Vai al contenuto

Giovanni Tizian, non farti rubare la bellezza

Caro Giovanni,

Ho letto questa mattina la notizia del pericolo che vorrebbe spegnere il sole del tuo lavoro e del tuo coraggio lì a Modena dove “la mafia non esiste” e comunque non è un’emergenza. Ho letto le tue parole di quella strana fretta che ti prende nella quotidianità “con la condizionale” che ti è entrata in tasca e ho ammirato la tua serenità nell’andare avanti nonostante tutto e nonostante tutti. E avrei voluto fortissimamente abbracciarti perché questo Paese ha bisogno di parole così serene e forti davanti agli ignobili, ma comunque severe nei nomi e cognomi anche (e soprattutto) nei quotidiani di provincia, perché noi abbiamo bisogno di riflettere su quanto sia colpevolmente cretino pensare che non potesse succedere, invece di urlare forte che non dovrebbe succedere in nessun angolo del mondo.

Ti capiterà forse di chiederti se ne vale la pena. Dico di entrare con uno zaino di presunta bellezza dentro un gorgo a forma di vomito e di rischio, sotto il livello del mare a raschiare i fondali della minaccia avvisata. Il giudice ragazzino Livatino diceva che una volta vissuti nessuno ci avrebbe chiesto se fossimo stati credenti, ma se fossimo stati “credibili”. Ecco, una frase così sempre tenuta in tasca è una buona compagnia.

Guardarsi alle spalle non è mica bellezza: camminare guardandosi i piedi, leggersi nei riflessi, condizionarsi per come potresti essere guardato. È una malaugurata esposizione a pochi che ha comunque il sapore della nudità. Stare “giù al nord” con la parola che ti è violentemente rimbalzata in faccia è una sberla alla socialità, un calcio alla vivibilità, un invito alla tranquillità compromettente.

Ma se ci sono storie, in questo paese malato d’insofferente indifferenza, in cui si vuole frenare e ammutolire la parola, significa anche che la parola funziona. E questa è una grande e buona notizia. L’unica buona notizia che può lenire la condizione dell’essere osservati: bere il caffè immaginando (pensando o malpensando) che qualcuno ti guardi con la tazzina in mano. Lavorare o scrivere o raccontare immaginando (pensando o malpensando) che qualcuno ti controlli senza ascoltare. In una sterile città del nord essere guardati dal pelo delle mafie (sempre vissute come “sud”) è la perdita del diritto di cittadinanza nel paese della normalità. Un tarlo. Un tarlo col quale convivi per difenderti ma che intanto cresce mangiando la tua solitudine. La minaccia delle mafie non sta nelle minacce, quella è roba buona per farci la fascetta di un libro o le chiacchere da bar; la minaccia delle mafie sta nell’isolamento, la delegittimazione del proprio lavoro, nella sovraesposizione cannibale, nel fianco che ti ritrovi costretto a prestare a chi non aspettava altro che un nuovo idolo da abbattere per primo. Nel momento in cui ti dichiarano sotto scacco tutto il resto diventa rumorosissimo. La sofferenza, il rischio e la paura finiscono per essere solo tue. Un autismo irrisolvibile. Passeggiare, dire, bere e mangiare sempre malato della convinzione che è una cosa che non si riesce a raccontare, che non si riesce a far capire, che vuoi ascoltartela e giocartela da solo. Anche se è peggio.

Giovanni, oggi le tue parole sono le nostre parole, le tue terre sono le nostre terre e noi dobbiamo essere i tuoi colleghi. Nella professione migliore del mondo senza precari, quella che rispetta l’articolo 4 della Costituzione che dice che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”: non essere indifferenti. Perché in fondo ce lo dice la Costituzione che essere indifferenti è incostituzionale.

Sperando che ti arrivi questo abbraccio.

Pubblicata su IL FATTO QUOTIDIANO