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Il Paese dei suicidati

Leggo la notizia dei dati di suicidi di imprenditori dal Corriere e leggo i partiti che ci dicono di non potere rinunciare ai rimborsi pubblici perché altrimenti chiuderebbero. E (senza cadere nell’antipolitica o nel populismo) mi chiedo se non sia il caso di provare a parlarne tenendo bene a mente le diverse vie d’uscita scelte (e possibili) da due mondi con lo stesso problema. Di cosa sono vittima gli imprenditori suicidati? Ci può davvero bastare “la crisi” come risposta? La chiudiamo così? Io non credo che esistano formule magiche e forse non ho nemmeno le soluzioni pronte, mi piacerebbe però che il titolo di apertura dei giornali fossero i lavoratori (imprenditori, artigiani, operai, giovani: tutti) che muoiono di lavoro piuttosto che la contabilità sempre garantita dei partiti. Perché poi non affidiamoci ai luminari analisti per capire perché il partito di maggioranza è quello degli astenuti. E il compito di tenere alta l’attenzione è un dovere politico.

Dall’inizio del 2012 in Italia ci sono stati 23 suicidi di imprenditori. La statistica è stata stilata dalla Cgia di Mestre, che ha preso in esame i casi legati in qualche modo alla crisi economica. Ben 9 dei 23 complessivi (pari al 40% del totale) sono stati registrati solo in Veneto.

 AZIENDE IN GINOCCHIO – Secondo i dati diffusi dall’osservatorio mestrino, il 49,6% delle aziende chiude i battenti entro i primi 5 anni di vita e solo da inizio 2012. «La grave difficoltà che stanno vivendo le imprese, soprattutto quelle guidate da neoimprenditori – dichiara Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre – è causata da tasse, burocrazia, ma soprattutto mancanza di liquidità. Sono i principali ostacoli che costringono molti neoimprenditori a gettare la spugna anzitempo. È vero che molte persone, soprattutto giovani, tentano la via dell’autoimpresa senza avere il know how necessario, tuttavia è un segnale preoccupante anche alla luce delle tragedie che si stanno consumando in questi ultimi mesi».