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Ma siamo sicuri che fosse santa?

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Un articolo che vale la pena leggere, di Krithika Varagur:

Il quattro settembre di quest’anno Madre Teresa diventerà Santa Teresa. Cosa tutt’altro che sorprendente; era stata beatificata nel 2003, e la beatificazione è una specie di strada a senso unico per la canonizzazione. Ma questa è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Lei una santa non lo fu.

Canonizzare Madre Teresa significherebbe chiudere la questione di quella problematica eredità che si è lasciata alle spalle, che include le conversioni forzate, i discutibili rapporti intrattenuti coi dittatori, la sua mala gestione, a onor del vero, delle cure mediche di qualità davvero pessima. Cosa peggiore di tutte, lei incarnava la classica figura dell’uomo bianco che porta la propria carità nel terzo mondo – che poi è il senso stesso di quella che è stata la sua immagine pubblica, nonché fonte d’incommensurabili traumi per la psiche collettiva postcoloniale dell’India e della sua diaspora.

Nel 2013 una ricerca condotta dall’Università di Ottawa ha sfatato il “mito dell’altruismo e della generosità” che avvolge Madre Teresa, raggiungendo la conclusione che la sua santificata immagine non regge al confronto coi fatti, e rappresenta sostanzialmente il compimento di una vigorosa campagna mediatica organizzata da una Chiesa Cattolica in sofferenza.

Nonostante tutte le sue 517 missioni, che al momento della sua morte erano state organizzate in cento diversi paesi del mondo, la ricerca ha scoperto che praticamente nessuno di coloro che vi si era recato alla ricerca d’assistenza medica ne aveva poi effettivamente ricevuta. Le condizioni che vi si potevano osservare erano non igieniche, “perfino inappropriate”, l’alimentazione inadeguata, e gli antidolorifici assenti – non certo per mancanza di fondi, nei quali l’ordine di Madre Teresa, famoso in tutto il mondo, in realtà sguazzava – ma in nome di quella che gli autori della ricerca definiscono la sua “peculiare concezione della sofferenza e della morte”.

“C’è qualcosa di meraviglioso nel vedere i poveri accettare la propria sorte, sopportandola come se si trattasse della Passione di Cristo. Il mondo ha parecchio da guadagnare dalla loro sofferenza”: lo dichiarò Madre Teresa a un Christopher Hitchens tutt’altro che entusiasta.

Pure tenendoci all’interno della concezione cristiana della benedetta mansuetudine, che razza di logica perversa sottende a questo punto di vista? Non sorprendentemente, tenendo conto della cornice in cui si svolgeva la sua opera, la risposta sta nel colonialismo razzista. Per tutti quei cento paesi, Madre Teresa appartiene all’India, ed è l’India ad aver concepito la Beata Teresa di Calcutta. Fu lì che lei acquisì l’immagine che lo storico Vijay Prakash ha definito della “donna bianca nelle colonie per antonomasia, impegnata per la salvezza di quei corpi scuri dalle loro tentazioni e dai loro fallimenti”.

La sua immagine è interamente racchiusa nella logica coloniale: quella del salvatore bianco che getta una luce sugli uomini dalla pelle ambrata più poveri del pianeta. Madre Teresa fu una martire – non per i poveri dell’India e del Sud globale – ma per quel senso di colpa bianco e borghese. (Come nota Prakash, svolgeva esattamente questa funzione al posto di, e non certo insieme a, una “autentica sfida a quelle forze che la povertà la producono e la coltivano”). E tutti quei suddetti uomini dalla pelle ambrata, poi, come li avrebbe aiutati? In modo quanto meno discutibile, ammesso che l’abbia mai fatto. Il suo persistente “secondo fine” era quello di convertire al cristianesimo alcuni fra gli individui più vulnerabili del Paese, come del resto ha dichiarato l’anno scorso il capo di una Ong induista . Esistono perfino alcune testimonianze secondo le quali lei e le sue suore avrebbero provato a battezzare persone in punto di morte.

Tutto questo accanirsi nei confronti della suora e del suo ordine potrebbe apparire meschino, se non fosse per quella che è stata l’incessante campagna condotta dalla chiesa per renderla qualcosa di più di ciò che fu. Una campagna che partì quando lei era ancora in vita, all’epoca in cui il giornalista antiabortista inglese Malcolm Muggeridge si accollò la croce di curare l’immagine pubblica di Madre Teresa, prima con un documentario agiografico del 1969, poi con un libro pubblicato nel 1971. Fu lui ad avviare il movimento d’opinione per andare a collocarla nel “regno del mito” più che in quello della storia.

La sua beatificazione postuma è stata intrapresa col furore di chi non vuole essere beccato. Papa Giovanni Paolo II esonerò il suo processo di beatificazione da quello che sarebbe stato un normale periodo d’attesa quinquennale e infatti esso cominciò ad appena un anno dalla sua morte. Si sarebbe propensi a supporre che una donna disposta a ricorrere a metodi tanto straordinari dovesse essere al di sopra di ogni sospetto. E tuttavia nel corso della sua vita Madre Teresa s’intrattenne con famigerati despoti del calibro di Jean-Claude Duvalier di Haiti (dal quale accettò la Legione d’Onore nel 1981) e l’albanese Enver Hoxha.

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