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Su Elena Ferrante

E questo perseverare nel tentativo di smascherare il suo anonimato vale la pena leggere Davide Coppo:

«Le ingiustizie e la violenza hanno diverse gradazioni e possono assumere temperature diverse, tuttavia è possibile dividerle in gruppi e farne un elenco. L’ossessione investigativa con cui un giornalista sceglie di violare un diritto legittimo come quello alla privacy è così diversa dall’atto con cui vengono pubblicate fotografie rubate dall’archivio iCloud di un’attrice, o un attore? Certo, l’intensità della violenza, su una scala Richter della violazione, è diversa, e un terremoto da due gradi lascia meno morti, meno feriti di uno da otto. Ma un terremoto è un terremoto.

Poi, sì, mi sono anche detto: per un quotidiano o una rivista è difficile dire di no a un pezzo simile, che promette di rivelare chi è Elena Ferrante, e lo capisco. E sarebbe ingenuo non pensare che il successo di Elena Ferrante è in parte dipendente dal mistero della sua identità, ed è naturale la volontà di svelarla. Ma tutte le cose naturali sono buone? Tutti gli istinti sono giustificabili? E se il successo di una scrittrice si basa sull’anonimato, perché non porsi il sospetto, prima di agire, che la distruzione dell’anonimato possa condurre alla distruzione del successo?

Ma non riesco a non pensare alla giustificazione di Gatti, ovvero il diritto di violare la privacy perché “Elena Ferrante” ha ammesso di non trovare peccaminoso il mentire. E la mancanza di un fine: in cosa si distingue l’atto di Gatti da quello di un paparazzo? È utile alla comunità di lettori sapere che Elena Ferrante si chiama in un altro modo, e vive a Roma, e ha origini napoletane e discendenza ebraica? È utile alla comunità di amanti del cinema vedere fotografie di Jennifer Aniston in costume da bagno alle Barbados? La risposta è la stessa.

Se fosse per Kundera, ci andrebbe pure più pesante, forse esagerando, forse no: “È una vecchia utopia rivoluzionaria, fascista o comunista, quella di una vita senza segreti”».

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