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La cultura dentro le dimissioni dal Parlamento

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Massimo Bray

Massimo Bray si è dimesso da parlamentare. Si è dimesso per scelta propria, lo scrive lui stesso, perché si ritiene più utile in un altro ruolo professionale e perché, scrive, “rispettare lo Stato e le Istituzioni significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre come obiettivo il bene della comunità. Ecco perché vivo con sofferenza questa scelta, ma sono nello stesso tempo convinto che siano molti i luoghi in cui si possa dare un contributo alla vita democratica del nostro Paese”.

In un Repubblica parlamentare (almeno sulla carta) le dimissioni di un uomo di cultura e di impegno come Massimo Bray dal Parlamento poiché si reputa “politicamente” più conforme in un altro ruolo dovrebbero aprire un dibattito. Ma un dibattito mica da talk show pomeridiano, piuttosto un esame di coscienza su un Parlamento che non solo viene svuotato delle sue funzioni dall’abuso dei decreti o di voti di fiducia ma anche un Parlamento che fallisce il proprio obiettivo sociale e culturale: i nostri nonni avevano immaginato quell’assemblea come la sintesi di rappresentanza del popolo (nei suoi spigoli migliori) e invece succede che Bray (ma non solo lui) si senta non rappresentativo. Anzi, per assurdo, il fatto che non si senta rappresentativo lo avvicina moltissimo al sentire comune di questo tempo quindi, abbandona un Parlamento che è già stato abbandonato da una maggioranza invisibile, diventandone involontariamente (forse) perfetto interprete.

L’abitabilità del Parlamento, decaduto in votificio senza voce in cui si riesce a farsi notare alzando i toni, spettacolarizzando gli interventi o piallando i contenuti credo che sia il termometro dello stato di cultura della democrazia nel nostro Paese. E c’è il gelo.