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Soffre troppo

Giulio Lampada, a sinistra
Giulio Lampada, a sinistra

Lo avevano definito il moderno rappresentante dell’alleanza tra mafia e zona grigia. Un boss in giacca, cravatta e smartphone capace di gestire a Milano i rapporti con politici, massoni e giudici (compresi i magistrati Vincenzo Giglio e Giancarlo Giusti) per conto del potente clan Condello della ‘ndrangheta.
Giulio Lampada, 43 anni, è stato arrestato tre anni fa a Milano e condannato in Appello a 14 anni e 5 mesi per associazione mafiosa. Pena che ora il boss sconterà ai domiciliari in una comunità terapeutica in provincia di Savona. Così ha deciso il Tribunale del riesame di Milano, al termine di una lunghissima battaglia legale sostenuta dai difensori Giuseppe Nardo e Giovanni Aricò. Il motivo? Il boss è terrorizzato dalla galera. Per i giudici, Lampada ha la fobia del carcere e degli ospedali. E visto che in questi anni di detenzione ha manifestato «istinti autolesivi, depressione, stati d’ansia e rifiuto di assumere psicofarmaci», la sola struttura adatta a curarlo è una comunità terapeutica. Struttura dove, come riportato nelle dieci pagine della sentenza, «non ci sono guardie e sbarre» né «corsie, camici bianchi, giro dei medici, odore di medicinali e disinfettanti». Un luogo ideale per «far venir meno gli aspetti persecutori del carcere».

Una decisione motivata da una serie di perizie (quelle della difesa affidate alla coppia Bruno-Meluzzi) che hanno certificato «un disturbo depressivo, di conversione somatica, di evitamento a contenuto multiplo» aggravato dal fatto di trovarsi chiuso in una cella. Quando lo scorso luglio Lampada era stato ricoverato all’ospedale di Voghera, sempre su decisione del Tribunale di Milano, si era presentato allo psichiatra su una sedia a rotelle «con espressione quasi allucinata». «Il pensare all’odore dei medicinali, l’essere in mezzo ai malati mi angoscia», aveva raccontato. Poi dopo un tentativo di sciopero della fame durato solo 5 giorni, aveva smesso di lavarsi: «Il suo stato lo spingeva a rimuginare ossessivamente sulla sua vicenda giudiziaria. Il carcere stimolava l’emergere di fantasmi persecutori».

(fonte)