Vai al contenuto

Le mani della mafia su Perugia

Sotto l’ala del Grifo si nasconde la mano della ‘ndrangheta calabrese. Una spaventosa “holding del malaffare” quella scoperta due settimane fa dai carabinieri di Perugia, che ha portato a 54 arresti e un sequestro di beni per 30 milioni di euro. Così viene definito il sistema messo in piedi dalla criminalità organizzata nella insospettabile Umbria. Un sistema costruito ad arte su minacce, estorsioni e usura con tassi al 10 e al 20% e che si serviva «della copertura garantita dalle imprese sottoposte a estorsione per acquisire appalti e/o sub appalti nel settore edile e del fotovoltaico».

Gli atti di intimidazione sono quelli “classici”. Dalle auto incendiate fino alla testa di agnello davanti casa. «Mi hanno detto – si legge in una delle tante dichiarazioni raccolte nell’ordinanza – che era meglio aderire alle loro richieste per evitare che potesse accadermi qualcosa di brutto, come succede in Calabria. Mi facevano presente che giù in Calabria è accaduto tante volte che qualcuno sparisce e i familiari lo cercano e non lo trovano più. Mi parlavano con un linguaggio mafioso». Si presentano così i malavitosi perugini, dai forti legami con le famiglie di origine, con un linguaggio che rievoca colate di cemento e pallottole sparate. Ma accanto alle intimidazioni c’è pure lo spaccio.

Non poteva essere altrimenti, d’altronde, nella città che già da tempo la Dia ha definito “crocevia” del traffico di stupefacenti. Eppure un aspetto che finora non emerso è proprio il massiccio controllo e la capillare gestione del mercato di droga che partiva da Ponte San Giovanni per ramificarsi appunto a Perugia e nelle regioni circostanti. Il tutto condito da una strettissima alleanza. Quello che infatti emerge dalle carte è un vero e proprio sodalizio che si era creato tra famiglie calabresi e clan albanesi.

IL SISTEMA – La cocaina a Perugia c’è, si spaccia e si consuma. E non è dunque solo appannaggio dei nordafricani, il cui canale preferito è quello camorrista, che viaggia sulla E45, giungendo da Napoli, da Cesena o dagli aeroporti internazionali vicini. Nelle intercettazioni i calabresi la chiamano “neve”, “schioppo”, “ragazzetti” da portare a cena e da dividere prima di smerciarla. La nascondono nel riso, «perché si mantiene meglio». A capo del sistema Cataldo Ceravolo, ritenuto dagli inquirenti il “boss” della criminalità perugina, insieme a Cataldo De Dio e Vincenzo Martino. Ma non è tutto. Secondo quanto appurato dagli inquirenti, infatti, spunta una «una sinergia fra il sodalizio indagato e cittadini albanesi stanziati sul territorio perugino».

Il rifornimento avveniva sulla linea direttrice Napoli-Umbria. In un’intercettazione è lo stesso Ceravolo ad affermare: «andiamo a Napoli e la carichiamo». Né è un caso che tra gli arrestati anche Bledy, «un tizio che veniva chiamato ‘lo zio’». Un «albanese di Napoli», come lo si definisce in un’intercettazione, per il lungo periodo passato in Campania. Un periodo che gli aveva permesso, ora, di fare da collante tra le vecchie e le nuove amicizie. Il centro di raccordo era il bar “Apollo 4” di Ponte San Giovanni, gestito da Salvatore Facente e da Letizia Gennari (compagna di Cataldo De Dio). Tutti potevano tranquillamente recarsi lì e fare “compere”. L’importante, per calabresi e albanesi, era vendere.

Le cose cambiavano quando uno non pagava. Si poteva aspettare qualche tempo (ma ovviamente gli interessi crescevano), finchè poi non cominciavano – anche qui – le vere e proprie minacce. Come capitato a uno degli acquirenti, Vladimiro Cesarini, che aveva accumulato un debito di 6mila euro. Avrebbe avuto bisogno di più tempo. Ma gli albanesi non glielo consentono tanto che, come risulta dalle intercettazioni, si barrica in casa «chiuso» perché «teme per la sua incolumità». Alla fine Cesarini riesce a pagare. Prendendo spunto dai suoi stessi strozzini: estorcendo a sua volta il datore di lavoro, dicendogli che «lo avrebbe sparato con il fucile».

“PERCHÉ NON FACCIAMO UN LABORATORIO?” – Un sistema, dunque, vasto e articolato. Talmente vaso che l’idea, stando alle intercettazioni, era quella di ampliarsi ulteriormente. Di tecnologizzarsi. In un’intercettazione, infatti, altri due affiliati, il cirotano Natalino Paletta e il crotonese Francesco Manica (entrambi impiantati da anni a Perugia) dialogano della possibilità di organizzare un laboratorio per la preparazione di cocaina chimica con l’ausilio di un terzo, un “amico” colombiano: «chimicamente, hai capito qual è il discorso? – dice Manica – la vendiamo a 80 euro Nata (Natalino Paletta, ndr)… allora ti vuoi fare il laboratorio?».

L’idea, insomma, è quella di espandersi. Soprattutto per meglio fornire il mondo dabbene del perugino che si riforniva da calabresi e albanesi (spuntano tra le dichiarazioni anche proprietari di alberghi, piccoli imprenditori, uomini d’affari). Senza, ovviamente, dimenticare la rete di pusher minori che arrivava fino al mondo universitario.

