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Plenilunio d’acqua. Favola acquatica in atto unico.

E la canzone dell’acqua
è una cosa eterna.
È la linfa profonda
che fa maturare i campi.
È sangue di poeti
che lasciano smarrire
le loro anime nei sentieri
della natura.
Che armonia spande
sgorgando dalla roccia!
Si abbandona agli uomini
con le sue dolci cadenze.
Il mattino è chiaro.
I focolari fumano
e i fiumi sono braccia
che alzano la nebbia.
Ascoltate i romances
dell’acqua tra i pioppi.
Sono uccelli senz’ala
sperduti nell’erba!
Gli alberi che cantano
si spezzano e seccano.
E diventano pianure
le montagne serene.
Ma la canzone dell’acqua
è una cosa eterna.
(F.G. Lorca)

C’è una favola, una favola leggera sull’acqua che si intitola semplice “plenilunio d’acqua” e che la ritroveranno solo chissà fra quanti anni magari dentro una bottiglia di plastica tutta accartocciata. Perche fra chissà quanti anni qualcuno, magari qualcuno di molto importante, farà due conti in piazza un pomeriggio che ci saranno quasi tutti, e si riuscirà a dirlo forte che quella bottiglia accartocciata, che finisce accartocciata come tutte le bottiglie accartocciate negli angoli accartocciati del mondo, ecco lì in piazza (ma sara fra chissà quanti anni) si sentirà dire che quella bottiglia accartocciata e il camioncino che l’ha portata fin lì costano una fatica cento volte per l’acqua che c’è dentro. E allora la favola conviene cominciare a raccontarla adesso, mentre portiamo bottiglie accartocciabili di qua e di là senza preoccupazioni su e giù per il mondo, mentre usiamo per lavarci i denti gli stessi secchi d’acqua che in qualche angolo accartocciato e assetato del mondo basterebbero a tutta una famiglia per tutto un giorno, mentre ci occupiamo che il balcone sia in pendenza giusta per imbucare bene e presto la pioggia dentro i tombini. Perché poi magari succede come per tutto che l’acqua diventa una preoccupazione e la favola si avvera, e quando sono preoccupati si sa che la gente la prima cosa che smette di fare è ascoltare le favole:
C’era una volta uno stagno, uno stagno pulito, areato, con un bel sole di giorno e un’arietta fresca che lo accarezzava la sera, e dentro un’acqua così chiara e così fresca che ti viene sete anche solo a raccontarla. Nello stagno ci abitavano quattro famiglie di rane e ogni tanto di passaggio ci veniva per le vacanze un fenicottero e delle zanzare. La giornata era la tipica giornata come succede in tutti gli stagni del giorno: al mattino a sciacquarsi bene tra le zampe e sotto al gargarozzo nell’angolo a destra dove le mamme insaponavano i più piccoli, a mezzogiorno tutti insieme a cucinare in umido nell’angolo a sinistra che stava sotto l’ombra comoda degli alberi sull’argine, al pomeriggio ci si rincorre sulle foglie che galleggiano in tutto quello spazio in mezzo e poi la sera ognuno tornava a casa con i fratelli e i genitori nella propria casa di canneto. E le case di canneto erano così larghe e lunghe che ci avrebbero dormito in ognuna quasi cento rane sdraiate per il lungo. Un giorno una rana che voleva diventare sindaco convocò una riunione e prese un megafono di erba
–    Cari cittadini! (disse con la voce erbosa e megafona che rimbalzava sull’acqua) noi stiamo bene qui nel nostro stagno che tutti ci invidiano, questo lo so bene, ma io voglio farvi un regalo ancora più grande per stare più comodi e poterci stendere per il lungo nelle nostre case non cento ma quasi mille rane stese per il lungo. Ieri una zanzara mi ha parlato dei suoi viaggi sopra all’umido nel suo giro di mezzo mondo! C’è non lontano da qui, al massimo a mille salti da qui, uno stagno molto più grande del nostro, con un’acqua fresca che è azzurra come è azzurro l’angolo della bocca delll’airone. E gli orli di quest’acqua sono fatti di schiuma. Lì potremmo avere tanto spazio che ognuno di noi avrebbe un giardino fuori dalla porta grande come questo stagno! Venderemo il nostro stagno e ci compreremo una mare!
