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Andarsene da qua (la mafia e l’imprenditoria in Lombardia)

Quante volte abbiamo sentito parlare di mafia e politica in Lombardia? Tante. Tantissime.
Quante volte abbiamo parlato di riciclaggio nelle attività lombarde? Tante. Tantissime. Quasi ogni giorno si legge di una confisca o qualcosa del genere.
Che pensiero diffuso abbiamo costruito? Se chiedete in giro vi diranno che le aziende (che siano bar, ristoranti, edilizia o centri commerciali) sono utilizzate per riciclare il denaro delle cosche. È la lettura che ne viene data anche in forbiti convegni con ottimi buffet.
Ma manca un pezzo, quello che conta di più ma viene raccontato meno. Niente di nuovo, per carità: qui al nord si racconta la mafia quando sta alla mafia, alla violenza o al sopruso e mai quando dentro alla storia ci sta invece un accordo con gli imprenditori lombardi che cedono al business facile e si scelgono la mafia come socia in affari. Funziona così: quando c’entrano nelle colpe le categorie che è sempre meglio raccontare come vittime allora la storia evapora, scompare oppure nel migliore dei casi rimane confusa con altisonanti i nomi dei boss e appena appena le iniziali degli altri. È facile, no?
La vicenda della Blue Call e della cosca dei Bellocco non ha “bucato” il sentimento dell’antimafia sociale. Ne avevamo parlato qui, se n’è letto sui quotidiani e sui siti per qualche giorno ma appena sono passati i tempi della cronaca è rientrata nei cassetti dei “fatti digeriti”.
Abbiamo provato a farne un grido nel nostro spettacolo D’uomo d’onore:

Immagina che cadano le regole del lavoro, come se quello che sai non sia davvero come lo sia.
Immagina che il tuo concorrente vincerà sempre. Immagina che i tuoi figli studieranno e coltiveranno il talento per avere fortuna in un lavoro in cui hanno già perso perché qualcuno farà lo stesso lavoro ma per spendere e non per guadagnare, con le loro regole senza le regole. Immagina tre o più persone che inseguono il proprio bene privato a discapito delle regole e del bene pubblico. Immagina l’articolo del codice penale, il 416 bis, qui, a Milano.
Controllare lavoro, gestire persone, stipendiare consenso con la paura: mafie imprenditoriali che con contratti a termine, terminati con le botte e il calcio di una pistola. Imprenditori sfiniti e imprese svuotate. La Lombardia che lavora gocciola sotto i colpi della propria spericolatezza esibita come una medaglia e oggi fragilità indifendibile.
“Assumendo persone e procurando lavoro la ‘ndrangheta acquista consenso, dimostrando di essere in grado di fare quello che lo Stato non sa fare”. Lo scrive il GIP Giuseppe Gennari a pagina 296 dell’ordinanza di custodia cautelare contro il giovane boss Umberto Bellocco che ha scalato la Blue Call, una società leader nel settore dei call center. L’obiettivo è chiaro: prendersi aziende in salute da utilizzare come strumento di potere. E non importa che gli assunti, poi, abbiano capacità professionali, ciò che conta è averli a disposizione quando servono. Loro e le loro famiglie. Emilio Fratto è un commercialista e consulente del lavoro (attualmente latitante). Sarà lui a portare Ruffino dai Bellocco. Dopodiché dalla cosca riceverà il compito di gestire la Blue call. Eppure, nonostante questa promozione sul campo, lo stesso Fratto si lamenta di come “con questa gente non si può mai costruire perché (…) pensano che loro sono in quattro e ti portano dieci persone”. Il senso è chiaro: “Se io tolgo le persone perché devo diminuire i costi, non è che posso aggiungere altri costi (…) Se io tolgo delle persone, è perché non mi servono”. La ‘ndrangheta fa il ragionamento opposto: aggiungere persone perché servono ad aumentare il potere sociale del clan.
Insomma, le aziende, in particolari quelle lombarde (come già fu la Perego strade), non servono per riciclare. Nella Blue call Longo e compagni non ci metteranno un euro. Il loro obiettivo è il potere. Un diamante in più da aggiungere alla loro corona di imperatori. Perché tali si comportano in Calabria, ma anche al nord. E l’ultimo capitolo della storia centenaria dei Bellocco racconta proprio di questo. Di una bella classe imprenditoriale lombarda “che – scrive Gennari – apre le porte alla mafia”. Con le cosche gli imprenditori “bauscia” all’inizio guadagnano, quindi si illudono di cacciare i calabresi con una buona uscita. Ma la ‘ndrangheta non vuole soldi, vuole potere per rinforzare il suo Stato.
C’è una frase che colpisce e scolpisce il senso degli affari di ‘ndrangheta in Lombardia. La pronuncia sdegnato e fiero Michele Bellocco, lo zio del potente, rampante e giovane Umberto, una frase secca: “Stavano facendo una legge – ragiona Michele Bellocco, zio del giovane Umberto – : o ci confiscate i beni, o ci date la galera! Decidete una cosa ce la prendiamo! Poi vuoi la libertà, ti vuoi prendere a libertà, prendetevi la libertà!”. Il boss parla nella casa di Giuseppe Pelle, il capo dei capi della ‘ndrangheta di San Luca. “Volete i beni, lasciateci liberi per farci gli altri” perché “la pagnotta la dobbiamo scippare o in una maniera o in un’altra, che dobbiamo fare!”.
Immagina l’imprenditoria lombarda tramortita e illusa. Immagina l’etica che scappa dalla porta di servizio prima che riaccendano le luci in sala e intanto scorrono i titoli di cosa. Immagina di sapere che quello che hai sempre pensato di avere saputo in fondo racconta una storia che è un’altra storia. Giù al nord. Cuore della Lombardia.

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