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Giuseppe Di Vittorio

Dove per essere almeno schiavo devi avere un’amica

Un articolo da pelle d’oca di Fabrizio Gatti:

pomodo schiavi-2Il padrone ha la camicia bianca, i pantaloni neri e le scarpe impolverate. È pugliese, ma parla pochissimo italiano. Per farsi capire chiede aiuto al suo guardaspalle, un maghrebino che gli garantisce l’ordine e la sicurezza nei campi. “Senti un po’ cosa vuole questo: se cerca lavoro, digli che oggi siamo a posto”, lo avverte in dialetto e se ne va su un fuoristrada. Il maghrebino parla un ottimo italiano. Non ha gradi sulla maglietta sudata. Ma si sente subito che lui qui è il caporale: “Sei rumeno?”. Un mezzo sorriso lo convince. “Ti posso prendere, ma domani”, promette, “ce l’hai un’amica?”. “Un’amica?”. “Mi devi portare una tua amica. Per il padrone. Se gliela porti, lui ti fa lavorare subito. Basta una ragazza qualunque”. Il caporale indica una ventenne e il suo compagno, indaffarati alla cremagliera di un grosso trattore per la raccolta meccanizzata dei pomodori: “Quei due sono rumeni come te. Lei col padrone c’è stata”. “Ma io sono solo”. “Allora niente lavoro”.

Non c’è limite alla vergogna nel triangolo degli schiavi. Il caporale vuole una ragazza da far violentare dal padrone. Questo è il prezzo della manodopera nel cuore della Puglia. Un triangolo senza legge che copre quasi tutta la provincia di Foggia. Da Cerignola a Candela e su, più a Nord, fin oltre San Severo. Nella regione progressista di Nichi Vendola. A mezz’ora dalle spiagge del Gargano. Nella terra di Giuseppe Di Vittorio, eroe delle lotte sindacali e storico segretario della Cgil. Lungo la via che porta i pellegrini al megasantuario di San Giovanni Rotondo. Una settimana da infiltrato tra gli schiavi è un viaggio al di là di ogni disumana previsione. Ma non ci sono alternative per guardare da vicino l’orrore che gli immigrati devono sopportare.

Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d’estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei dell’Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all’uomo raccontata da Alan Parker nel film ’Mississippi burning’. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l’hanno ucciso.

Adesso è la stagione dell’oro rosso: la raccolta dei pomodori. La provincia di Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della trasformazione di Salerno, Napoli e Caserta. I perini cresciuti qui diventano pelati in scatola. Diventano passata. E, i meno maturi, pomodori da insalata. Partono dal triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di tutta Italia e di mezza Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza. Gli altri ortaggi, come melanzane e peperoni. Tra poco la vendemmia. Gli imprenditori fanno finta di non sapere. E a fine raccolto si mettono in coda per incassare le sovvenzioni da Bruxelles. ’L’espresso’ ha controllato decine di campi. Non ce n’è uno in regola con la manodopera stagionale. Ma questa non è soltanto concorrenza sleale all’Unione europea. Dentro questi orizzonti di ulivi e campagne vengono tollerati i peggiori crimini contro i diritti.

Non ci vuole molto per entrare nel mercato più sporco dell’Europa agricola. Qualche nome inventato da usare di volta in volta. Una fotocopia del decreto di respingimento rilasciato un anno fa a Lampedusa dal centro di detenzione per immigrati. E la bicicletta, per scappare il più lontano possibile in caso di pericolo. Il caporale che pretende una ragazza in sacrificio controlla la raccolta dei perini a Stornara. Uno dei primi campi a sinistra appena fuori paese, lungo il rettilineo di afa che porta a Stornarella. Meglio lasciar perdere. Per arrivare fin qui bisogna pedalare sulla statale 16 e poi infilarsi per dieci chilometri negli uliveti. Il borgo è una piccola isola di case nell’agro. Alla stazione di Foggia, Mahmoud, 35 anni, della Costa d’Avorio, aveva detto che quaggiù la raccolta, forse, è già cominciata. Lui, che dorme in una buca dalle parti di Lucera, è senza lavoro: lì a Nord i pomodori devono ancora maturare. Così Mahmoud campa vendendo informazioni agli ultimi arrivati in treno. In cambio di qualche moneta.