–    Evviva!
Gridavano tutti, tutti tranne il vecchio Ranonnno, che a lui questa storia proprio non lo convinceva. Il vecchio Ranonno ne aveva già viste di storie che partivano con il sogno di un lago e finivano nel buco del lavandino.
Il giorno dopo arrivò un contadino con un cappello rotondo di paglia sulla testa. La rana che voleva diventare sindaco gli aveva venduto l’angolo basso per piantarci del riso da risotto. E ci martellò nell’angolo una recinzione di un ferro mezzo verde ma tutto arrugginito cha faceva lì vicino un’acqua che sapeva di ferro come gli sciroppi per la tosse.
–    Non preoccupatevi! Disse alle quattro famigli la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare – basterà stringerci un po’ durante la colazione!
Poi il giorno successivo arrivò un tubo. Sì proprio un tubo, di quelli arancioni e di plastica che a guardarlo con occhi da rana sembrava una galleria arancione ma senza la montagna sopra. La rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare aveva venduto l’angolo a destra dove le mamme insaponavano i piccoli ad una fabbrica che stava poco lontano e cominciò a sputare fuori dalla galleria a forma di tubo un’acquetta tutta solida che faceva una macchia bianca e tutta gommosa. E le rane a nuotarci vicino avevano un mal di pancia peggio di un’indigestione di cachi.
–    Non preoccupatevi! Disse la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare. – basterà che una famiglia delle quattro si trasferisca un paio di giorni, una settimana al massimo, per racimolare i soldi che ci servono per firmare il contratto e comprarci il mare!
Venne deciso che la famiglia che doveva traslocare era quella del secondo canneto alla foglia numero tre, perché avevano sette figli e occupavano molto spazio. Al mattino quando partirono con tutte quelle valigie e scatoloni tutti legati nello stagno si alzò una nebbiolina leggera di tristezza che non si era mai vista e rimase incastrata tra la macchia gommosa del tubo e la recinzione di mezzo ferro per tutte le settimane dopo. Adesso però c’era un fastidioso problema: l’acqua che sapeva così tanto di acqua ormai piano piano cominciava ad avere un sapore dolciastro, a volte u po’ amarognolo e con una punta di carciofo. Le famiglie decisero che era proprio da ridere stare tutto il giorno in un’acqua che non sapeva di acqua, che rimbalzava come la gomma e arrugginiva come il ferro.
–    Non preoccupatevi! Disse la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare. – traslocheremo per qualche giorno, al massimo una settimana, la famiglia del canneto all’ombra e chiederemo al fenicottero di portarci dell’acqua a forma di acqua e al sapore di acqua dallo stagno vicino, in cambio di una sua piscina personale nell’angolo all’ombra! Per noi ci basterà per qualche giorno, una settimana al massimo, smettere di giocare alla rincorsa sulle foglie e aspettare di comprarci il nostro mare!
E così fu fatto. Altre valigie e scatoloni per la famiglia della famiglia del canneto all’ombra, fazzoletti bianchi alla stazione per i saluti con il fenicottero felice che portava acqua e avvitava il trampolini nella sua piscina recintata. E la nebbia incastrata della malinconia che sapeva di gomma e ferro si faceva sempre più densa. Così dopo una settimana le due famiglie che erano rimaste, e la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare e Ranonno vivevano un po’ più stretti e inciampevoli nello stagno che una volta era pulito, areato, con un bel sole di giorno e un’arietta fresca che lo accarezzava la sera, e dentro un’acqua così chiara e così fresca che ti viene sete anche solo a raccontarla. Ma erano anche speranzosi che da lì a poco avrebbero abitato in un pezzo di mare tutto per loro. Solo il Ranonnno non era speranzoso, perché ne aveva già viste tante di storie che dovevano essere un lago e invece finivano nel buco del lavandino.
Finchè un lunedì mattina la rana che voleva diventare sindaco non disse che ormai si era vicini alla meta. Disse che mancava poco per definire il contratto del pezzo di mare, e con gli occhi che brillavano raccontò che il martedì sarebbe arrivata la balena che aveva comprato un bel pezzo di stagno per passarci le vacanze. Perché si sa che le balene hanno la testa tanto grossa che dentro ogni tanto rimbalzano delle idee che sono proprio strane.
