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Genova, 20 luglio 2001, secondo Erri De Luca

Anche quest’anno ho letto molto per l’anniversario di Genova. Le diverse posizioni, più o meno condivisibili, che tutti gli anni ciclicamente escono con affetto o con bile, con lucidità o con strumentale ignoranza. Non ho riguardato i filmati. Quest’anno no. Mi si crea un dolore e un disgusto che non riesco a dissimulare. Quest’anno ho letto, tra le tante cose, tanti verbi al passato, come se quella Genova non fosse la madre abusata di nuovo che ha partorito le vicende recenti, dalla Val di Susa fino ad ogni piazza dove si confonde volutamente la richiesta con la rabbia, il diritto con la ribellione e l’ordine pubblico con la desertificazione sistematica della manifestazioni di idee. Poi ho trovato questo pezzo di Erri De Luca. E mi ci sono ritrovato a nuotare dentro pensando che una buona memoria si può provare a ripulire, a martellare, a costruire. Almeno per noi.

20 luglio 2001 di Erri De Luca

Un proverbio persiano dice: «Se vuoi farti un nome,

viaggia o muori». Lui non voleva un nome,

quel mattino di luglio voleva andare al mare.

La strada era già un mare,

le ondate di migliaia dietro migliaia dentro le piazze,

i vicoli, nei viali, allagavano Genova città.

Pensò ch’era Venezia, liquida di canali.

Cercò di navigarla, però l’alta marea

di molta umanità se lo portava via nella corrente.

Più logico seguirla. Era lo stesso una giornata al mare.

 

Montava il terzo giorno di acqua alta, a Genova e di luglio,

tre giornate di onde di persone.

 

C’era l’appuntamento di otto presidenti

con la scorta delle gendarmerie assortite,

pure le guardie forestali e di penitenziario.

C’erano i paracadutisti e i palombari.

A parte queste frotte, Genova conteneva

la formula migliore di popolo riunito dalla rosa dei venti.

Su qualunque mezzo, compreso nave, bicicletta e a piedi:

evviva i viaggiatori, sudati, intransigenti, lieti.

 

Quel giorno terzo il cretino al potere, incretinito appunto dal potere, scagliò la truppa addosso all’alta marea. Era marea di quelle che non possono defluire a mare. Nella città compressa tra la collina e il porto non aveva uscita, sfogo, scappamento. Aggredita, si riformava ovunque, scossa e scombinata dal suo stesso formato innumerevole. Sbatteva contro i muri, i manganelli, i calci in faccia e gli insulti della truppa arroventata dal sole e dal cretino.

 

Lui si mischiò dentro l’acqua agitata.

Pensò che il mare non andava preso a calci.

Il mare quando è fatto di persone, va ascoltato e basta.

Il mare quando è pieno di sale di ragione, va in salita

scavalca dighe e moli. Oggi io sono il mare,

pensò all’ingresso del piccolo slargo di piazza Alimonda,

nome che finisce con un’onda.

Gli venne il sorriso veloce di quando scorgeva

la strizzatina d’occhio di una coincidenza.

 

Amava il latino, traduceva Catullo stordito d’amore,

Ovidio spedito in esilio, Virgilio col biglietto

per visitare l’aldilà, il gran museo dei morti.

Amava il latino. Nel mazzo di carte da studio un ragazzo

ci vuole vedere in qualcuna il suo settebello.

Mare: in latino al plurale fa mària.

Decise quel giorno e quell’ora che avrebbe sposato

una di nome Marìa e le avrebbe spiegato perché.

 

Su piazza Alimonda il sole batteva a tamburo,

la luce bruciava negli occhi.

Un carabiniere coi calci

sfondò il vetro del suo quattroruotemotrici.

Di solito i vetri si rompono da fuori.

Quello si ruppe da dentro. Il carabiniere

tolse così l’ostacolo alla mira e la sicura all’arma.

Lui pensò di dover raccogliere i vetri,

non vanno lasciati sul fondo del mare.

Chinato a levarli, un estintore gli rotolò vicino.

Lo prese, gli venne l’impulso di gettarlo via,

s’accorse del carabiniere, del vetro sfondato, del braccio,

con l’arma, col dito. Che fai disgraziato?

Non vedi che io sono il mare?

 

Il mare lanciò l’estintore con tutta la forza

del braccio e dell’onda di piazza Alimonda.

In volo incrociò la pallottola calibro nove.

Cadendo pensò che il mare così abbatte le sue ondate

addosso alla scogliera e quando si sollevano gli spruzzi

vengono giù e l’onda non c’è più.

Il mare nell’urto da azzurro si rompe nel bianco.

Gridarono le ali e le lenzuola stese,

gridò lo zucchero, la farina, il sale,

il marmo, la pagina e la schiuma delle onde vicine,

gridò il bianco dell’uovo e delle voci.

 

Pensò: non è così che sposerò Maria.

Un accento si sposta e si scombina il legittimo destino,

può darsi che c’entri il latino,

o un giorno violento di luglio, lo scambio di un mare per l’altro.

Pensò ch’era arrivato a riva,

dove il mare riabbraccia la sua onda schiantata

e la riassorbe. Pensò al respiro di sua madre, il mare.

Poi scivolò sul fondo, senza peso di vita.

 

Dice il proverbio persiano: «Se vuoi farti un nome,

viaggia o muori». Dieci anni più tardi il suo nome viaggia

insieme alle onde che sono la maggioranza del mondo.