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Fare l’infame. In Veneto.

"O Dottò" e il suo Veneto: Crisci, il boss del Nord-Est

La sua primavera è iniziata due anni fa, quando ha trovato la forza di denunciare i camorristi che volevano impossessarsi della sua azienda. Ha coraggio da vendere Antonio, origini meridionali e viso sorridente nonostante la vita blindata che gli è stata imposta: è il titolare di una delle oltre 100 aziende venete finite nella mani del clan dei casalesi. Gli altri imprenditori hanno accettato passivamente gli ordini dei boss che tra Padova, Treviso, Rimini e Milano, gestivano un giro di usura camuffato dalla società finanziaria “Aspide”. Lui invece, non solo è corso dai magistrati appena intuito che il prestito concessogli era solo una scusa per acquisire l’azienda, ma è stato infiltrato nelle file del clan.

E così ogni sera, per otto lunghi mesi, dopo la giornata vissuta al fianco dei boss, scriveva il rapporto su affari, pestaggi, donne, droga e umiliazioni a cui aveva assistito. Un teatro dell’orrore in cui Antonio recitava la parte dell’impresario amico dei Casalesi, diventando il punto di riferimento economico del clan. Il cantiere della sua ditta era diventato il palcoscenico dove il boss Mario Crisci e suoi uomini mettevano in scena i peggiori abusi sugli imprenditori vittime dell’usura. 

“Utilizzavano il marchio del clan in franchising”, scherza in tono amaro Antonio che del Veneto ha visto il benessere ma anche la crisi economica che spinge molti imprenditori togliersi la vita e a tuffarsi nelle mani degli strozzini mafiosi. “Le due cose non sono slegate”, fa notare. A mettere in contatto l’imprenditore infiltrato con la società dei camorristi è un suo collega, già debitore del clan. “Sapeva che stavo cercando un prestito, e mi suggerì di andare all’Aspide, che senza troppe domande e garanzie mi avrebbe concesso tutti i soldi che chiedevo”.

Un pezzo tutto da leggere e conservare del bravo Giovanni Tizian per Repubblica che racconta come le mafie si sentano impunite in Veneto. Impunite non solo dal punto di vista imprenditoriale e giudiziario ma (e questo è l’aspetto terrificante) nei modi e nei costumi: nella superbia di “apparire” mafiosi, nella violenza esibita, nella retorica mafiosa utilizzata come materiale didattico.

Per lui la libertà è più forte della burocrazia, del pericolo, dell’indifferenza di tanti suoi colleghi che a testa bassa preferiscono non sentire, non vedere e non parlare di quel mostro criminale che divora pezzi interi di economia.