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Liberisti sinistrati e smemorati

Ci sarà un motivo se la difesa dei principi costituzionali che sono sulla graticola in questo momento (penso all’articolo 18, all’equità e in generale a questa mania delle liberalizzazione che appaiono l’unica soluzione possibile) è demandata a tutti i comparti sociali, politica esclusa. Capita di ascoltare Don Gallo sull’articolo 18 e ti accorgi che una tesi così fortemente di cuore e cervello erano giornoiche la stavi aspettando, ascolti Oliviero sulla torre del Binario 21 e cogli come (più della laurea) conti il dolore e la perseveranza per resistere interpretando senza remore la Costituzione. Forse sarà un problema di narrazione (se ne parla spesso, figuratevi poi dalle nostre parti) ma la lacuna che punge di più è la latitanza della memoria storica della parte che rappresentiamo. Una sorta di liberismo necessario che sembra avere contagiato anche gli innovatori politici che su questo tema arrossiscono e balbettano qualche “ma anche”. A furia di restare schiacciati nella timidezza di un anacronistico “esproprio finanziario” abbiamo finito per regalarlo e subirlo senza nemmeno un cenno di difesa o, almeno, di comprensione del momento. Perché la politica cambia con un cambiamento culturale, certo, ma la rivoluzione culturale si accende senza timidezze. Ho sempre creduto che gli anni 80 siano la chiave di volta di questo impoverimento che ha lasciato la porta aperta agli imbarbarimenti (vincenti) degli altri e oggi ho incrociato questo articolo. Che, come ogni tanto succede, è uno di quei pezzi che avresti voluto scrivere tu:

Perché la sinistra ha smarrito la lezione della Costituzione

Le debolezze e gli errori che hanno condotto la sinistra, negli anni 80, a cambiare ideologia. L’Unità, 12 febbraio 2012

In Italia la subalternità all’egemonia liberale si è tradotta
in posizioni liberiste in economia e in una cultura istituzionale tutta incentrata su governabilità e legittimazione diretta

I lunghi anni Ottanta, racchiusi tra l’offensiva craxiana per la rottura dei consolidati equilibri partitici del Paese e lo choc del crollo del Muro di Berlino, hanno segnato un punto di svolta per le strategie politiche e per la cultura delle forze che, oggi, compongono il centrosinistra (aprendo una vicenda che ha esibito tratti peculiari, in parte diversi da quelli che hanno caratterizzato altre esperienze europee dei medesimi anni).

È comprensibile che la discussione si sia concentrata soprattutto sulla questione delle strategie, che aveva un’urgenza irresistibile e reclamava decisioni immediate e operative, ma gli effetti più profondi e di più lungo periodo si sono prodotti sul terreno della cultura – o, se si preferisce, della cultura politica – delle forze che furono sottoposte al duplice stress del protagonismo craxiano e della dissoluzione degli equilibri postbellici.

Già il solidarismo cattolico-sociale sembrava cominciare a conoscere, a partire da quegli anni, una fase di ripensamento e pareva subire la spinta ad accreditare più i punti di contatto che quelli di differenziazione rispetto al liberalismo e allo stesso liberismo. Ma era soprattutto nella cultura politica comunista, che pure poteva contare su un grande patrimonio, che giacevano elementi critici che rendevano difficoltoso raccogliere la sfida delle novità: almeno a un livello intermedio, la grande tradizione culturale liberale non sempre era conosciuta appieno e chi la conosceva non sempre vi si confrontava a viso aperto, senza pregiudiziali ideologiche e senza ricorrere all’argumentum ex auctoritate (che voleva che certe tesi fossero sbagliate solo perché non avevano trovato accoglienza in qualche vulgata di facile successo).

Era fatale che questi elementi di debolezza, uniti a un’ingiustificabile spinta all’abbandono del patrimonio posseduto, a torto stimato quasi interamente “vecchio” e inutile per la comprensione del “nuovo” avanzante, generassero una grave subalternità culturale, che per un verso si traduceva nell’acritica accettazione di tutto quanto si era ignorato o avversato, e per l’altro incideva sulle stesse strategie politiche, che, prive di un robusto basamento di convincimenti teorici, subivano oscillazioni, tanto più pericolose quanto più spregiudicata si faceva l’iniziativa politica di molte forze politiche avversarie.

