Stazione di Firenze. Tardi. Sono quasi le undici e si sforzano a star svegli gli ultimi treni. Quelli regionali li riconosci perché scaricano gente che non è mica arrivata: corrono per rincorrersi mentre vorrebbero essere già dentro la prossima tappa che sia un altro treno, il tram, un bus o la bici da slucchettare. I treni per Vienna invece sono animali stanchi con addosso attaccate tutte le notti passate a fare il treno, i passeggeri scendono sulla banchina per stirarsi, un comodino a forma di marciapiede delle fermate intermedie.
I treni piùà commoventi invece sono gli “alta velocità” che a Firenze cambiano anche senso di marcia e ogni volta a bordo qualcuno se ne stupisce ridendo a voce troppo alta. Dai treni ad “alta velocità” scendono a Firenze i “pendolari ad alta velocità” con i computer portatili che spuntano da una borsa chiusa di corsa; ci sono i lavoratori in trasferta con la voglia di chiedere più indennità la prossima volta; scherzano a spintoni gli studenti fuori sede; e poi ci sono quelli che sono pronti da tempo con la sigaretta infilata in bocca.
Da un treno per Salerno scende una coppia. Avranno forse ottant’anni mentre ruotano la testa come una bussola che ha perso il nord. Lei lo tiene sotto il braccio nonostante le troppe borse impigliate addosso e lui, più lento e stanco eppure protettivo, trascina una valigia che sembra avere una delle quattro ruote incastrate per come fila sguincia.
Arrivati nel centro della stazione, all’ingorgo tra chi esce e chi entra, si fermano spaesati. Lei gli dice di chiedere a qualcuno, a quel signore là che sembra una brava persona e non ha nè capelli lunghi, nè sguardo torvo e nè tatuaggi in vista. Lui osserva il candidato e poi desiste. No, no, dice alla moglie. Si va per di qua accenna con un movimento, sempre lento, della testa. E partono. Si incamminano.
Non so se sia un caso ma viaggiando molto incontro sempre anziani che sembrano voler chiedere scusa di essere ancora vivi eppure così disorientati, con la loro pudica paura di disturbare e il loro tenersi per mano. E ogni volta mi viene da pensare che abbiamo sbagliato qualcosa anche noi, se temono di disturbarci, loro: se si sentono un peso. E dovremmo andare lì e dirglielo. Si figuri, dire così, mi dica, mi chieda. Dirgli che siamo noi ad essere strani. Che siamo noi a dovergli chiedere scusa.
(questo è il mio buongiorno di oggi. Ne scrivo uno al giorno, dal lunedì al venerdì e li trovate sul sito di Left qui)