Vai al contenuto

«Le parole servono a responsabilizzare chi ne fa uso»: una mia intervista

La mia intervista per Matteo Bianchi de La Nuova Ferrara:

Schermata 2014-07-31 alle 17.38.30di Matteo Bianchi

L’autore forestiero che questa sera, alle 21.30, incontrerà il pubblico di una favoleggiata corte estense dentro il Giardino delle Duchesse, è di punta fine. Il milanese Giulio Cavalli, infatti, parlerà dei libri . L’innocenza di Giulio(Chiarelettere) e Fronte del palco (Editori Riuniti). E si sa, quando la penna è raffinata, ciò che ne risulta è altrettanto, o quantomeno si difende. Cavalli si difende senza abbassare la guardia dal mondo. E pur essendo costretto a vivere sotto scorta e a recitare “sotto tiro”, non ha rinunciato alla cultura, certo a quella personale, ma di più a quella potabile da tutti.

Cosa significa vivere sotto scorta?

«In Italia abbiamo tantissime persone sotto tutela: gli ultimi dati ufficiali ne indicano circa 800. E questo “grande fratello” degli scortati non fa bene, né all’antimafia, né alla cultura. Perciò, piuttosto che parlare della mia situazione, mi sento di chiedere maggiore attenzione sui testimoni di giustizia, su tutti coloro che hanno assai più difficoltà a raccontare la loro storia. Il fatto che la parola faccia paura, indipendentemente da chi ne sia il portatore, credo sia una responsabilizzazione nei confronti di chi ne fa uso».

“Fronte del palco” è un’intervista che inquadra l’attenzione della mafia per l’eco del palcoscenico. Perché?

«Negli ultimi anni si è scoperto che la criminalità può avere paura anche di altre forme che non siano militari o giudiziarie. Non teme più solo carabinieri e magistrati, ma teme anche la società civile quando si organizza. E questo è un buon segno. Il titolo è stato scelto dall’autore per mettere a fuoco la “parte” di chi sta fuori dal palco. La mia è una situazione che dipende sì da ciò che scrivo, ma soprattutto da chi viene a vedermi. Il mio pubblico non è immune da responsabilità».

In che modo è cresciuto in lei il legame tra politica e teatro?

«Il problema nostro sono le dinamiche partitiche, più che politiche. E faccio un lavoro profondamente politico, al di là che io fossi dentro a un’istituzione. Quando interpreto a teatro un fatto di cronaca, o un male contemporaneo, prendo posizione. Non faccio spettacoli per informare sulla criminalità organizzata, li faccio contro».

Ma il rapporto col partito?

«Mi impegnerei molto poco nel congresso di un partito; l’affiancamento della recitazione all’attività politica, nel caso della Regione Lombardia, è stata una prosecuzione naturale. Vedo uno spesso filo rosso tra le due attitudini nel momento in cui si ha la possibilità di invocare a gran voce una legge e di lavorarci nelle stanze idonee».

Sebbene lei abbia lo stesso nome, “L’innocenza di Giulio” è un titolo assolutamente sarcastico, vero?

«Cosa vuoi farci… scavando, ognugno di noi troverebbe degli omonimi di cui non andare fiero. Certamente, la grande colpa del nostro paese e della generazione dei nostri padri, è stata di avere permesso non solo ad Andreotti di fare ciò che ha fatto e di non parlarne, ma di accettare la costruzione dell’enorme bugia del “Giulio perseguitato”.

E si è instaurato un meccanismo diabolico…

«È un meccanismo a cui fare attenzione, perché passa Andreotti, poi l’ “andreottismo” come metodo d’intendere la politica , e l’innocenza quale bugia ripetuta mille volte fino a diventare verità. E mi preoccupa specialmente per la generazione dei miei figli, essendo un modello molto attuale, soltanto perpetrato con un po’ più di eleganza».

Salutiamoci con la lettera del grande Fortini che ho letto sul suo blog. Anche se Fortini ringhia che mai avrebbe stretto la mano a uno come Sgarbi. Condivide? 

«Fortini era un poeta “di” Sinistra e oggi siamo abituati a intellettuali “della” Sinistra. A libro paga. E sono estremamente d’accordo, perché l’intellettuale dovrebbe essere chi ha gli occhi più acuti e allenati per distinguere una mediazione da un compromesso».