapinare i supermercati. La sua vita continua tra ricoveri, arresti e Tso affidato ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), fughe e nuovi arresti.

Nel 2015 gli tocca l’ospedale psichiatrico giudiziario, il manicomio criminale, a Secondigliano. Esce il 1° dicembre del 2015 perché tutti gli Opg in Italia devono chiudere per legge. Finisce in una comunità aperta a Rocca Canterano, nei pressi di Subiaco, ma scappa di nuovo. In quel periodo prende 9 psicofarmaci al giorno. Valerio interrompe le cure, di nuovo, e di nuovo è Tso. È una storia piena di dolore. In un’intervista rilasciata a Internazionale l’anno scorso la madre raccontava che Valerio «passava le giornate ciondolando per casa, pareva uno zombie». Arriviamo alle battute finali di questa storia: dopo l’arresto del settembre 2016, nonostante le disposizioni del giudice, Valerio viene spedito a Regina Coeli, 946 carcerati in quel periodo, il doppio di quelli per cui c’è spazio.

Il 16 febbraio scrive una lettera al fratello: «Ciao frate’ ti scrivo adesso 9.40 del mattino ti scrivo soltanto per dirti che mi dispiace x tutto io qui sto impazzendo non ce la faccio più ma vabbè me la so cercata (…) veramente ora son stanco di mangiare di fare qualunque cosa di scappare basta se io me ne vado x sempre penso che voi non sentirete la mia mancanza voglio andarmene per sempre quindi ora ti lascio con la penna ma non con il cuore ciao fratellone mio ci rincontreremo stai ar ciocco addio!?!?». Otto giorni dopo si uccide impiccandosi in bagno.

I compagni di cella raccontano che aveva preparato il cappio nel giorno precedente. Nella richiesta di rinvio a giudizio a carico di due medici e sette agenti di polizia penitenziaria il pm Pisani chiede la condanna per omicidio colposo per non aver sorvegliato e controllato il ragazzo come bisognava fare, e cioè ogni 15 minuti e con visite psichiatriche quotidiane. Contemporaneamente, Pisani ha provato ad archiviare le indagini sulla direzione del carcere e del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap): secondo il magistrato avrebbero agito con negligenza ma non con dolo ma ora arriva la decisione del gip. Una cosa è certa: il suicidio di Valerio Guerrieri è l’ennesima storia di uno Stato che usa il carcere come discarica sociale, un luogo dove rinchiudere qualsiasi forma di devianza, dai poveri ai tossicodipendenti fino ai malati psichiatrici. E così le carceri scoppiano e si moltiplicano i casi di suicidi di persone che avevano bisogno di cure, prima che di detenzione, e invece sono state lasciate sole. Come racconta la storia di Valerio.

L’articolo Il dramma di Valerio, suicida in cella dove non doveva stare… proviene da Il Riformista.

Fonte

Sfruttati e trattati da untori: i moderni schiavi di Mondragone, vittime del razzismo italiano

Alla fine è arrivata alla disperazione. La miscela perfetta della pandemia: gli invisibili stranieri che lavorano nei campi di Mondragone (sfruttati da italianissimi sfruttatori), gli italiani che vivono nella povertà e che hanno bisogno di trovare il nemico di fianco al proprio pianerottolo per avere la soluzione facile senza rendersi conto che non è una soluzione, la politica che banchetta sul disagio come continua a fare da anni e perfino il presidente campano che ora si ritrova a affrontare un’emergenza vera, qualcosa di endemico, qualcosa che ha radici profonde nel tempo e nei modi e che è molto di più di una semplice emergenza sanitaria.

Mondragone era malata già prima del Coronavirus, Mondragone, come molte parti d’Italia, è una di quelle zone dove la politica è riuscita a instillare la guerra tra disperati, gente invisibile che lavora nei campi per qualche spicciolo e poi rientra in case che sono casermoni dormitori dove la socialità sta solo nello sprofondare nel letto farciti di fatica, con un futuro immaginabile che non è più lungo del giorno successivo in cui ci sarà da cavarsela ancora. Lo schema facile facile disegnato dallo zotico razzismo di chi è incapace di fare i conti con la complessità è semplice, ripetuto, sempre lo stesso: arrivano i bulgari a infettarci, arrivano i bulgari a non rispettare le ordinanze ed è colpa dei bulgari se noi perdiamo il lavoro. La parola bulgari la potete tranquillamente sostituire con una nazionalità qualsiasi, l’importante è che siano altro rispetto a noi e così il giochino fila liscio liscio.

Nessuno che riesce a ricordare gli arresti e le denunce di imprenditori casertani (e lì, dalle parti di Latina) che i bulgari li importano a chili, famiglie con anche figli minori che diventano forza lavoro, per pagarli 2 euro all’ora e per lucrare su persone che non sono persone ma sono solo le loro braccia e la fatica che riescono a spremere in una giornata di lavoro. Mondragone è il grido d’allarme degli invisibili che sono rimasti con il collo schiacciato sotto la scarpa della pandemia e di questo mondo del lavoro che è appeso a un filo, fottendosene delle leggi e delle regole, dove basta rinchiudersi in casa per qualche settimana per fare la fame, la fame vera, la fame che andrebbe trattata per tutta la vita e per tutte le vite che ha intorno e che invece la nostra bassa politica tratta come fenomeno passeggero, giusto il tempo per coltivare rabbia e sperare di raccogliere una manciata di voti. Ora è Mondragone, è solo l’inizio.