L’OMICIDIO POLIZZI – Non solo. Nelle intercettazioni compaiono anche due nomi già tristemente noti alla cronaca perugina e italiana: sono Julia Tosti e Valerio Menenti, rispettivamente la fidanzata e il tatuatore presunto mandante dell’omicidio di Alessandro Polizzi, ucciso nell’appartamento di Via Ricci mentre era con la sua ragazza. I loro nomi spuntano proprio in riferimento al traffico di droga nel perugino gestito da Ceravolo.

La stessa Tosti, in una sua dichiarazione del luglio 2013, dichiara: «posso dire che a volte ho acquistato la cocaina da un tale Cataldo (Ceravolo, ndr), un uomo calabrese, che abita a Ponte San Giovanni (…). Ho conosciuto Cataldo perché me lo ha presentato Valerio. In alcune circostanze, in periodo compreso fra l’estate scorsa e l’ottobre-novembre scorsi, mentre avevo una relazione con Valerio, (i due ragazzi infatti convivevano, ndr) sia io che Valerio abbiamo acquistato cocaina da lui». Julia racconta anche del loro consumo di cocaina, dai 2 ai 5 grammi la volta, per un prezzo di 80 o 90 euro al grammo. E parla anche delle intimidazioni che Valerio riceveva, con l’auto rigata per i debiti accumulati nel tempo.

LA RETE PARALLELA E IL TRAFFICO DI ARMI – Ma non è finita qui. «L’attività di indagine – scrivono gli inquirenti – ha altresì consentito di individuare una diversa organizzazione», composta da albanesi e dagli italiani Simone Verducci e Michaela Cavalieri (che peraltro veniva sistematicamente picchiata da Verducci – le aveva rotto anche il naso – il quale in alcune circostante l’aveva letteralmente “imprigionata” in casa). Questa rete parallela, si legge ancora nell’ordinanza, «riforniva di droga e di armi l’organizzazione di matrice ‘ndranghetista riconducibile a Ceravolo Cataldo, Martino Vincenzo Mario, De Dio Cataldo ed altri sodali, dall’altro risultava effettuare per proprio conto attività di cessione di cocaina a terzi».

Insomma, accanto al traffico “ufficiale”, ce n’era anche un altro parallelo messo in piedi in prima linea da albanesi e calabresi insieme. Non è un caso che in una delle tante dichiarazioni rilasciate da coloro che si rifornivano dai calabresi, si legge che Verducci «dalla fine del 2012 si era messo in affari con alcuni albanesi che trafficavano con lui nella droga». «Personaggi pericolosi», vengono definiti. Ma questo non spaventa Verducci, tanto che diceva in giro di averceli in pugno. Tutti sotto il suo controllo, dunque. Il che non era cosa da poco dato che gli albanesi avevano un potere enorme in mano.

Uno degli arrestati, Ervis Lyte, in una conversazione telefonica con Ceravolo, dice addirittura che, quando era stato in carcere, riusciva a procurarsi la droga anche lì, tramite un afgano. Che Ervis fosse un tipo pericoloso, d’altronde, lo si capisce anche dall’arsenale a sua disposizione. Un arsenale che gli permetteva di fare soldi anche con il traffico di armi. C’è, nell’ordinanza, un intero capitolo sulla disponibilità di armi in mano ai clan. In un’intercettazione è Vincenzo Martino ad affermare di avere nella sua disponibilità (e in quella dell’organizzazione) numerose armi da fuoco e munizioni. E la trattativa di acquisto veniva intavolata sempre con Lyte per l’enorme possibilità di acquisto che offriva. Non solo pistole o fucili. Ma anche lo “sniper” o la TT-33 Tokarev, arma da guerra prodotta nell’ex Unione Sovietica e oggi disponibile solo in Albania e Russia. Tutte armi utili e indispensabili per la ‘ndrangheta. Soprattutto in Calabria. Martino lo dice chiaramente: «servono veramente giù, giù mi servono veramente».

I RAPPORTI CON LA CASA MADRE – Uno degli aspetti maggiormente di peso che emerge dalle carte perugine, però, è l’autonomia di gestione assicurata alla consorteria ‘ndranghetista installatasi in Umbria. Ovviamente, però, i rapporti con la Calabria erano più che frequenti: «è stato documentato nel corso dell’indagine – scrivono gli inquirenti – come la consorteria di tipo ‘ndranghetista operante in Umbria mantenga contatti qualificati, specie attraverso Paletta Natalino e Murgi Natale (entrambi arrestati, ndr), con autorevoli esponenti della ‘ndrangheta di Cirò». Parliamo soprattutto della famiglia dei Farao, il cui esponente di vertice, Giuseppe, è condannato all’ergastolo ed attualmente detenuto in regime di 41 bis.

Non è un caso allora che «ogni qualvolta Farao Vittorio si reca a Perugia, e ciò avviene con costante periodicità, è spesso in compagnia o del fratello Vincenzo o degli omonimi cugini Farao Vittorio e Farao Vincenzo (entrambi figli di Farao Giuseppe) e si incontra con Paletta Natalino, Murgi Natale (entrambi arrestati, ndr) ed altri componenti dell’associazione operante in Perugia». In un’intercettazione, d’altronde, è Cataldo Ceravolo stesso a parlar chiaro: i Farao salgono per «riscuotere». E, anche in questo caso, c’era il luogo apposito, di rito. Un pub in pieno centro a Perugia. In una traversa del famoso Corso Vannucci. Un pub spesso popolato da studenti. Mentre a un tavolo, in silenzio, la locale di ‘ndrangheta faceva affari, vendeva armi, smerciava droga.

(fonte)