È il più grave attentato accaduto a Kabul negli ultimi cinque anni. A Kabul, dove difficilmente la serenità regna sovrana. Ottanta morti. Duecentotrentuno feriti. Sento già qualcuno ringhiare, fermi tutti: non sono i numeri che contano e non è un dolore che si possa pesare al chilo. Non è questo il discorso.
Il fatto è che quei morti erano musulmani. Sì, musulmani. E l’ISIS ha rivendicato l’attentato, tronfio come al solito, con quella lurida bava alla bocca che accompagna le sue macabre esultanze. E questi ottanta sono morti perché la differenza tra loro e l’ISIS non sta nella razza, come qualcuno si ostina a ritenere, ma nella visione della vita. Il corteo stava manifestando pacificamente contro la costruzione di un’importante linea elettrica che avrebbe tagliato fuori alcuni territori. Niente Allah, niente Maometto, niente Gesù, niente veli, niente religioni: la differenza tra chi rivendica un diritto giusto e chi strappa con il sangue una prepotenza.
Immagino che siano andati in tilt i cervelli di quelli che scrivono di “noi e loro” con la brama di semplificare i temi complessi e possibilmente di banalizzare il mondo per non essere costretti a dare troppe spiegazioni. Immagino che Salvini e compagnia bella non sappiano nemmeno che esistono diverse etnie non analizzabili secondo i canoni di Allah o contro Allah. Immagino che il fiore di giornalisti che ieri ha rilasciato opinioni prima ancora che ci fossero le notizie abbia sbuffato perché è una sfortuna avere tanti morti, in una geografia così complessa e per di più in piena estate sotto l’ombrellone.
Forse è per questo che oggi i saccenti non si scorgono in giro.