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Il processo “Crimine” regge anche in appello

Un importante articolo di Claudio Cordova:

E’ la scommessa investigativa della DDA reggina. Una scommessa vinta. Anche le motivazioni d’appello del procedimento “Crimine” non fanno che confermare l’unitarietà della ‘ndrangheta. Un risultato ottenuto dopo decenni, sebbene fin dal summit di Montalto, del 1969, si parli di unitarietà delle cosche. E tanti saranno i riferimenti anche nelle indagini dei decenni successivi. Solo con il blitz del luglio 2010 (e con i vari procedimenti nati da esso) si arriverà all’assunto decisivo. Un’evoluzione, quella delle cosche, che si pone “in senso piramidale e tendenzialmente unitario dell’organizzazione criminale di stampo mafioso denominata Ndrangheta”. Ma anche “una evoluzione nella continuità, che dimostra ancora una volta la multiforme capacità dell’associazione illecita in oggetto – considerata ad oggi quella più potente e ramificata tra le organizzazioni mafiose storiche italiane – di adeguarsi ai tempi e di trovare delicati e efficaci punti di equilibrio e di sintesi tra rispetto delle tradizioni e delle regole (che affondano in un retroterra sociale e culturale arcaico e di sottosviluppo e di supplenza illegale rispetto alle assenze o complicità dello Stato) e adeguamento alle nuove realtà economiche e finanziarie, che offrono ulteriori e succulenti sbocchi alle attività illecite di questa organizzazione criminale”.

La Corte presieduta da Rosalia Gaeta, dunque, premia ancora una volta il lavoro dei pm antimafia reggini (Giovanni Musarò, Marialuisa Miranda e Antonio De Bernardo: “Può senz’altro dirsi che gli elementi raccolti nel presente procedimento penale possono realmente costituire la base per un primo vero processo contro l’associazione mafiosa denominata ‘Ndrangheta nel suo complesso, indistintamente dalle cosche di appartenenza dei singoli soggetti indagati” è scritto nelle motivazioni.

Di ‘ndrangheta unitaria si parlerà per decenni. Il 26 ottobre 1969, nel corso di un summit di Ndrangheta tenutosi in località Serro Juncari, ai piedi del massiccio di Montalto, sull’Aspromonte, interrotto dall’intervento della Polizia di Stato, il vecchio boss Giuseppe Zappia aveva affermato: “Qui non c’è ‘ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ‘ndrangheta di ‘Ntoni Macrì, non c’è ‘ndrangheta di Peppe Nirta! Si deve essere tutti uniti, chi vuole stare sta e chi non vuole se ne va”. Un ventennio dopo, in una conversazione intercettata il 8 maggio 1998 tra Filiberto Maisano e tale Leone Mauro, il primo diceva tra l’altro: “… non ci sono mandamenti per niente, compare Leo, ci sono …che se vi dà una carica per parte … una carica alla Tirrenica, una alla Jonica e una al Centro … (…) noi siamo tutti uomini dello stesso modo … siamo tutti del crimine … criminali … e basta! (…)”.

Ancora vent’anni dopo, il 20 gennaio 2009 nella città di Singen (Germania), durante una riunione tra affiliati, l’imputato Salvatore Femia chiede: “Ma il nostro referente che è sotto chi è?” – “Don Mico Oppedisano, risponde Tonino Schiavo, Lui è uno del Crimine! E’ di Rosarno (…) E’ il numero uno!”. Ed ancora, Bruno Nesci, residente in Germania, afferma “la società mia è da sette anni che sta rispondendo al Crimine, sette anni… e là c’è il nome mio, la società mia è aperta, non la devo aprire… loro devono aprirla…. che vada a domandare al crimine quali nomi rispondono”.

Nella stessa data, dialogando in Lombardia in ordine a dinamiche criminali di quel territorio, tale Nino Lamarmore (ritenuto intraneo alla Ndrangheta operante in quella regione del Nord Italia) diceva a Stefano Sanfilippo: “Noi prendiamo decisioni dal Crimine…. siamo andati a Platì”.