I segni di questa subalternità culturale sono stati e in qualche caso sono ancora evidenti, e basta ricordarne alcuni. Sul piano della cultura istituzionale, ad esempio, si è a lungo dimenticata la complessità strutturale e funzionale delle democrazie rappresentative, concentrando l’attenzione sulla sola questione della governabilità e della legittimazione (pretesamente) diretta degli esecutivi, trascurando la lezione impartita dalla stessa Costituzione, nella quale era stato disegnato un complesso meccanismo di produzione della decisione pubblica, che doveva muovere dai cittadini (titolari di diritti qualificabili come frammenti di vera sovranità), passare attraverso i partiti (intesi come strumenti di partecipazione e di emancipazione democratica), delinearsi nelle assemblee rappresentative (come luogo del confronto, non solo dello scontro), definirsi compiutamente in sede di governo.

Il distorto bipolarismo italiano non è frutto soltanto del caso o delle scelte del centrodestra, ma anche di un’ideologia maggioritaria che della tradizione politica liberale sembra conoscere Schumpeter, ma non Locke o Tocqueville.

Né le cose vanno diversamente sul piano della cultura economica. Anche qui sembra che si sia abbracciato Hayek senza passare per Smith o Ricardo o, men che meno, Keynes. Anche qui la lezione della Costituzione appare dimenticata. Il suo articolo 41 garantisce, certo, la libertà dell’iniziativa economica privata, ma allo stesso tempo ne subordina l’esercizio al rispetto dell’utilità sociale, della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Quali sono, nelle posizioni dell’attuale centrosinistra, i segni che si ritiene prioritario impegnarsi per definire cosa sia oggi, in questo momento storico, l’utilità sociale? Quali i segni che non ci si accontenta di farla coincidere con il risultato della competizione retta dai meccanismi della libera concorrenza? Eppure già i classici dell’economia politica sapevano che l’interesse generale non è la sommatoria di quelli individuali e nemmeno il risultato automatico del loro libero confronto. L’utilità sociale dovrebbe essere definita politicamente, ma chi ne è ancora consapevole?

Le parole hanno spesso una grande forza evocativa e quando si parla di concorrenza “libera” o di “liberalizzazioni” si ha l’impressione che un giogo sia stato rimosso, che l’arroganza del potere sia stata battuta. Ma non è sempre così.

Certe scelte economiche e normative implicano significative conseguenze sociali, che andrebbero considerate. Acquistare una maglietta a qualsiasi ora del giorno e della notte, certo, è una bella comodità. Ed è anche un bel vantaggio pagarla meno del solito, se si può comprarla in un grande esercizio commerciale che ha forti economie di scala. Ma tutto questo ha un costo. In termini di alterazione degli stili di vita, di deterioramento dei processi di socializzazione, di lacerazione della trama del tessuto produttivo, di riduzione delle reali opportunità di scelta, di incisione nelle garanzie effettive e concrete (quelle che contano davvero) dei lavoratori.

La retorica della sovranità dei consumatori è penetrata a fondo nella cultura del centrosinistra e ha fatto grandi guasti. Quella del consumatore è per definizione una figura apolitica o tutt’al più prepolitica. È al cittadino, al soggetto politico, che spetta la sovranità.

Anche questo è un insegnamento della Costituzione. E le forze politiche che, giustamente, continuano a difenderla hanno un dovere di coerenza, perché la Costituzione non è solo una bandiera da agitare per evitare il peggio o per evocare le ragioni unificanti della comunità politica, ma è anche e soprattutto un grande progetto di trasformazione sociale, di emancipazione della persona umana, di conciliazione delle ragioni della libertà con quelle dell’eguaglianza.

Credo che di questo si debba tornare a discutere.