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Ah, a proposito di riforma scritta male e pensata male: a 18 anni si diventa senatori. Olè.

(di Salvatore Settis, qui)

Ma davvero la neo-costituzione modello Renzi-Boschi è il prodotto di oscuri complotti? Non necessariamente; o almeno, non sempre. Qualche esempio. Visto che il Senato non viene abolito, e conserva anzi una funzione cruciale nell’iter legislativo (specialmente per quel che riguarda Regioni, Comuni e UE), è importante vedere chi può diventare membro di entrambe le Camere che continuano a esser due.

La differenza più sostanziale è che alla Camera dei deputati resta un meccanismo elettivo, sia pure con un alto numero di “nominati”, mentre al Senato si accede per nomina dei Consigli regionali e non per elezione: e questo ormai lo sanno tutti. Meno noto è il fatto che per essere deputati bisogna avere almeno 25 anni (art. 56), mentre per essere senatori, secondo la nuova Costituzione se approvata, ne bastano 18 (l’art. 58 della Costituzione vigente, che fissava il limite di 40 anni, è integralmente abrogato).

Viene così demolita dopo 2500 anni l’etimologia della parola “Senato”, che viene dal Senatus romano, e vuol dire “assemblea dei senes”, gli “anziani”. Dobbiamo immaginare, dietro questa riforma renziana, una lobby di diciottenni impazienti di entrare al Senato? Certo che no. Semplicemente, i neo-padri della Costituzione (e della Patria) non si sono ricordati che, se senatore può diventare un consigliere regionale o un sindaco, per queste cariche il limite è a 18 anni. Nessun complotto dunque, solo un po’ di sciatteria.

Secondo esempio: mentre l’art. 67 della Costituzione vigente dice che “Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione”, nella neo-Costituzione questo è vero solo dei deputati (art. 55) e non più dei senatori. Ma non perché i senatori potrebbero essere diciottenni, bensì perché “il mandato dei membri del Senato è espressamente connesso alla carica ricoperta a livello regionale o locale” (relazione Renzi-Boschi alla legge di riforma costituzionale).

Ok. Ma il Presidente della Repubblica, secondo il nuovo art. 59, può nominare senatori per sette anni cinque “cittadini che hanno illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Quale patria? Non la “nazione”, si suppone, visto che tali “senatori per altissimi meriti” non la rappresentano.

Dovremo dunque immaginare senatori che hanno illustrato il Molise o che abbiano altissimi meriti nel Friuli? No, anche in questo caso nessun complotto: i neo-Costituenti non ci avevano pensato. Non si erano accorti nemmeno che, fra i senatori (stavolta a vita) che rappresenteranno non la nazione ma le autonomie locali ci sono anche gli ex-Capi dello Stato. Non deve essersene accorto nemmeno Napolitano, sempre attento a tenere alto il prestigio della carica, che ha controfirmato la riforma senza fiatare. La distrazione, si sa, è contagiosa.

Terzo esempio, il meccanismo di elezione del Presidente della Repubblica (art. 83). Come un missile a tre stadi, la sequenza è questa: nei primi tre scrutini i due terzi dell’assemblea (come ora), dal quarto al sesto scrutinio i tre quinti dell’assemblea anziché la maggioranza assoluta (e fin qui bene), e infine la grande novità. Dal settimo scrutinio in poi, i tre quinti non dell’assemblea ma dei votanti.

Tomaso Montanari su Huffington Post ha fatto i conti in modo impeccabile. Assumendo che l’assemblea abbia 732 grandi elettori, i tre quinti –negli scrutini dal quarto al sesto– sono 440. Ma quanti sono dal settimo in poi?

Perché la seduta sia valida (art. 64), basta che siano in aula la metà più uno dei componenti (367 elettori): e i tre quinti di 367 fa 221. In un Parlamento dove (secondo la legge elettorale vigente) il governo in carica, con relativo premio di maggioranza, avrà 340 deputati (senza contare i senatori), un numero come questo si può raggiungere tanto facilmente da relegare il Capo dello Stato al ruolo di maggiordomo del governo.

Ma non basta: nulla obbliga i 367 presenti in aula, necessari per la validità della seduta, a votare a ogni scrutinio. È dunque in teoria possibile, secondo la lettera del nuovo art. 83, che in un’aula con 367 elettori votino solo in cinque, e che il Capo dello Stato lo eleggano in tre. Succederà mai? Certo che no. Ma perché la neo-Costituzione apre lo spiraglio a una tale aberrazione?

I fautori del sì hanno dato imbarazzate risposte: chi semplicemente nega l’evidenza (e mente sapendo di mentire), chi invece sostiene che, visto che tanto voteranno tutti o quasi, questa parte dell’art. 83 non si applicherà mai. Ma se non verrà mai applicata (come tutti speriamo) perché è stata scritta e messa non in un regolamento condominiale, ma nella Costituzione?

Si tratterà anche qui di pura sciatteria? Forse. Ma perché tanti incidenti di percorso su punti così cruciali, quando poi le quasi 3000 parole della riforma scendono in alluvionali minuzie (per esempio nel definire i compiti del Senato: art. 70)? E soprattutto: siamo sicuri che una Costituzione così trasandata sia la migliore possibile? Non è forse, la negligenza nello scrivere le leggi (e a maggior ragione la Costituzione), peggiore di ogni complotto?