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Il pessimo Stato dell’antimafia

Avevamo già parlato di Calì in una passata puntata di Radiomafiopoli ma le ultime notizie rendono ancora più tragicomico il corso degli eventi. Questo Stato non riesce proprio ad essere credibile. No. Ecco l’articolo di Giuseppe Pipitone:

Questa è una storia di estorsioni, di minacce di morte, di auto incendiate, di immobili sequestrati da agenti della forestale poi finiti agli arresti, di boss mafiosi come Sergio Flamia, oggi pentito, che fanno da confidenti ai servizi e nel frattempo vanno in giro a chiedere il ”pizzo”. Una storia piccola, cominciata tra Altavilla Milicia e Casteldaccia, in provincia di Palermo, e finita in Senato, oggetto d’interrogazioni parlamentari al ministero dell’Interno, e alla prefettura di Milano, all’ordine del giorno di vertici sulla sicurezza. È infatti dal capoluogo lombardo, che nel 2009 Gianluca Calì, originario di Casteldaccia ma residente a Milano, decide di venire ad aprire in Sicilia una succursale della sua concessionaria d’automobili: la Calicar di Altavilla Milicia. “Volevo provare ad investire nella mia terra” spiega oggi, dopo essere finito in un corto circuito al centro tra le minacce di Cosa nostra e la folle burocrazia dello Stato.

Il pizzo di Flamia
In Sicilia, Calì decide anche di comprare all’asta una villa vicino Casteldaccia: due piani da 160 metri quadrati l’uno. “L’idea era quella di trasformarla in una struttura ricettiva, che potesse creare un minimo di ricchezza per la nostra terra, dare lavoro e incrementare l’indotto turistico della zona” racconta. Quella villa però non è una casa qualsiasi: apparteneva allo storico padrino di Bagheria Michelangelo Aiello, che la condivideva con Michele Greco, il Papa di Cosa Nostra. Non è mai stata confiscata perché era ipotecata ed è quindi passata ad un istituto di credito che ad un certo punto la mette all’asta. “Poco prima di presentare la mia offerta, ricevo la visita di alcuni personaggi”, racconta Calì. Si presentano come “eredi dei precedenti proprietari” e chiedono all’imprenditore di “lasciar perdere quella casa”. Ma lui non appare per nulla impressionato: “Risposi di ripetere le loro parole davanti ad un giudice – spiega – poi mi aggiudicai la casa”.
Da quel momento Calì finisce dentro ad un tunnel di intimidazioni e minacce. Il 3 aprile alcune automobili della sua concessionaria vengono incendiate: passano tre mesi e nell’autosalone di Calì si presenta un uomo. “Dice di chiamarsi Flamia, di avere bisogno di denaro per aiutare alcuni parenti detenuti”, racconta l’imprenditore, che si oppone alla richiesta estorsiva, ripetuta poi per altre due volte ad ottobre. Sergio Flamia è un uomo d’onore di Bagheria, autore di una quarantina di omicidi, che quando va da Calì a chiedere il pizzo è già da anni un confidente a libro paga dei servizi segreti: dall’intelligence, il boss bagherese avrebbe ricevuto persino 150 mila euro in contanti. Di Flamia e del pizzo chiesto a Calì si è parlato mercoledì scorso anche nell’ultima seduta della commissione parlamentare antimafia, quando a Palazzo San Macuto sono stati ascoltati i pm Leonardo Agueci, Vittorio Teresi, Nino Di Matteo e Francesca Mazzocco. I verbali della seduta sono stati secretati.