–    Una balena? Ma non ci staremo mai! Dissero le due famiglie rimaste. Ma come faremo? Dovremo ammucchiare tutti i nostri mobili e le nostre cose in angolo come i sacchi della spazzatura?
Questa storia della balena proprio non li convinceva. La rana che voleva diventare sindaco provò a convincerli, ma non c’era proprio modo di farglielo capire. Le due famiglie fecero i bagagli e salirono sul primo treno.
–    Meglio così! Pensò la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare. – sarò da solo tra le onde e starò largo come un re!
Anche il Ranonno fu la volta che andò via. prese il suo vecchio bastone e quei quelle quattro camicie che stavano nell’armadio e passò a salutare la rana che voleva diventare sindaco. Tirò fuori un foglio chiuso in quattro con un bollo di ceralacca e si raccomandò di aprirlo solo dopo l’arrivo della balena.
Il martedì la balena arrivò, con le sue sedici valigie e quattro cappelliere, che era ancora mattina presto. La rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare si mise nel suo angolo di stagno che ormai le era rimasto e che era piccolo come un fazzoletto piccolo e puzzolente come una schiuma puzzolente. La balena sistemò bene uno a uno tutti i suoi vestiti (quelli della festa, quelli per il tennis, quelli lavoro e sette vestaglie per la notte), poi indossò un costume giallo nuovo che aveva comprato per l’occasione e si tuffò con un tuffo a bomba nel suo nuovo pezzo di stagno in affitto. La rana che voleva diventare sindaco (che era ormai da sola a guardare la scena) dovette subito ritirare le zampe da quanto la balena le atterrò vicino e in quel momento pensò che è senza senso stare stretti in uno stagno in cui si è soli. Ma pensò al suo pezzo di mare e la tristezza per un secondo passò. Poi la balena si immerse sotto il velo d’acqua dello stagno, fece un respiro profondo e spruzzò con un fischio una torre d’acqua così alta che sembravano tre grattacielo uno in testa all’altro. E lo stagno cominciò veloce a svuotarsi; rimanevano le fogli e quei secchi dei rami secchi. E il grattacielo d’acqua continuava e diventava sempre più alto e il fischio sempre più fischio. E nello stagno oramai cominciava a vedersi il fondo fangoso e le cantine dei granchi e i chiodi del recinto che sapeva di ferro e il buco nero della galleria arancione a forma di tubo. Finchè lo spruzzo si spense, il fischio sfischiò un momento prima di spegnersi e la balena con il costumino nuovo all’asciutto cominciò a strepitare e ad urlare come un bambino inciampato. Poi si sistemò la frangia e continuando a a tutto volume disse alla rana che era stata truffata, che non avrebbe pagato e che anzi se l’avesse presa gliel’avrebbe fatta pagare.
La rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare cominciò a saltare tutta storta e spaventata per scappare dai passi della balena che cominciava ad arrivare e saltò più forte del forte che sapeva tutto il pomeriggio e poi tutta la sera fino al mattino dopo tra gli alberi, le montagne e la neve e il deserto, correva così forte e così tanto che pensava quasi di aver fatto mezzo giro del mondo. Al mattino sola, stanca e senza più nemmeno un fazzoletto a forma di stagno dove stare e senza le sue cose che erano rimaste nell’armadio asciutto trovò un ruscello, un torrentino che veniva da nessuna parte e non andava da nessuna parte. E fu triste a pensare che alla fine il suo mare aveva quella forma di ruscello timido e magro. E fu triste a pensare come si sta soli in un ruscello da soli e com’era triste aver traslocato gli amici.
In tasca aveva solo il foglietto del vecchio Ranonnno, che di tutta questa storia non era mai stato convinto perché ne aveva viste tante finire nel buco del lavandino. La rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare fu felice che almeno qualcosa era riuscita a portarsela via e seduta nel torrente che le arrivava alle ginocchia aprì la ceralacca. Dentro c’era un proverbio degli indiani Sioux Teton d’America e diceva:
Una rana non s’ingozza mai di tutta l’acqua dello stagno in cui vive.