E subito dopo l’omicidio del boss scissionista Carmelo Novella, Giuseppe Piscioneri riferiva a Antonio Spinelli: “Nunzio (Novella Carmelo) era stato fermato da giù (dalla Calabria) … tutti gli uomini si possono fermare….la provincia…. Li ferma la provincia” ….” Quando sei fermo per la Calabria sei fermo per tutti”.

Scrive la Corte d’Appello: “E’ stata una precisa scelta processuale della stessa Direzione distrettuale antimafia reggina l’aver voluto impostare l’odierno processo come un giudizio per così dire di “Ndrangheta pura”, puntando sulle prove inerenti l’associazione criminale mafiosa in sé, senza portare alla cognizione di questo giudice (e, quindi, contestare agli imputati) se non una piccola parte di reati c.d. fine: ciò in quanto l’obiettivo era quello di dimostrare (peraltro con successo) l’esistenza di una struttura unitaria di un sodalizio storicamente e processualmente già accertato nella sua materialità, nonché una sua diffusività sul territorio (calabrese e non solo).

Una struttura unitaria da cui dipenderebbero le varie propaggini in giro per l’Italia e per il resto del mondo. Un discorso valido per tutti gli altri territori, quello che la Corte fa per la Lombardia: “Emerge certamente un quadro in evoluzione, nel tentativo di trovare un punto di equilibrio tra le aspirazioni autonomistiche dei locali lombardi e l’intento della “casa madre calabrese” di esercitare comunque un controllo sulle sue “filiazioni”; emerge, altresì la circostanza che i locali lombardi debbono essere riconosciuti dalla “Lombardia” per trovare riconoscimento anche in Calabria, anche se a sua volta la “Calabria” deve dare il nulla osta per conferire nuove doti e per aprire nuovi locali, estendendo la sua influenza ben al di là dello stretto ambito territoriale regionale (ed in ciò riscontrando specularmente quanto si vedrà a proposito dell’articolazione tedesca della Ndrangheta). Scrivono, ancora, gli inquirenti che “Le ” filiazioni lombarde” sono una imponente ” testa di ponte” per inserirsi in un mercato certamente più ricco e di più ampie prospettive rispetto alla realtà del sud. In effetti, un’ultima annotazione sul tema “la Lombardia”; come già si è detto in Lombardia sono “attivi” 20 locali per un complesso di circa 500 affiliati. Si tratta all’ evidenza di ” un piccolo esercito” a disposizione delle cosche calabresi le cui mire, al di là delle questioni di forma afferenti l’ attribuzione delle “cariche”, sono la spartizione degli affari, come afferma lo stesso capo del Crimine Micu Oppedisano”.

A chiedere consiglio (o permesso) ai vari Oppedisano e Commisso si recano personaggi da ogni parte del mondo: “In passato si trattava solo di usare un argomento logico-sistematico che, oggi, è invece divenuto un prepotente ed incontestabile dato fattuale: oltre alle inequivoche intercettazioni che saranno oltre riportate nel prosieguo dell’esame delle singole posizioni soggettive, deve sottolinearsi come si assiste ad un continuo “pellegrinaggio” che individui provenienti da ogni parte del globo effettuano presso l’agrumeto di Oppedisano Domenico e presso la lavanderia di Commisso Giuseppe. Quali ragioni, diverse da quelle di obbedire ad un’unica entità criminosa che determina la vita del sodalizio, potrebbero celarsi dietro i viaggi di soggetti residenti ed operanti in Germania, Canada, ecc.. presso i citati Commisso e Oppedisano, ai quali rendono conto e chiedono direttive sulla vita del sodalizio in terre distanti decine di migliaia di chilometri?” si chiede la Corte d’Appello.