La villa dei boss sequestrata da forestali infedeli
Nel febbraio 2013 il vortice dell’imprenditore diventa ancora più nero. La villa che fu dei boss Aiello e Greco, e che Calì vuole trasformare in una struttura alberghiera, viene sequestrata da due ispettori della Forestale. “Stato grezzo e in corso d’opera”, scrivono nel verbale di sequestro, come se lo stabile fosse stato costruito di sana pianta in maniera abusiva. Così non è, perché quella villa esiste dal 1965, e Calì sta solo facendo dei lavori di ristrutturazione. Fa opposizione al sequestro e il 4 marzo 2013 ritorna in possesso dell’immobile. Gli ispettori della Forestale però non demordono. E il 15 marzo sequestrano di nuovo la villa con le stesse motivazioni. Solo un errore burocratico? Il verbale di sequestro porta due firme: sono gli ispettori della Forestale di Bagheria Luigi Matranga e Giovanni Coffaro. Che a fine marzo 2013 finiscono coinvolti in un’inchiesta della procura di Palermo: al centro dell’indagine proprio i ricatti di alcuni dipendenti della Forestale di Bagheria nei confronti degli abitanti della zona: richieste di denaro dietro la minaccia del sequestro di immobili. “Una vicenda – scrive il gip Angela Gerardi nell’ordinanza di custodia cautelare– in cui emerge lo scarso se non inesistente senso del dovere e indegno esercizio del potere che interessa alcuni componenti dell’ufficio del corpo forestale (tra questi viene citato proprio Giovanni Coffaro) e l’irresponsabile comportamento da parte di altri (come il comandante Luigi Matranga)”. In carcere finiscono in quattro. Coffaro, uno dei due che sequestra la villa di Calì, è tra gli indagati anche se il gip ne respinge l’arresto. Nelle carte dell’inchiesta si ipotizza invece che Matranga, l’altro estensore del verbale di sequestro, fosse a conoscenza del “lavoro sporco” portato avanti dai suoi sottoposti. “Matranga non ha mai presentato una denuncia né ha mai segnalato i comportamenti dei suoi subordinati”, scrive sempre il gip. A Calì non è mai arrivata una richiesta di denaro, la tipica “messa a posto”, per dissequestrare la villa. Anzi in questi giorni gli è arrivata un’ordinanza di demolizione del comune di Casteldaccia: entro gennaio del 2015 dovrà distruggere completamente l’abitazione. Anche se per quella data non ci sarà ancora una sentenza nel procedimento per abusivismo edilizio che lo vede imputato. “In pratica potrei essere assolto, ma a quel punto la villa non esisterebbe più perché sono costretto a distruggerla: in alternativa diventa di proprietà del comune. Mi chiedo quante siano le ordinanze di demolizione così tempestive in Sicilia: talmente tempestive che l’ufficio tecnico arriva prima di una sentenza di un tribunale”. A curare i lavori di ristrutturazione della villa che fu di Greco era stato il fratello dell’imprenditore palermitano, l’ingegner Alessandro Calì. Che i tentacoli di Cosa nostra li ha visti da vicino qualche tempo fa, quando da presidente dell’ordine degli ingegneri ha radiato dall’albo Michele Aiello, il ricchissimo prestanome di Bernardo Provenzano. Aiello è un uomo potente e fortunato:condannato a 15 anni di carcere è riuscito a trascorrerne uno intero ai domiciliari, proprio nella sua Bagheria, perché affetto da favismo: è lo stesso periodo in cui a Calì sequestrano la villa, e l’autosalone dell’imprenditore viene preso di mira dalle cosche.

L’escalation di minacce: “Non sono tranquillo”
Nel frattempo continua l’escalation di minacce nei confronti dell’imprenditore: intimidazioni che diventano inquietanti. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di stampa che lo riguardano, nel giugno del 2013, gli arrivano due telefonate nel cuore della notte: “Mi dicevano: ti ammazziamo, ti diamo fuoco, ti facciamo finire noi”, racconta. Poi la mattina del 6 febbraio 2014 le agenzie di stampa rivelano che Flamia è un uomo a libro paga dei servizi: poche ore dopo due uomini si presentano nella concessionaria di Calì. “Non erano interessati alle autovetture, non chiedono nessuna informazione, ma con fare circospetto mi fissano insistentemente. Appena vanno via mi segno il numero di targa della loro automobile: lo controllo alla motorizzazione ma quella targa non risulta iscritta nei registri”. Una targa falsa, fantasma, come quelle utilizzate sui veicoli in dotazione a uomini dell’intelligence. “Chiamo la squadra mobile, viene fissata una riunione in prefettura per discutere della mia sicurezza: un funzionario di polizia si lascia sfuggire che la situazione è grave e che non se la sente di dirmi di stare tranquillo. E io tranquillo non ci sono per nulla”.
A quattro anni dal primo attentato, Calì non ha ancora avuto accesso al fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura. “Ho fatto la richiesta varie volte, ma nulla, neanche un pezzo di carta per rifiutarmi l’aiuto che mi spetta di diritto”. Le vicenda in cui è finito l’imprenditore ha avuto una ripercussione diretta sulla sua azienda: nel 2010 Calì fatturava 24 milioni di euro all’anno e aveva 24 dipendenti. “Oggi – spiega – ho quattro dipendenti e 2 milioni di fatturato: è vero che c’è la crisi, ma la crisi c’è perché Cosa nostra rovina gli imprenditori onesti. E lo Stato li lascia soli. Oppure, ancora peggio, li perseguita”.