Vai al contenuto

Il rispetto finito in carcere: diario di un giorno a San Vittore

Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni. (Fëdor Michajlovič Dostoevskij)

Martedì 11 maggio insieme ai miei compagni del Gruppo Consiliare Gabriele Sola, Francesco Patitucci e Stefano Zamponi sono stato in “visita” al carcere di San Vittore di Milano. Me lo ero ripromesso in modo ancora più forte dopo il recente suicidio di un detenuto a Como. Rientra nei diritti (o meglio doveri) di un consigliere regionale potere (o meglio dovere) entrare in qualsiasi carcere della regione per compiere un’ispezione sulle condizioni ambientali di lavoratori e ospiti. Un doveroso privilegio da praticare con regolarità e senza spese a piè di lista.

Entrare in un carcere con in tasca il diritto della visita breve è un distacco che non basta per non lasciarci dentro un pezzo di testa che ti rimbalza per i giorni successivi. A San Vittore ci sono circa 1400 detenuti: il doppio di quelli che ci dovrebbero stare, ma si sa gli uomini come tutti i branchi sono capaci di stringersi se è l’unico modo di starci. Celle tre metri per tre: un fazzoletto di pavimento che all’ikea si arreda con un mazzetto di 10 euro. Dentro i tre metri per tre qui a San Vittore ci vivono in sei. Con i letti aggrappati che arrivano ad un soffio dal soffitto. Ci accolgono con sommersa gratitudine e la buona educazione del nodo in gola. Gli agenti della Polizia Penitenziaria hanno le chiavi che ti aspetti per aprire castelli e parlano dei colleghi e dei detenuti. Ogni tanto gli scappa un “noi”. Come un recinto di guardie e ladri che si mettono insieme almeno per salvarsi. Se i detenuti sono doppi di quello che dovrebbe, le guardie circa la metà. A San Vittore i numeri non tornano mai: eppure la vivibilità è fatta di numeri, spazi e fondi. Qui lo sanno bene che il bluff non funziona.

In una cella con un ventilatore tenuto insieme dal nastro da pacchi, un ospite con il piglio esperto del residente si stacca dal fornello a tre passi dalla turca e dice indicando l’agente “se fate stare bene loro, loro possono fare stare bene noi”. L’emergenza sa costruire solo estremi: alleanze impensabili o odi profondi. Mi arrivano in testa Stefano Cucchi e a tutti gli altri che non si sono nemmeno meritati di essere stati nominati. Penso all’agente di Polizia Penitenziaria aggredito pochi giorni fa nel carcere di Opera. Questa è una guerra senza vincitori né vinti dove perde solo la responsabilità.

Nei prossimi giorni insieme ad alcune associazioni stilerò un programma per visitare tutte le carceri della regione. Stabilendo insieme le priorità per una relazione più completa possibile.

Intanto stanno finendo i nuovi servizi igienici: il lavoro ce lo mettono i detenuti lavoratori, i materiali, le porte, i sanitari e gli arredi l’Italia dei Valori. E’ poco ma è qualcosa. Almeno per provare a tenere anche il rispetto sotto osservazione.