Su Repubblica, oggi:
Nella democrazia contemporanea (quella italiana in modo molto visibile) i partiti politici, essenziali attori del sistema rappresentativo fin dalla sua apparizione nell’Inghilterra dei Seicento, hanno mutato la loro funzionema non sono finiti come spesso si sostiene; a questa loro mutazione è corrisposta una trasformazione della democrazia da rappresentativa a plebiscitaria. Il nuovo plebiscitarismo non è quello delle masse mobilitate da leader carismatici ma quello dell’audience, l’agglomerato indistinto di individui che compongono il pubblico, un attore non collettivo che vive nel privato della domesticità e quando è agente sondato di opinione opera come spettatore di uno spettacolo messo in scena da tecnici della comunicazione mediatica e recitato da personaggi politici. La personalizzazionedel potere e della politica è un sintomo e un segno di questa mutazione. Circa la trasformazione dei partiti, essa riguarda il loro dimagrimento democratico al quale corrisponde un’obesità di potere materiale effettivo nelle istituzioni dello stato, come ha mostrato Mauro Calise. Non è per questo convincente presentare la democrazia dei partiti come una fase, ormai tramontata, della storia del governo rappresentativo (questa è la tesi sostenuta da Bernard Manin). Vero è che essa è diventata a tutti gli effetti una democrazia “dei” partiti invece che “per mezzo dei” partiti.
Il declino del partito-organizzazione ha corrisposto alla crescita del partito-spugna che segue gli umori popolari e li alimenta ad arte per meglio guadagnare consenso. Il partito cosiddetto liquido è di difficile controllo da parte di simpatizzanti e iscritti (i quali non dispongono del resto di strutture e regole per l’articolazione interna del dissenso e del controllo) e funzionale all’esaltazione della persona del leader; può farsi istigatore di politiche populistiche, se trova ciò conveniente, invece di essere una diga che le argina come era il partito-organizzazione. Questo slittamento a liquidità e professionalizzazione sondaggistica fa sì che la democrazia “dei” partiti sia una democrazia protesa verso forme politiche plebiscitarie. E’ questo l’aspetto che fa da retroterra alla trasformazione dalla democrazia del partiti al plebiscito dell’audience.
La democrazia del pubblico o plebiscitarismo dell’audience fa leva sul mutamento di significato del “pubblico” da categoria giuridico- normativo (ciò che pertiene allo stato civile) a categoria estetica, come di ciò che è esposto alla vista e esistente in senso teatrale. Alla centralità della voce (partecipazione come rivendicazione e autonomia) fa seguito la centralità del giudizio spettatoriale, una forma di politica che si modella sul foro romano invece che sull’agorà ateniese. La rinascita di interesse per le idee che pilotarono la crisi del parlamentarismo nei primi decenni del ventesimo secolo — quando la concezione plebiscitaria prese una configurazione alternativa alla democrazia rappresentativa — è un’indicazione preoccupante del nuovo filone di ricerca teorica e applicazione pratica interno alla democrazia contemporanea, un filone ancora una volta critico nei confronti della struttura parlamentare e della funzione mediatrice dei partiti politici. Il declino della democrazia del partito politico e la crescita della democrazia del pubblico
corrisponde a una evidente personalizzazione della leadership edello stesso discorso democratico a cui fa eco una concezione della politica come macchina per la creazione della fiducia nel leader. La crescente attenzione per le elite e per un incremento del potere esecutivo rispetto a quello parlamentare è in sintonia con questo mutamento interno alla democrazia. Un aspetto non ancora studiato sta nel declino della politica come esercizio di autonomia a favore della politica come azione giudicante. Nel primo caso la “voce” era l’organo di un’azione collettiva che voleva essere di comprensione, discussione, contestazione e proposta; nel secondo caso, l’organo egemone è l’“occhio”, con la richiesta di trasparenza (del mettere in pubblico).
Il plebiscitarismo dell’audience risulta in un divorzio interno alla sovranità tra il popolo come insieme di cittadini partecipanti (con ideologie, interessi e l’intenzione di competere per conquistare la maggioranza) e il popolo come un’unità impersonale e scorporata che ispeziona e giudica il gioco politico giocato da alcuni e gestito da partiti elettoralistici. La partigianeria non è espulsa dal dominio della decisione; è espulsa dal forum, nel quale il popolo sta come una massa indistinta e anonima di osservatori che guardano soltanto e non chiedono più partecipazione. La de-costituzionalizzazione che questo nuovo plebiscitarismo comporta riposa sull’assunto che il vero controllo democratico sia l’occhio popolare invece che le norme e gli istituti giuridici. Eppure, come ha dimostrato l’Italia nell’era Berlusconi, non sempre questo basta.
Il paradosso di insistere sul fattore estetico dell’opinione pubblica a spese di quello cognitivo e politico-partecipativo — sull’occhio invece che sulla voce — è di non tener conto del fatto che le immagini sono la sorgente di un tipo di giudizio che valuta gusti più che fatti politici, ed è quindi irrimediabilmente soggettivo e politicamente inetto. Il passaggio dal discutere e dibattere (e votare sui programmi e quindi per mezzo di partiti-organizzazione) al guardare e giudicare stando in una posizione spettatoriale (reagire agli stimoli prodotti dal leader e dagli esperti di comunicazione del partito liquido) corrisponde a un segno di malessere della democrazia rappresentativa più che a una sua maggiore democratizzazione.
(Il testo è una sintesi del saggio “Dalla democrazia dei partiti al plebiscito dell’audience” che uscirà su “Parolechiave” a cura di Mariuccia Salvati, dedicato a “Politica e partiti”)