L’indagine “Crimine”, dunque, riesce dove altri, in passato, avevano fallito: “Orbene, alla luce del poderoso compendio probatorio fin qui riportato, appare del tutto evidente che la conclusione raggiunta dal primo giudice, pienamente condivisa da questa Corte, non deriva da una costruzione investigativa, ma costituisce una conclusione obbligata dalle emergenze processuali dell’indagine, che rappresenta una decisa virata nella direttrice giudiziaria fin qui susseguìta. Si ribadisce, l’interprete non può che limitarsi a prendere atto che l’unitarietà della ‘ndrangheta è caratteristica attestata dagli stessi protagonisti, esplicitamente ed inequivocamente affermata in plurime conversazioni, peraltro intrattenute dai più disparati correi, in realtà territoriali del tutto diverse. Si cita, emblematicamente, la vicenda relativa al defunto boss Novella, cui gli stessi sodali hanno addebitato una volontà di “distaccarsi” dalla Calabria che ne ha determinato la “fine”, perché “la Provincia lo ha licenziato”, o ancòra le nette, plurime e convergenti affermazioni contenute nelle intercettazioni o le dichiarazioni rese dal collaboratore, secondo cui le ‘ndrine stanziate in Lombardia fuori dalla Calabria rispondono comunque al Crimine, da cui prendono “disposizioni”, richiamandosi poi le numerose altre emergenze citate dal GUP tutte conferenti con l’impianto accusatorio, posto che hanno in comune il medesimo denominatore: la “dipendenza” dei gruppi siti fuori regione dal “Crimine” e dalla “madrepatria”, da cui mutuano la struttura e derivano la loro stessa essenza , talchè risulta palesemente che se anche i precedenti processi celebrati nel distretto giudiziario reggino non abbiano riconosciuto l’esistenza di una struttura unitaria dell’associazione, ciò è avvenuto esclusivamente per un deficit probatorio che la presente indagine ha invece colmato ed anzi esaltato come detto in tutta la sua chiarezza”.

Inoltre, i giudici di secondo grado liquidano anche il pretesto, avanzato da più parti, della presunta assenza dei De Stefano nell’inchiesta: “Nell’ingente compendio probatorio acquisito al processo è rinvenibile un preciso e significativo riferimento alla famiglia ndranghetistica dei De Stefano, quali soggetti appartenenti alla storica cosca operante nella zona Nord di Reggio Calabria: ci si riferisce alle conversazioni fra Giuseppe Pelle e Giovanni Ficara, captate nei primi mesi del 2010 nella c.d. Operazione Reale, nel corso delle quali il secondo dichiarava esplicitamente, fra l’altro, che tutti appartenevano ad un’unica organizzazione, la “‘ndrangheta”, e, ragionando in merito a possibili alleanze, citava esplicitamente i De Stefano, soggetti “vicini” ai Ficara”.

Da qui, dunque, il dato, lapidario, espresso dalla Corte d’Appello presieduta da Rosalia Gaeta: “In conclusione, quindi, nessun dubbio può nutrirsi sulla corretta impostazione accusatoria, relativamente a tale caratteristica della struttura, rispetto alla quale non può neanche dirsi distonico il preteso disinteresse o comunque il mancato intervento dell’organismo unitario nelle fasi di criticità del sodalizio, quali le faide sanguinose o le c.d. guerre di mafia che hanno caratterizzato (e talora ancora caratterizzano) gli ultimi decenni. Invero, ciò è agevolmente spiegabile non solo con l’autonomia dei singoli “locali”, che comunque coesiste con il riconoscimento di una struttura apicale, di coordinamento e direzione, ma con la fisiologica esistenza ed inevitabilità di motivi di forte contrasto che animano qualsiasi consesso umano, maggiormente quelli a connotazione illecita, il cui sorgere non può certo essere impedito dall’esistenza di un’autorità che orienta la vita dell’intero gruppo criminoso. Anche la doglianza difensiva inerente tale aspetto dell’indagine risulta quindi infondata e va pertanto disattesa”.