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La bellitudine (di Raul Pantaleo)

(L’articolo di Raul Pantaleo, l’architetto di Emergency)
Progettare in zone di crisi secondo l’esperienza che ho maturato con l’organizzazione umanitaria Emergency significa saper coniugare, anche in contesti difficili, etica ed estetica; dare risposte pratiche all’emergenza ma anche porre la questione di cosa l’edificio rappresenti in quei luoghi, quindi si deve parlare di bellezza o meglio di quello che preferiamo definire: «bellitudine» (una parola nata per caso da un errore diventato poi per noi un programma).

La «bellitudine» è qualcosa di diverso dalla bellezza, è una parola «sporca», imperfetta, che accoglie le asperità della vita, non ha l’eterea distanza della bellezza. La «bellitudine» sintetizza quello che per noi significa coniugare etica ed estetica.
Ci si stupisce sempre quando si parla di bellezza in progetti d’emergenza come quelli realizzati da Emergency, in realtà ci si dovrebbe stupire del contrario, del perché un ospedale in Africa, in un luogo di guerra, o in una tendopoli post terremoto non dovrebbe essere bello? Non vi è alcun motivo razionale alcuna giustificazione pratica. È semplicemente una questione di cultura e attenzione.
Per questo ci piace parlare di «bellitudine» perché la parola bellezza è troppo «scivolosa», chi decide cos’è bello o meno, in base a quale criterio?
«Bellitudine», invece, si toglie da questa secolare disquisizione, è qualcosa d’altro, più sottotono, modesto: è semplicemente cura delle cose, dei dettagli, delle proporzioni, amore delle persone, in sintesi rispetto. Dal rispetto non può che nascere qualcosa di bello, non può essere altrimenti.

Si è discusso per secoli di bellezza. Alla fine se ne è parlato talmente tanto che ci siamo dimenticati di cosa sia veramente la bellezza. Allora, inventare una nuova parola ci toglie d’impaccio e ci permette di tornare a parlare di bello senza tanti patemi.
In questa prospettiva i progetti «belli» partono da un principio di giustizia. Partono dal presupposto che stare in un luogo, pulito, curato armonioso, anche creativo sia una sorta di diritto.
Non è una questione di costi ma di cultura. La progettazione in zone di crisi ha a che fare con il futuro e non si può che immaginarlo migliore del presente, non avrebbe senso pensarlo altrimenti.
Il futuro ha il respiro ampio dell’utopia non ha nulla a che fare con l’emergenza, deve superarla e basta.

Sono utopie molto concrete: tre alberi in un campo profughi in mezzo al deserto, una parete colorata nel mezzo del grigio di una periferia, un edificio pulito nel mezzo del degrado che sia il post terremoto o il campo profughi, aiuterà le persone ad uscire dalla crisi, dalla disperazione, l’architettura aiuta ad immaginare un futuro (possibilmente migliore).
La «bellitudine» diventa così pratica concreta nei progetti di Emergency, parte dal rispetto delle persone, dei loro diritti di vivere in un luogo accogliente che sia nell’ultima delle periferie, in un campo profughi, o in mezzo alla nuova povertà.

(Il manifesto, 27 agosto 2016)