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Boss mafiosi e patria potestà

Un dibattito annoso e, ora, una proposta di legge:

Un boss mafioso, un trafficante di armi o di droga, un terrorista o un mercante di uomini, non può essere un buon genitore. Gli va tolta la patria potestà e ove necessario i figli vanno allontanati dal contesto familiare. E’ questo, in buona sostanza, l’obiettivo dell’emendamento al decreto legge contro il terrorismo che Ernesto Carbone presenterà in aula la prossima settimana. Un tema che è un vecchio pallino del membro della segreteria Pd, il quale già lo scorso anno aveva presentato un disegno di legge specifico. L’emendamento inserisce nel Codice penale il 416-quater, nel quale si afferma che “La condanna per il delitto previsto dall’articolo 416-bis del codice penale (ossia l’associazione mafiosa) comporta la decadenza dalla potestà dei genitori”. Attualmente una legge specifica non esiste, le condanne per mafia non sono d’impedimento allo svolgimento del ruolo genitoriale. Tuttavia, in alcuni casi specifici, i Tribunali per i Minori hanno tentato di intervenire, togliendo i figli minori alle famiglie radicalmente coinvolte nella criminalità organizzata in maniera parziale oppure per alcuni periodi di tempo. Una misura che colpisce un’organizzazione criminale che mette la famiglia al centro di tutto.

In passato, alcuni giudici calabresi, su richiesta dei pm, hanno adottato provvedimenti limitativi della potestà genitoriale, nominando ad esempio in presenza di minorenni un curatore speciale, ritenendo indispensabile affidare il minore al servizio sociale per inserirlo subito in una comunità fuori dalla territorio della regione di origine, al fine di affidarlo ad operatori professionalmente qualificati che fossero in grado di fornirgli una seria alternativa sul piano culturale e sociale.

Altri Tribunali ancora si stanno muovendo facendo leva sull’allontanamento “volontario”. In altri termini si punta ad avere il consenso di almeno dei genitori (spesso detenuti) e dello stesso minore per la collocazione in comunità e lontano dai contesti sociali a rischio. Alcune sentenze dei giudici, che si occupano di minori che hanno già commesso i primi reati, si giustificano la decadenza della patria potestà, ritenendola l’unica soluzione per sottrarre il minore “a un destino ineluttabile e nel contempo consentirgli di sperimentare contesti culturali e di vita alternativi a quello deteriore di provenienza”, nella speranza che il minore “possa affrancarsi dai modelli parentali sinora assimilati”.
Un argomento delicato, soprattutto in alcune aree del Paese. Non è un caso che durante le faide degli anni ’80 in diversi paesi della Piana di Gioia Tauro i bambini venissero allontanati dalle famiglie e affidati alle comunità per evitare che rimanessero vittime di vendette e rappresaglie. E più di recente, negli anni della faida di San Luca, le famiglie coinvolte nella guerra di ‘ndrangheta evitavano persino di mandare i figli a scuola. La convinzione di diversi operatori del settore è che in alcuni contesti familiari non si crescono figli, ma veri e propri soldati dei clan, addestrati alla vendetta o addirittura già giovanissimi affiliati alle cosche perché così educati da genitori e figli maggiori. Le cronache più recenti raccontano come, ad esempio a Palmi (Reggio Calabria), dopo l’arresto dei boss Gallico, a riscuotere le tangenti fosse un sedicenne figlio del capoclan. Interventi mancati e interventi che invece stanno sortendo l’effetto sperato. Per salvare i figlia della pentita Giuseppina Pesce, la magistratura ha tolto al padre (attualmente detenuto) la possibilità di esercitare il proprio ruolo. Stessa cosa anche per i figli della collaboratrice Maria Concetta Cacciola (morta suicida) allontanati dalla famiglia d’origine e affidati ai servizi sociali.

Giuseppe Lombardo, pm della Dda di Reggio Calabria, già sette anni fa aveva chiesto che fosse tolta la patria potestà a boss del calibro di Giuseppe De Stefano e Pasquale Condello. E ancora oggi si dice convinto che si tratti di “un passaggio fondamentale”. Per il magistrato “lo Stato ha il dovere di intervenire a tutela dei minori a cui non viene data la possibilità di un futuro diverso da quello dei padri”.

Secondo Carbone “a prima vista l’intervento potrebbe apparire forte, ma in realtà, la proposta vuole recepire, e portare a compimento, profili sanzionatori in parte già attivati dalla magistratura”. Mafia ma non solo. La proposta varrebbe, come pena accessoria anche per i reati di strage, omicidio, riduzione in schiavitù o traffico di esseri umani, nonché traffico di armi e traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope.

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