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Caro Shady, hai ragione: è la cultura dei diritti che ci manca in politica estera

siria

Caro Shady,

ho letto con molta attenzione la tua lettera a Civati in cui ripercorri la viltà italiana su un politica estera che ormai  è la caricatura di un compromesso che avrebbe voglia di essere credibile come posizione. E sono d’accordo con te quando scrivi:

«Trovo esclusivamente necessario cambiare marcia in politica estera, garantendo la pace negli altri paesi e la necessità di sostenere le società civili che tentano di emanciparsi da dittature e fondamentalismi, ma è anche urgente una rivoluzione culturale in Italia. In cinque anni ho notato che intorno alla Siria – e non solo – c’è una vergognosa assenza da parte della una classe intellettuale italiana(siano essi poeti, scrittori o altro). Non c’è interesse nell’impegnarsi nel sostenere cause extraeuropee o nel semplice dar voce a autori che non siano “amici”. Se oggi c’è un riaffermarsi del populismo e della xenofobia, una grave responsabilità l’hanno gli intellettuali, incapaci di arginare una contro cultura (di destra ma non solo) che si fa largo fra i giovani e che fra qualche decennio – se continuiamo di questo passo – ci dimostrerà tutta la sua carica distruttiva. Guardiamo alla cultura nel mondo arabo: ci sono scrittori e poeti disposti a farsi incarcerare, torturare e uccidere in nome di un ideale. Scrivono libri (romanzi, saggi e raccolte di poesie) socialmente impegnati. Hanno molto da insegnarci riguardo a come si usa una cittadinanza attiva. A questo loro attivismo, la classe culturale italiana continua a vivere in una torre d’avorio, non tentando di sdoganare la cultura araba dall’angolo in cui è reclusa nell’immaginario collettivo.»

Io e te facciamo parte di questa generazione con le antenne ricettive anchilosate dalla paura e dalla diffidenza, una generazione tesa a guardare con sospetto qualsiasi richiesta di diritti che non siano immediatamente riscontrabili nel nostro quotidiano. La stessa vicenda di Giulio Regeni, del resto, appare come una provincialissima preoccupazione di chi teme che possa riaccadere a “qualcuno di noi” mentre ogni giorno qualche Giulio (semplicemente con un nome più impronunciabile) continua ad essere torturato.

Temo però che la questione abbia radici molto più profonde di un semplice federalismo delle responsabilità che abbiamo inventato per poterci perdonare: quella a cui assistiamo non è semplicemente una dispersione di energie ma molto più pericolosamente mi sembra essere un individualismo spinto che ci porta ad abbracciare preferibilmente le cause già notiziabili, i delitti più “pop” oppure le tragedie che siano facilmente comprensibili. È un problema di cultura, caro Shady, perché è una mancanza di storia: abbiamo sdoganato l’ignoranza. Tutto qui.

Per questo credo che sarebbe il caso che la politica torni a fare politica nel senso più pieno prendendosi la responsabilità di alfabetizzare un Paese che vorrebbe avere il diritto di non sapere e invece non ce l’ha; c’è da costruire un patrimonio intellettuale sapendo che non porterò frutti immediati, che probabilmente non avrà fragorosi riscontri elettorali ma che ci consenta di tornare a pensare “a ragion veduta”. Con la consapevolezza dei diritti e con la cultura della loro storia.

Per questo credo che il tuo stimolo sia valido per la Siria come per l’Italia: la consapevolezza è il risultato di un lavoro in rete che non rimanga impigliato tra fratellanze d’interesse o scuderie. E noi ci proviamo. Insieme.

(la lettera di Shady Hamadi è qui)