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Il carcere d’oro del boss nell’ospedale Niguarda

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Un articolo de L’Unità su Francesco Cavorsi del 24 novembre 1996

È tornato qui da tre mesi ed è come se non fosse mai andato via. Camera doppia a uso singolo, pasti, tv, cellulari, visite, parenti, amici. Niente piantone di polizia. C’è un boss mafioso, un killer ergastolano della Sacra Corona Unita pugliese, che vive da 15 anni all’ospedale Niguarda di Milano. A spese nostre: costa 700 euro al giorno, 4.900 euro a settimana, 235mila l’anno. Moltiplicati per 15 anni fanno 3 milioni 525mila euro. Tanto ha pagato e continua a pagare la sanità nazionale per mantenere l’ergastolo dorato di Francesco Cavorsi, 53 anni, da San Giovanni Rotondo, un passato da romanzo criminale.

È stato condannato alla pena massima per tre omicidi eseguiti negli anni ’90, quando, tra partite di droga e regolamenti di conti, assieme ai due fratelli scala le gerarchie della mala milanese e diventa il “killer in sedia rotelle” (è paraplegico dal 1988, pallottole ordinate dal capo ‘ndranghetista Pepè Flachi, ma lui riesce ugualmente a eliminare i nemici di spaccio convincendoli a salire in auto e freddandoli a colpi di calibro 7,65).

La scandalosa lungodegenza ospedaliera di Cavorsi, ora incredibilmente riattivata, viene a galla due anni fa: denuncia di Repubblica, imbarazzo dei vertici del Niguarda. Il caso – siamo a marzo 2014 – finisce sul tavolo del governo. Si muovono i ministri di Giustizia, Andrea Orlando, e Sanità, Beatrice Lorenzin: ispezioni e relazioni per capire come e perché sia possibile che un padrino di elevato spessore criminale viva a carico della spesa pubblica, non in carcere, o in una struttura alternativa, ma in un ospedale. Dove occupa stabilmente due posti letto (camera doppia).

Risultato: Cavorsi – che è un detenuto da tempo non più in carico al Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) bensì alla magistratura (di lui si occupa il giudice di sorveglianza) – viene trasferito in un altro luogo. Meno costoso. Una struttura del Comune. Il killer è affetto da diverse patologie, ma “non bisognoso di una struttura di degenza per malati acuti”, men che meno a 700 euro al giorno, dichiarò due anni fa il direttore sanitario del Niguarda, Giuseppe Genduso. Con la delocalizzazione del paziente pareva che sullo scandalo dell’ergastolo dorato fosse stata messa la parola fine. Invece no.

Tre mesi fa mesi fa il padrino pugliese rientra al Niguarda, il più grande ospedale lombardo con 1.300 posti letto e 131mila ricoveri l’anno. La sua camera doppia è al Dea, il padiglione che ospita, tra gli altri, il reparto di chirurgia di emergenza (plastica e maxilofacciale). È un ritorno a casa. Fuor di metafora. Perché da 15 anni – da quando nel 2001 è stato aperto il Dea – Cavorsi risulta domiciliato all’ospedale “Niguarda Cà Granda, piazza dell’Ospedale Maggiore, 3, Milano”. Per essere un ergastolano con alle spalle tre omicidi, il boss non vive in condizioni particolarmente restrittive: nessun agente di piantone lo controlla; riceve normali visite; gira in ospedale su quella stessa sedia a rotelle con la quale vent’anni fa si spostava (in auto) per chiudere la bocca ai suoi nemici.

“Bum, bum, bum, bum, bum… cinque colpi ci ho sparato, perché quello non meritava di morire troppo velocemente”: così, nell’estate del ’92, intercettato dalle cimici piazzate dal pm Maurizio Romanelli, un compiaciuto Cavorsi racconta l’omicidio, sei mesi prima, di un trafficante di droga, Virgilio Famularo. È il terzo delitto in tre anni: nel ’90 uccide il veterano della mala milanese Oreste Pecori; nel ’91 tocca ad Antonio Di Masi, spacciatore legato agli slavi. Tre omicidi confessati davanti ai giudici della terza Corte d’assise di Milano. Nel ’96, due anni dopo l’arresto (operazione Inferi), il 33enne Cavorsi è condannano all’ergastolo con l’aggiunta di 53 anni di carcere.

Qui inizia un’altra storia. La perdita dell’uso delle gambe costringe il boss a una serie di cure. Soggetto pericoloso, sì. Ma, per i giudici, incompatibile con il carcere. Pena differita: al posto della cella, una stanza d’ospedale. Doppia perché, essendo un detenuto, il killer non può stare con un altro paziente. Tecnicamente finisce agli arresti ospedalieri. Nella seconda metà dei ’90 Cavorsi gira una serie di ospedali. Poi, nel 2001, trova casa al Niguarda. Ogni tanto esce in permesso: il via libera arriva via fax dal giudice di sorveglianza. Poi torna.

Quando due anni fa questo giornale denunciò il caso, intervenne, tra i tanti, l’allora assessore regionale alla Salute, Mario Mantovani, poi arrestato per tangenti e oggi in carcere: “Cavorsi? È åun carico che ci è stato imposto dall’autorità giudiziaria – dichiarò – . Mi auguro che adesso si trovi una soluzione più adeguata e meno onerosa. Attendiamo una risposta per un alloggio da parte del Comune”. L’alloggio arrivò. Ma oggi il boss in carrozzella è ancora in ospedale. Disse Cavorsi: “Spero che le mie condizioni di salute migliorino e, a quel punto, di poter finire di scontare la mia pena in carcere” . Già.

(fonte)