La mafia, la camorra e la ‘ndrangheta sono tra noi, fanno affari nei capannoni dismessi, nei centri commerciali dove non ci va nessuno, nel bar sotto casa che ti chiedi come possa tirare avanti, vuoto com’è dalla mattina alla sera. Sono arrivate al Nord negli anni Sessanta cominciando a fare i primi soldi con i sequestri di persona e poi con lo spaccio di eroina e cocaina. Da qualche anno, con l’avvento dei “picciotti” di terza generazione che girano con il suv nero in giacca, cravatta e Rolex d’ordinanza al polso, si sono riciclate con attività apparentemente lecite come l’edilizia, il movimento terra, il mercato dell’ortofrutta.
Sotto la patina rispettabile sopravvivono i criminali di sempre, cinici, crudeli, pericolosissimi. Il loro brodo di coltura è il silenzio ottenuto con le intimidazioni. Chi alza la voce viene avvisato, minacciato, impaurito. Ne sa qualcosa Giulio Cavalli, attore, scrittore e uomo politico lombardo (è consigliere regionale nel gruppo di Sinistra Ecologia e Libertà dopo aver lasciato l’Italia dei Valori a seguito di un’indagine dell’Antimafia che ha coinvolto alcuni esponenti del partito di Di Pietro).
Da cinque anni Cavalli vive sotto scorta, proprio per avuto il coraggio di denunciare pubblicamente l’infiltrazione delle mafie nelle nostre pacifiche e laboriose contrade. Il suo ultimo monologo, Nomi, cognomi e infami, è stato presentato al teatro Astra in collaborazione con “Libera”, associazione che dal 1995 promuove l’impegno civile contro tutte le mafie. Prima dell’avvio della recita il coordinatore regionale don Luigi Tellatin ha ringraziato per l’ospitalità La Piccionaia, da tempo iscritta a “Libera”, e ha ricordato che l’attività criminale non si combatte solo con le indagini e gli arresti ma anche con la trasparenza e la collaborazione tra gli onesti.
Giulio Cavalli si definisce un giullare, un erede di quei buffoni di corte che usavano lo sberleffo per dire che il re è nudo e che, se esageravano con questo uso della libertà di espressione, finivano appesi alla forca. In tempi meno cruenti (ma simili per quanto riguarda la suscettibilità dei bersagli), i suoi ispiratori sono Dario Fo e Paolo Rossi, maestri dai quali ha appreso l’arte dell’affabulazione solitaria, dell’ammiccamento complice, della digressione irriverente, dell’indignazione controllata ma puntuale e puntuta.
Il suo status di sorvegliato speciale gli provoca qualche scompenso, come quando deve spiegare ai figli piccoli chi sono quei signori in divisa che non lo lasciano mai solo un momento, oppure quando pensa di fare di necessità virtù portando la scorta sul palco per allestire un musical con i carabinieri. La sua narrazione è serrata e partecipe, si capisce che l’argomento lo appassiona e che ne conosce profondamente ogni aspetto. Descrive con sdegno la miseria morale e intellettuale di capi mafia come Totò Riina e Bernardo Provenzano, personaggi di bassissimo profilo che però – e questo resta un mistero – sono riusciti per decenni a dirigere un colossale giro d’affari e a terrorizzare tutta la nazione.
Rende omaggio al sacrificio di chi questi mostri li ha combattuti e ha pagato il suo coraggio con la vita come l’avvocato Giorgio Ambrosoli, fatto uccidere nel 1979 da Michele Sindona, il giudice Bruno Caccia, ammazzato dai killer della ‘ndrangeta mentre portava a spasso il cane, Giuseppe Impastato e Pippo Fava, fatti fuori per aver osato colpire la mafia con l’arma docile ma appuntita dell’ironia e del disprezzo.
A tutti l’attore dedica un monologo, un ricordo, una poesia che recita con vigore e passione convincendo il pubblico a condividere la sua battaglia contro un nemico invisibile e spietato e ricevendo in cambio lunghi applausi convinti.
Lino Zonin VICENZA