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Cos’è la bellezza? Mag Magazine intervista Giulio Cavalli

Pubblicata su Mag Magazine

Cos’è la bellezza?
Un campo in cui non si possono comprare le mediazioni, in cui non è concesso il servilismo e nemmeno la prostituzione. Davanti alla bellezza chi non è intellettualmente onesto e pulito di cuore non è credibile.

Quando ti senti veramente libero?
Sul palcoscenico, è il mio naturale momento di liberazione. Il recupero di un rapporto visivo e tattile con la gente. La celebrazione del rito laico dell’esercizio collettivo della memoria. In scena entro in uno stato confusionale creativo che è solo parola. Non esiste altro. La parola e il respiro e le reazioni del pubblico.

Negli anni è cambiato il tuo concetto di libertà?
Sicuramente. Ho sempre urlato – e continuerò a farlo – contro la censura in generale ma mi sono ritrovato troppo spesso a contatto con persone che si autocensurano, che ritengono più comodo dire una frase in meno o un cognome in meno. Ecco, la libertà è non paventare in nessun modo la possibilità dell’autocensura.

Guardando al passato cosa è rimasto come prima e cosa è totalmente cambiato?
È rimasta intatta la voglia di non scendere a compromessi nella stesura e nella visione degli spettacoli e dei libri. Sono nato “di parte” (dove per parte si intende la responsabilità di prendere una posizione all’interno della storia che racconto) e continuo ad impegnarmi e a non prendermi troppo sul serio (altrimenti il rischio sarebbe quello di piegarsi sulla narrazione di me piuttosto che raccontare i fatti). Oggi sicuramente la responsabilità che sento è esponenzialmente maggiore. Ma è un dazio dolce da pagare: significa che il mio pubblico e i miei lettori hanno deciso di affidarmi un compito che mi onora.

Perché vivi sotto scorta?
Perché siamo nel Paese in cui cinquecento anni fa i miei colleghi cantastorie venivano impiccati. E addirittura sepolti da indegni fuori dalle mura della città insieme alle prostitute (e pensare che oggi un giullare e una prostituta sono nella stessa assemblea legislativa). Il potere non sopporta di essere raccontato nella sua pateticità quando ha bisogno di diventare prepotente per governare perché non è in grado di farlo secondo le regole.

Qual è il tuo rapporto con la paura?
Molto privato e molto combattuto. La vera paura è il ritrovarsi solo.

Ti senti solo?
Spesso. Più a causa degli amici falsi cortesi che dei miei nemici dichiarati.

Se potessi tornare indietro rifaresti tutto?
Assolutamente si , perché mi ritengo un privilegiato, una persona che ha la fortuna di lavorare con gente straordinaria. Ho un pubblico che mi ascolta e questo è il sogno di qualsiasi attore e di qualsiasi scrittore; ho la fortuna di riconoscermi nella battaglia che porto avanti e in qualsiasi cosa faccio. Sono molto contento.

Ti alzi mai la mattina chiedendoti “ma ne valeva la pena”?
Sì, perché non farei mai tutto questo se non sapessi che un giorno i miei figli potranno goderne i frutti e perché c’è un articolo della Costituzione, che è l’articolo 4, che dice che ognuno di noi nella propria professione deve concorrere e ha il dovere di farlo alla crescita materiale e spirituale di questo Paese e, quindi, stare in silenzio è anticostituzionale.

Come vivi sotto scorta?
Normalmente, perché ci sono 670 persone sotto scorta in Italia, perché ci sono persone che rinunciano nei quartieri più difficili di Palermo di pagare il pizzo, magari dei panettieri, e non hanno la visibilità che tutela, invece, un personaggio come me. Io ho sempre sentito l’obbligo di utilizzare il mio aspetto pubblico non per fare ombra a queste persone, ma per illuminare storie che forse sono meno spendibili di quelle dell’attore o dello scrittore.

Quali sono stati i tuoi maestri?
Nel teatro penso a Paolo Rossi. È stato il mio primo incontro e sicuramente ha segnato una svolta. Poi negli anni penso all’incontro con Dario Fo e alla collaborazione su un suo testo. È stata l’unica volta che ho portato in scena un testo non mio. Poi penso a Renato Sarti, un esempio di teatro applicato alla cittadinanza che tanto mi ha insegnato e continua ad essere per me un riferimento non solo sulla scena, ma anche e soprattutto nella vita.

Perché, nell’ultimo tuo libro e spettacolo teatrale, hai deciso di raccontare la storia di Andreotti?
Perché è ancora attuale. Non mi interessa la sua storia in quanto tale, ma l’Andreottismo e i nuovi Andreotti. Per riconoscere i politici che fanno politiche convergenti con le mafie bisogna prima capire come funzionava l’originale.

Chi sono i nuovi Andreotti?
La vicenda di Dell’Utri è molto vicina a quella di Andreotti. I nuovi Andreotti sono tutti i politici che decidono di fare delle scelte politiche consultandosi non negli organi istituzionali ma nell’ombra, che potremmo definire osceno, ovvero fuori scena. Dove non possono essere visti da nessuno. Abbiamo migliaia di esempi.

C’è un collegamento tra il tuo essere scrittore e, allo stesso tempo, consigliere regionale di “Sel”?
Sì, nella scrittura teatrale ho sempre trattato temi fortemente politici. I miei spettacoli o libri hanno una chiara presa di posizione politica. Gramsci diceva che il buon politico deve essere un ottimo drammaturgo, perché deve riuscire ad immaginare il riflesso di qualsiasi scelta politica nella drammaturgia dei cittadini. Il teatro e i libri sono luoghi in cui si cerca di dare delle chiavi collettive su alcune problematiche, che è una cosa che dovrebbe fare la politica.