Ne scrive Attilio Bolzoni per Repubblica:
La mafia non ci sarà ad Ostia – come assicurano i giudici della Corte di Appello di Roma – però, in Calabria, sicuramente la ‘ndrangheta c’è. Detta così potrebbe sembrare anche una banalità, ma per la prima volta — ieri — la Cassazione ha messo il suo bollo sull’esistenza in vita di questa associazione criminale segreta. Una sentenza di ultimo grado attesta che la ‘ndrangheta non è un’invenzione letteraria o giornalistica, è una mafia con i suoi capi e le sue regole, è una mafia pericolosissima che per lungo tempo ha considerato la Calabria il cortile di casa propria.
Se lo ricorderanno i boss di Reggio, e quelli della Piana di Gioia Tauro e gli altri dell’Aspromonte, il 17 giugno del 2016 — un venerdì 17, sarà un caso? — data indimenticabile per la giustizia italiana e anche per loro, i capi di una consorteria di assassini che per decenni è rimasta al riparo, lontana dai riflettori, nascosta, impenetrabile.
La ‘ndrangheta c’è, è una e una sola («Ha una struttura unitaria»), ha un governo («È un vertice collegiale chiamato “la Provincia”») composto da rappresentanti delle «locali» («Le organizzazioni che comandano sul territorio ») di Reggio Calabria, della costa tirrenica e di quella jonica e che ha potere in tutti i luoghi — il mondo intero — dove si è diffusa e radicata. Questa sentenza della Suprema Corte ha un valore che non è eccessivo definire storico. Come quello della Cassazione del 30 gennaio del 1992 sul maxi processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fino ad allora c’era una mafia dominante ma per la legge sempre presunta. Così oggi, come un quarto di secolo fa per Cosa Nostra, nel marmo della giurisprudenza viene scolpito il nome ‘ndrangheta.
È il gran finale di una battaglia portata avanti dallo Stato dopo anni di colpevole «dimenticanza» dell’aristocrazia criminale calabrese, un’associazione ritenuta a torto «minore» e che in virtù della scarsa considerazione che godeva negli apparati investigativi-giudiziari — ma anche perché aveva strategicamente scelto di non fare la guerra alle Istituzioni come la Cosa Nostra di Totò Riina in Sicilia — nel cono d’ombra è riuscita a conquistarsi spazio e ricchezza. E, stagione dopo stagione, fama di mafia più ricca e potente d’Europa con ambasciatori e alleati dall’Australia al Venezuela, dal Messico al Portogallo. Naturalmente con una capacità enorme di infiltrazione anche in Italia, soprattutto a Roma, a Milano, in Emilia, in Piemonte.
Una scalata silenziosa fino all’assassinio a Locri nell’ottobre del 2005 del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno e fino alla strage di Duisburg dell’agosto del 2007, sei ragazzi di San Luca uccisi fuori da un ristorante sulle rive del Reno. Da quel momento anche la ‘ndrangheta è diventata un’«emergenza nazionale». Sono cominciate le indagini vere dopo gli anni del «dialogo» e della non belligeranza con le cosche, del quieto vivere. A Reggio è arrivata una squadra di primissima scelta di investigatori dell’Arma dei carabinieri, della polizia e della finanza con il nuovo procuratore Giuseppe Pignatone e il suo vice Michele Prestipino (a loro si sono affiancati nei vari gradi di giudizio i pubblici ministeri Giovanni Musarò e Antonio De Bernardo) che hanno portato in Calabria un «metodo» — collaudato nelle «campagne» di Palermo — che ha rivoluzionato le indagini. Così è nata nel 2008 l’inchiesta «Crimine» fra le procure distrettuali di Reggio Calabria e di Milano e così si è messa la parola fine, con la sentenza della Cassazione di ieri pomeriggio, alle incertezze più o meno interessate sull’esistenza di una ‘ndrangheta come mafia dotata di una sua classe dirigente e con un’ossatura capillare non solo nelle terre di origine ma con presenze significative anche in tutti e cinque i Continenti.
È appena sei anni fa — il 30 marzo del 2010 — che il legislatore ha aggiunto a «Cosa Nostra» e a «Camorra», la parola «’Ndrangheta» fra le pieghe dell’articolo 416 bis, l’associazione di tipo mafioso. È nel 2008 che sono partite le prime indagini che hanno scoperto la realtà di una mafia calabrese, non un insieme di bande slegate una dall’altra ma un’organizzazione unica. È nel luglio del 2010 che sono stati firmati 121 provvedimenti di custodia cautelare contro altrettanti personaggi. I capi di Rosarno e di Gioia Tauro, di Palmi, di Locri, di Platì, di Africo. In primo grado, l’8 marzo del 2012, ne sono stati condannati una novantina e, soprattutto, ha retto l’impianto accusatorio sull’«unitarietà » dell’organizzazione. In secondo grado, il 27 febbraio del 2014, condanne quasi
tutte confermate e tesi dei pm che hanno tenuto al vaglio dei giudici d’Appello. Adesso la Cassazione ha scritto l’ultimo capitolo su una mafia considerata in passato di serie B. E che invece, dopo le stragi siciliane del 1992, ha salvato con le sue trame il sistema criminale italiano.