Leggi anche: 1. Mondragone dimostra che il problema non è il Covid, è fame. E lo Stato non ha soluzioni (di L. Telese) / 2. De Luca vi fa ridere? La sua violenza verbale fa male alla sinistra ed è un regalo a Salvini / 3. Un bracciante è stato picchiato per aver chiesto una mascherina. Questa è l’Italia del 2020 

L’articolo proviene da TPI.it qui

Due tre cose su Pittella

Veloci, veloci, in attesa ovviamente che si svolga il processo (mentre, per inciso, la questione dei soldi della Lega è già sentenza, vale la pena ricordare): il fatto che due fratelli abbiano in mano una regione (Gianni e Marcello lì sono come Tutankamon stava all’Egitto) è una cosa deplorevole, che non lo vogliano capire quelli del PD lascia più che basiti; la sanità è la cassaforte di ogni presidenza regionale (di soldi e di voti) e sono decenni che sentiamo parlare di iniziative per la trasparenza, poi alla fine non succede mai niente; che la politica regionale decida le nomine nel campo della Sanità è un tema che forse bisognerebbe avere voglia di risolvere una volta per tutte, piuttosto legittimandole, oppure mettendo in atto strumenti che funzionano davvero; le carte della Procura (le sto studiando in questo preciso istante) disegnano per Pittella un ruolo centrale.

Per farsi un’idea vale la pena riprendere qualche pezzo. Come scrive Fiorenza Sarzanini sul Corriere:

«Dobbiamo accontentare tutti»: era questo il suggerimento del governatore della Basilicata Maurizio Pittella per governare il sistema sanitario nella sua Regione. E proprio seguendo questo metodo avrebbe gestito le nomine e gli appalti. Nell’ordinanza di custodia cautelare il giudice evidenzia il «Sistema di corruzione e asservimento della funzione pubblica a interessi di parte su sollecitazione di una moltitudine di questuanti». Poi specifica come «Deus ex machina di questa distorsione istituzionale nella sanità lucana è proprio il governatore Marcello Pittella che influenza le scelte gestionali delle aziende sanitarie e ospedaliere interfacciandosi direttamente con i direttori generali che sono stati nominati con validità triennale dalla sua giunta».

Le intercettazioni rivelano come il Governatore si occupasse di gestire sia le nomine dirette sia i concorsi pubblici. Uno dei metodi utilizzati e svelato dalle indagini della Guardia di Finanza era quello di decidere le assegnazioni dei posti «gonfiando» il punteggio ottenuto dai candidati ma anche falsificando i verbali delle commissioni in modo da far risultare che tutti i componenti fossero presenti.

L’Ansa:

«Il “deus ex machina’ della “distorsione istituzionale” che si è verificata nella sanità lucana è il presidente della regione Marcello Pittella. Lo scrive il Gip di Matera Angela Rosa Nettis nell’ordinanza d’arresto per il governatore della Basilicata sottolineando che Pittella “non si limita ad espletare la funzione istituzionale formulando gli atti di indirizzo politico per il miglioramento e l’efficienza” della sanità regionale, “ma influenza anche le scelte gestionali” delle Asl “interfacciandosi direttamente con i loro direttori generali” tutti da lui nominati»

Il Fatto Quotidiano:

Quinto “collettore” delle raccomandazioni di Pittella – Il commissario straordinario dell’Azienda sanitaria di Matera, Pietro Quinto (in precedenza direttore generale della stessa Asm) è “il collettore delle raccomandazioni che promanano” da Pittella. Così il procuratore Argentino, nella conferenza stampa sull’operazione, spiega i rapporti tra il governatore e Quinto, in carcere con le accuse di corruzione e turbata libertà degli incanti. Dal 29 maggio 2017, si legge nell’ordinanza, ha saputo di essere intercettato e gli inquirenti ritengono sia stato avvisato dal senatore Salvatore Margiotta che aveva appena incontrato. “Molto altro ancora si sarebbe appreso di tale malgoverno del potere e della funzione pubblica se non ci fossero state illecite ingerenze – si legge nell’ordinanza – Tuttavia due mesi di captazione sono bastati a disvelare le dinamiche interne di una sfrontata gestione di uno dei settori nevralgici della Pubblica amministrazione”. Quinto, da commissario della Asm, intrattiene – secondo gli inquirenti – “significativi rapporti con altre figure politiche e religiose di spicco”, spiega il pm Argentino. E in carcere è finita anche la direttrice amministrativa della stessa Asm, Maria Benedetto.

“La politica nella sua accezione negativa e distorta” – La ratio che muove ed è al centro di questo sistema, scrive ancora il giudice Angela Rosa Nettis, è “sempre la stessa”: vale a dire “la politica nella sua sempre più fraintesa accezione negativa e distorta, non più a servizio della realizzazione del bene collettivoma a soddisfacimento dei propri bisogni di locupletazione e di sciacallaggio di potere e condizionamento sociale”. E’ la politica infatti “che condiziona pesantemente” la gestione delle Asl lucane “ed in particolar modo le procedure selettive per assumere personale nella sanità”. E questo “non solo al fine di ampliare il consenso elettorale ma anche allo scopo di ‘scambiare’ favoriai politici di pari schieramento che governano Regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania“. E se questo è il quadro, conclude il gip, il “deus ex machina di questa distorsione istituzionale” è proprio il governatore Pittella.

 

Quei 170 arresti di ‘ndrangheta, medaglia al valore per i nostri uomini migliori al fronte


L’operazione “Stige” che ha portato all’arresto di 169 mafiosi è frutto anche (e soprattutto) di un’iniezione dei migliori uomini messi a disposizione della Procura di Catanzaro, come ha detto oggi Gratteri. “Avrebbero potuto ambire a città come Milano o Roma, e invece sono stati spediti al fronte”. E i risultati si vedono.
Continua a leggere