Stefano Bartezzaghi da leggere su ‘nuovo’ e ‘possibile’:
Quindi, quando diciamo «nuovo» non stiamo dicendo molto: in un certo senso è nuova persino la ripetizione ennesima di un jingle o di un luogo comune e le strategie di comunicazione spesso consistono proprio nel fare apparire come nuovo qualcosa che tanto nuovo non è. Il bello è che ciò che si vuol far apparire come nuovo deve essere ripetuto un numero sufficiente di volte da farlo diventare banale: si potrebbe dire che la comunicazione contemporanea consiste nello stupire i sensi e chetare i nervi.
Si potrebbe pensare che la sinistra sia per il nuovo di rivoluzione e di riconfigurazione e la destra sia per il nuovo di ripetizione e di variazione. Categorie come quelle di «conservatori», «moderati», «progressisti», «radicali» potrebbero infatti suggerirlo, nei loro nomi. Purtroppo queste categorie sono davvero vecchie, nel senso che si riferiscono a un mondo in cui la trasmissione del potere era appena passata dai modelli dinastici e aristocratici a quelli democratici.
Nella società di massa non è più così. Quello che è successo quando il nuovo ha fatto mitologia è che il nuovo, il progresso, le riforme, la riconfigurazione e addirittura la rivoluzione non sono stati più bandiere esclusive della sinistra e valori a questa intrinseci. Per dirla in termini gloriosamente vecchi, questa è stata una vera e propria perdita di egemonia.
Anche la creatività, altro termine orribilmente ambiguo, è passata da Bruno Munari e dal movimento del Settantasette ai consigli di amministrazione e ai ministri di economia e finanza. Anzi alla nostra epoca persino i conservatori, con il nome che si ritrovano, hanno dovuto procedere a un rebranding vero e proprio, inventando la buffa sigla «neocon», un ossimoro incarnato da due mozziconi di parola che assieme non dovrebbero poter stare. Ma i conservatori non hanno conservato sé stessi: si vede che hanno fatto qualche progresso.
Inutile dire che spesso il «nuovo» non si realizza neppure: è un’apparenza di nuovo e tutta la polemica da talk show è l’accusa reciproca di propugnare come nuovo qualcosa che nuovo non è, ma è anzi profondamente vecchio. Sempre senza mai mettere in dubbio l’equivalenza fra nuovo e buono, cioè la valorizzazione positiva del nuovo. Cioè la sua mitologia che è anche un’ideologia vera e propria, poiché è ideologica ogni assegnazione a priori di valori positivi e negativi.
Il risultato finale è che, divenuto mitologia, il nuovo non è più utile a orientare alcun discorso verso le differenze fra destra e sinistra che ora, non a caso, vengono date per cadute. Non ci sono linee: c’è una sfera unificata da quel principio di retorica da campagna elettorale per cui il nuovo è buono e bisogna sempre propugnarlo almeno a parole. Partiti e personalità che aspirano direttamente al potere devono collocarsi obbligatoriamente dentro a quella sfera.
Chi vuole ragionarci sopra, si accomodi fuori, dove non c’è obbligo di nuovismo (ma da dove, probabilmente, non si arriva a vincere elezioni). A meno che a cambiare non sia, innanzitutto, questa situazione.
Ma per cambiarla basta la critica e la smitizzazione del Nuovo? C’è di che dubitarne, per quanto il lavoro puntiglioso di analisi critica delle proposte e delle riforme sia necessario.
Il resto è qui.