Oggi dev’essere la giornata più torrida dell’estate. Quarantadue gradi, annunciavano i titoli all’edicola della stazione. Sperduta nei campi appare nell’aria bollente una stalla abbandonata. È abitata. Sono africani. Stanno riposando su un vecchio divano sotto un albero. Qualcuno parla tamashek, sono tuareg. Un saluto nella loro lingua aiuta con le presentazioni. La segregazione razziale è rigorosa in provincia di Foggia. I rumeni dormono con i rumeni. I bulgari con i bulgari. Gli africani con gli africani. È così anche nel reclutamento. I caporali non tollerano eccezioni. Un bianco non ha scelta se vuole vedere come sono trattati i neri. Bisogna prendere un nome in prestito. Donald Woods, sudafricano. Come il leggendario giornalista che ha denunciato al mondo gli orrori dell’apartheid. “Se sei sudafricano resta pure”, dice Asserid, 28 anni. È partito da Tahoua in Niger nel settembre 2005. È sbarcato a Lampedusa nel giugno 2006. Racconta che è in Puglia da cinque giorni. Dopo essere stato rinchiuso quaranta giorni nel centro di detenzione di Caltanissetta e alla fine rilasciato con un decreto di respingimento. Asserid ha attraversato il Sahara a piedi e su vecchi fuoristrada. Fino ad Al Zuwara, la città libica dei trafficanti e delle barche che salpano verso l’Italia. “In Libia tutti gli immigrati sanno che gli italiani reclutano stranieri per la raccolta dei pomodori. Ecco perché sono qui. Questa è solo una tappa. Non avevo alternative”, ammette Asserid: “Ma spero di risparmiare presto qualche soldo e di arrivare a Parigi”. Adama, 40 anni, tuareg nigerino di Agadez, ha fatto il percorso inverso. A Parigi è atterrato in aereo, con un visto da turista. Poi gli è andata male. Dalla Francia l’hanno espulso come lavoratore clandestino. Ed è sceso in Puglia, richiamato dalla stagione dell’oro rosso. “Questo è l’accampamento tuareg più a Nord della storia”, ride Adama. Ma c’è poco da ridere. L’acqua che tirano su dal pozzo con taniche riciclate non la possono bere. È inquinata da liquami e diserbanti. Il gabinetto è uno sciame di mosche sopra una buca. Per dormire in due su materassi luridi buttati a terra, devono pagare al caporale cinquanta euro al mese a testa. Ed è già una tariffa scontata. Perché in altri tuguri i caporali trattengono dalla paga fino a cinque euro a notte. Da aggiungere a cinquanta centesimi o un euro per ogni ora lavorata. Più i cinque euro al giorno per il trasporto nei campi. Lo si vede subito quanto è facile il guadagno per il caporale. Alle due e mezzo del pomeriggio arriva con la sua Golf. E la carica all’inverosimile. “Davvero questo è africano?”, chiede agli altri davanti all’unico bianco. Nessuno sa dare risposte sicure. “Io pago tre euro l’ora. Ti vanno bene? Se è così, sali”, offre l’uomo, calzoncini, canottiera e sul bicipite il tatuaggio di una donna in bikini ritratta di schiena.

Si parte. In nove sulla Golf. Tre davanti. Cinque sul sedile dietro. E un ragazzo raggomitolato come un peluche sul pianale posteriore. Solo per questo trasporto di dieci minuti il caporale incasserà quaranta euro. I ragazzi lo chiamano Giovanni. Loro hanno già lavorato dalle 6 alle 12.30. La pausa di due ore non è una cortesia. Oggi faceva troppo caldo anche per i padroni perché rinunciassero a una siesta. Giovanni si presenta subito dopo, guardando attraverso lo specchietto retrovisore: “Io John e tu?”. Poi avverte: “John è bravo se tu bravo. Ma se tu cattivo…”. Non capisce l’inglese né il francese. E questo basta a far cadere il discorso. Ma il pugnale da sub che tiene bene in vista sul cruscotto parla per lui. Amadou, 29 anni, nigerino di Filingue, rivela lo stato d’animo dei ragazzi: “Giovanni, oggi è venerdì e non ci paghi da tre settimane. Ormai stiamo finendo le scorte di pasta. Da quindici giorni mangiamo solo pasta e pomodoro. I ragazzi sono sfiniti. Hanno bisogno di carne per lavorare”. I tre euro l’ora promessi erano solo una bugia. Ma Giovanni promette ancora. Quando risponde dice sempre: “Noi turchi”. Anche se la targa della macchina è bulgara. E per il suo accento potrebbe essere russo oppure ucraino. “Ti giuro su Dio”, continua il caporale, “oggi arrivano i soldi e vi paghiamo. Tu mi devi credere. Io lavoro come te a Stornara. Non prendo in giro i miei colleghi”. Giovanni abita alla periferia. Un villino di mattoni sulla destra, a metà del rettilineo per Stornarella. Quasi di fronte a un’altra stalla pericolante senz’acqua, riempita di materassi e schiavi.

Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d’estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei dell’Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all’uomo raccontata da Alan Parker nel film ’Mississippi burning’. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l’hanno ucciso.

Padroni senza legge
Dietro il triangolo degli schiavi ci sono gli imprenditori dell’agricoltura foggiana e molte industrie alimentari. Piccole o grandi aziende non fanno differenza. Quando devono assumere personale stagionale per la raccolta nei campi, quasi tutte scelgono la scorciatoia del caporalato. Il compenso per gli stranieri varia da 2,50 a 3 euro l’ora (ai quali però vanno tolti tutti i ’servizi’ per il caporale). Anche per questo gli italiani sono scomparsi da questo tipo di lavoro. Solo una piccola minoranza degli agricoltori interpellati da ’L’espresso’ dice di pagare i braccianti da 4 a 4,50 euro l’ora. Ma sempre in nero e rivolgendosi a caporali. In Veneto e in Friuli un raccoglitore guadagna in media 5,80 euro l’ora più i contributi, se in regola. Oppure da 6,20 a 7 euro l’ora se ingaggiato in nero.

La legge prevede una retribuzione ordinaria di 35 euro al giorno. Per favorire le assunzioni regolari, il governo ha abbassato i contributi che gli imprenditori devono versare di circa il 75 per cento. Mentre il contributo dell’8,54% che il bracciante deve dare all’Inps è rimasto inalterato. I controlli sono inefficaci o inesistenti. Nell’ultimo anno in provincia di Foggia soltanto un imprenditore, a Orta Nova, è stato arrestato per sfruttamento dell’immigrazione clandestina.

I medici accusano: arrivano sani e si ammalano qui
Vivono in condizioni disumane. Proprio in questi giorni decine di abitanti del Ghetto, tra Foggia e Rignano, si sono ammalati di gastroenterite per le pessime condizioni dell’acqua. Ma anche quest’anno, l’Asl Foggia 3 ha rifiutato di mettere a disposizione strutture e ricettari per assistere gli stranieri sfruttati come schiavi nei campi. La denuncia è dell’associazione francese Medici senza frontiere che invece ha ottenuto la collaborazione dell’Asl Foggia 2 per l’assistenza sanitaria e umanitaria nel Sud della provincia. Da tre anni un ambulatorio mobile di Msf visita le campagne tra Cerignola e San Severo. Come se la provincia di Foggia fosse un fronte di guerra. Ci sono un medico, un’assistente sociale e un coordinatore: quest’anno Viviana Prussiani, Carla Manduca e Teo Di Piazza. “Per il terzo anno consecutivo siamo stati costretti a continuare questo progetto”, spiega Andrea Accardi, responsabile delle missioni italiane di Msf: “E ancora una volta nell’estate 2006 ci troviamo di fronte alla stessa situazione: gli stranieri arrivano sani e si ammalano a causa delle indecenti condizioni che trovano nelle campagne. Manca qualsiasi forma di accoglienza. Il sistema economico è totalmente ipocrita e vede la connivenza e il coinvolgimento di tutti gli attori. A partire dal governo e dalle istituzioni locali, ovvero Comuni e prefetture, fino ad arrivare alle Asl, alle organizzazioni di produttori e ai sindacati”.

Nel 2005 Msf ha pubblicato il rapporto “I frutti dell’ipocrisia” sulle drammatiche condizioni degli immigrati sfruttati come schiavi non solo in Puglia. Perché, secondo il tipo di raccolto, situazioni simili si ripetono in Calabria, Campania, Basilicata e Sicilia. Le malattie più gravi sono state diagnosticate negli stranieri che vivono in Italia da più tempo, tra 18 e 24 mesi. Il 40 per cento dei lavoratori nell’agricoltura vive in edifici abbandonati. Oltre il 50 non dispone di acqua corrente. Il 30 non ha elettricità. Il 43,2 per cento non ha servizi igienici. Il 30 ha subito qualche forma di abuso, violenza o maltrattamento

(fonte: L’ESPRESSO)