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La smoderatezza linguistica dei moderati

Ragionamento che parte da una premessa: le parole della politica sono intrise di significati e quelli effettivi molto spesso non coincidono con quanto si intende far apparire. Il termine “moderato” è uno dei più classici esempi di questa polisemia ad uso mistificatorio. Come dovrebbe aver dimostrato l’uso/abuso che ne ha fatto –

attribuendosi tale titolo – uno smodato cronico quale Silvio Berlusconi, sdoganatore di tutte le nuance di fascismo disponibili, legittimatore in proprio o per interposta persona (da Dell’Utri a Lunardi) della malavita organizzata, machista fallocrate a livelli deliranti…

Certo, a confronto di siffatto personaggio chiunque risulterebbe cultore dell’equilibrio, ossia la connotazione che si vorrebbe attribuire all’essere moderati. Equilibrio come scelta della via di mezzo, in base alle indicazioni di una saggezza disinteressata che tiene conto di tutti e non vuole penalizzare nessuno.

Ma è questa la ricetta praticata dai presunti moderati? In effetti risulta esattamente il contrario; sicché quella connotazione psicologica che viene proclamata (la moderazione dovrebbe essere uno stato d’animo), in effetti è una maschera per realizzare politiche al servizio di specifici interessi. E a danno di ben chiari soggetti.

Insomma, un’abile costruzione comunicativa per turlupinare il corpo elettorale e incamerare consensi maggioritari da investire in politiche vantaggiose per minoranze di privilegiati. Una storia che va avanti da quando il suffragio universale ha obbligato il Potere a sostituire l’intimidazione diretta, esercitata sui corpi, con la manipolazione delle menti. Comunque, storia che è tornata a rinverdire negli anni Ottanta, con l’attacco allo Stato Sociale: il compromesso reaganiano che assicurava ai meno abbienti di accedere ai consumi grazie all’indebitamento consentito dal credito facile, andato in tilt con l’esplosione delle bolle finanziarie.

Pierfranco Pellizzetti sulle parole che in Politica sono importanti.

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