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Cordiali e proficui rapporti, non sporadici, con la criminalità mafiosa: la sentenza Dell’Utri secondo Gian Carlo Caselli

Dopo la dichiarazione di morte presunta del “concorso esterno” vigorosamente scandita dal PM Iacoviello nella sua requisitoria (si fa per dire…) nel processo Dell’Utri, molti erano ormai in trepida attesa dei funerali. Senonché, questa figura di reato non vuol saperne di tirare le cuoia. Essa infatti ha trovato nuova linfa proprio nella sentenza della Cassazione su Dell’Utri. Il succo della sentenza si trova alla pag. 129 delle complessive 146, là dove si legge che “in conclusione il giudice di merito (cioè la Corte d’appello di Palermo cui il processo è stato rinviato) dovrà esaminare e motivare se il concorso esterno sia oggettivamente e soggettivamente configurabile a carico di Dell’Utri anche nel periodo – 1978/1982 – di assenza dell’imputato dall’area imprenditoriale Fininvest;- e se il reato contestato sia configurabile, sotto il profilo soggettivo, anche dopo il 1982”, posto che – quanto all’elemento materiale – risultano pagamenti Finivest in favore della mafia protratti con cadenza semestrale o annuale fino a tutto il 1992 (pag. 128 della sentenza). Dunque, accanto a vari interrogativi, due importanti certezze: la prima è appunto che il concorso esterno è vivo, in barba alla tesi bislacca che nessuno più ci crede. La seconda è che l’imputato Dell’Utri è responsabile – in base a prove sicure – del reato di concorso esterno con Cosa nostra per averlo commesso almeno fino al 1978, operando di fatto come tramite di Silvio Berlusconi. Una realtà sconvolgente, di cordiali e proficui rapporti, non sporadici, con la criminalità mafiosa. E poiché le sentenze – emesse in nome del popolo italiano – sono motivate proprio perché il popolo possa conoscere e valutare i fatti che ne costituiscono la base, sarebbe lecito attendersi che si apra finalmente un serio dibattito su cosa mai sia successo in Italia in certi periodi. Altrimenti, facendo finta di niente anche per Dell’Utri (come già è avvenuto per Andreotti) potrebbero essere sostanzialmente legittimati – per il passato, ma pure per il presente e per il futuro – anche torbidi rapporti col malaffare mafioso.

Certo è che alla serietà del dibattito non contribuiscono le banalizzazioni, per esempio che il metodo giusto è quello che va dritto al risultato, altro che i processi alla Mannino e Carnevale… C’è invece da chiedersi perché –applicando sempre lo stesso metodo– i processi contro l’ala militare di Cosa nostra si concludono regolarmente con robuste condanne, mentre quelli agli imputati “eccellenti” hanno esiti assai più controversi (talvolta condanne, talvolta assoluzioni; spesso pronunce contraddittorie lungo i tre gradi di giudizio).

Dato di fatto da cui partire è che i PM sono gli stessi. Stessi uomini, stesso metodo di lavoro. Per cui, delle due l’una: o sono bravi quando si tratta di mafiosi “doc” e incapaci di fronte ad altri imputati, oppure la spiegazione sta altrove. Provare i delitti di mafia, prima di tutto, è relativamente più facile. Per quanto si tenti occultarne le tracce, un omicidio ne lascia. Per le collusioni, invece, non ci sono dna, esami medico-legali, perizie e consulenze. Tutto, anzi, è protetto dalla segretezza più assoluta, perché qui sta la vera forza del potere mafioso. Dunque la prova è oggettivamente più difficile. E può anche darsi che i criteri di valutazione della prova non siano sempre gli stessi. Ma non bastano queste difficoltà per rinunziare all’unico strumento incisivo contro la “zona grigia”, accontentandosi di qualche “ vittoria” ottenuta giocando al ribasso. In ogni caso, per trovare la spiegazione dello scarto si dovrebbero studiare le sentenze – tutte, quelle di condanna come quelle di assoluzione – e non giocare sulla disinformazione. Si vedrebbe che si è sempre indagato con rigore su fatti gravi riconosciuti storicamente esistenti anche dalle sentenze assolutorie: per cui le accuse di aver costruito teoremi ( che è poi l’essenza del “negazionismo” del concorso esterno, anche di quello che definisce perdita di tempo il farvi ricorso quando la strada è impervia) sono frutto di pigrizia se non peggio. E non si potrebbe far finta di dimenticare che il riconoscimento della bontà del suo operato il Pm lo ottiene tutte le volte che vi è il rinvio a giudizio da parte del Gip. È in quel momento che il giudice terzo riconosce che l’impianto accusatorio è consistente e va perciò sottoposto alla verifica dibattimentale. Ma in questo Paese si fa come se il Gip neanche esistesse. Meglio prendersela con i Pm, soprattutto se praticano strade che altri non imboccano perché scomode.

Gian Carlo Caselli