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29 anni fa: Pippo Fava

Ricorrono oggi i ventinove anni dall’assassinio di Pippo Fava. In occasione dell’anniversario, riporto qui un estratto del mio libro NOMI, COGNOMI E INFAMI (Verdenero, 2010) , dedicato anche alla sua vicenda.

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PIPPO FAVA 2Ho riso incazzato sulle parole di Peppino Impastato, ho studiato con meraviglia l’integrità politica di Pio La Torre ma, più di tutto, sono rimasto incastrato per stima sulla vita di Pippo Fava. Incastrato da una stima immobilizzante che mi consola. Sarà che Giuseppe Fava era un giornalista, un drammaturgo, uno scrittore e un politico anche senza scranno. Politico nel senso di guardare la politica negli occhi e scriverne senza smancerie. Sarà che Pippo Fava l’ho visto per la prima volta in una fotografia in bianco e nero  con quel naso troppo grosso sopra una barba tagliata male mentre si apre in un sorriso pensieroso. Sarà che se c’è una forma che mi colpisce è sempre stato un uomo serio che riesce a distendere un sorriso.

O forse di Pippo mi colpisce soprattutto il carisma. Il carisma che non si riesce mica a sparare anche se l’hanno provato ad ammazzare a Catania il 5 gennaio del 1984. Un direttore che si è inventato il suo giornale (I Siciliani) che ancora oggi continua a vivere nelle penne dei suoi “carusi” che, ormai cresciuti, militano nelle testate più diverse del nostro panorama. Un giornale mica fatto solo con la carta da giornale ma vissuto come una missione. Un giornale con una stanza di militanti e senza nemmeno i pennivendoli. Lo racconta bene il suo ex collega Riccardo Orioles: “Chi non ha sentito parlare dei Siciliani di Giuseppe Fava? Un piccolo giornale, eppure ancora oggi – trent’anni dopo la fondazione – quando si parla di giornalismo antimafia si pensa a loro. Un giornale “anti” mafia ma in realtà “per” un sacco di altre cose. La democrazia della “polis”, i diritti dei poveri, la pace, il riscatto del Sud come rinnovamento profondo politico e morale: quante cose stavano in quelle duecento pagine che ogni mese uscivano, senza pubblicità e senza stipendi, da una città della Sicilia per parlare all’Italia intera!

È una storia lunghissima, quella di Pippo Fava e dei suoi “carusi”; non è mai finita. Vive tuttora in tanti gruppi di giovani – professionali e “militanti”, come allora”. Il proprio lavoro vissuto come l’unico vestito disponibile nell’armadio. Fieramente incapace di smetterlo e di dismet terlo. L’editoriale del primo numero de I Siciliani nel 1983 è il manifesto di una vita. Scrive Fava

“I Siciliani vengono avanti nel grande spazio della informazione e della cultura, nel momento preciso in cui il problema del Meridione è diventato finalmente, anzi storicamente, il problema dell’intera Nazione…I Siciliani vuole essere appunto il documento critico di una realtà meridionale che profondamente, nel bene e nel male, appartiene a tutti gli italiani. Un giornale che ogni mese sarà anche un libro da custodire. Libro della storia che noi viviamo. Scritto giorno per giorno”. Giorno per giorno, con quella quotidianità della battaglia che è il sale di tutte queste storie. La concezione etica del proprio lavoro come unica strada percorribile. Ogni tanto, quando mi prende lo sconforto, rileggo Fava nel silenzio della mia solitudine che non ha mai meno di tre persone. Leggo la sua caparbietà che ha la forma di un polso forte. Ripenso a quel sorriso nonostante (come diceva spesso lui stesso) “qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, per dìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…”

C’è un’altra dichiarazione che oggi, in questo paese in alcuni pezzi ancora così disgraziato e analfabeta (o colluso) sulla questione delle mafie, andrebbe stampata e distribuita fuori dalle scuole, sopra i tram o dentro i bar. È dell’undici 1981 ottobre mentre Fava dirigeva il Giornale del Sud.

«Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento! Ecco lo spirito politico del Giornale del Sud è questo! La verità! Dove c’è verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà! Se l’Europa degli anni trenta-quaranta non avesse avuto paura di affrontare Hitler fin dalla prima sfida di violenza, non ci sarebbe stata la strage della seconda guerra mondiale, decine di milioni di uomini non sarebbero caduti per riconquistare una libertà che altri, prima di loro, avevano ceduto per vigliaccheria.  È una regola morale che si applica alla vita dei popoli e a quella degli individui. A coloro che stavano intanati, senza il coraggio d’impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: “Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, nè la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!”».

Vorrei riuscire a tenermelo sempre nel portafoglio, questo suo spirito. E poi sarà che sono inchiodato su Pippo Fava perché anche lui ha dovuto subire l’onta di una morte distorta e calpestata. Fava viene ucciso alle 10 di sera del 10 gennaio 1984. Era in auto per andare a prendere la nipote che stava calcando le scene del Teatro Verga di Catania. Mi gioco tutto che era in auto con la soddisfazione a forma di sorriso della vecchia foto in bianco e nero, con una nipotina che seguiva le orme dello zio che i teatri li aveva abitati con la giacca del drammaturgo. In via dello stadio gli sparano cinque pallottole calibro 7,65 alla nuca. Come si usa per le bestie prima di passarle al macello. In Catania rimbombavano ancora le parole dell’articolo su “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, un pezzo sulle attività illecite di quattro imprenditori catanesi, Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, e di altri personaggi come Michele Sindona collegati al boss Nitto Santapaola. Addirittura dopo quell’articolo Rendo, Salvo Andò e Graci avevano cercato di comprarsi il giornale, per zittirlo. Non si era ancora spento l’eco degli spari che già colava fango sopra al cadavere: il sindaco Angleo Munzone sposò subito la tesi dei giornalisti che parlavano di delitto passionale (tesi sostenuta sulla base dell’arma diversa da quelle solitamente usate per delitti mafiosi). L’onorevole Nino Drago addirittura esibì la propria pochezza istituzionale chiedendo una chiusura rapida delle indagini perché “altrimenti i cavalieri potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al Nord”. Ma la denigrazione che mi più mi sanguina e mi lascia questo nodo alla gola è un passo di due articoli de La Sicilia nei giorni successivi alla morte. Quando li ho letti per la prima volta ero nel pieno della frana di silenzio e minaccia che mi aveva seppellito la famiglia e passavo ore a provare a raccontare il mio lavoro sempre in bilico tra la notizia, la scena, la parola, la risata e la favola. Sbattevo la testa per difendermi dal recinto dell’attore in cui sarebbe stato facile sminuirmi. Gridavo che era un gesto insulso e senza dignità. Non lo credevo possibile, prima di leggere gli articoli di Tony Zermo su Pippo Fava

“L’hanno ucciso da mafiosi. E non è facile capire il motivo, perché lui era sì scrittore di mafia, era sì uomo libero, e battagliero, ma era soprattutto un artista. […] Non era per naturale vocazione un inquisitore della mafia, era un uomo a cui piaceva profondamente vivere[…] Si possono fare tante ipotesi sul perché è stato ucciso. Tutto lascia credere che si tratti di un agguato mafioso. Ma perché la mafia ha deciso di eliminarlo? Cosa ha fatto, cosa ha scritto che ha portato alla sua eliminazione? Forse per le sue ultime parole pronunciate nell’ultima trasmissione  di Enzo Biagi?[…] Lui vedeva la mafia da artista[…]”. “Probabilmente bisognerà cercare, si dovrà cercare in quello che ha scritto sulla sua rivista[…] E però anche in questa direzione si troverebbe poco perché lui non aveva scoperto nulla di particolarmente importante[…] Sono parole di un uomo di cultura, di un giornalista che vede la realtà con l’occhio dello scrittore civilmente impegnato: ma non sono denunce precise, non ci sono nomi e cognomi, non c’è nulla che possa far presumere un delitto per ritorsione[…] Rappresentava un pericolo non per quello che aveva scritto, ma per quello che poteva ancora dire o scrivere[…] Non è facile, comunque, capire questo delitto[…]”.

Dentro la storia di Pippo Fava ci vedo il riflesso della stessa pochezza.