Vai al contenuto

Nessun Paese è un’isola. Proviamoci anche noi. Un’intervista a Stefano Catone.

Non sono oggettivo. Conosco Stefano e lavoro con lui per il Tour Ricostituente quindi mi porto dietro (e lo appoggio qui) il carico di stima che mi lega. Ma soprattutto invidio a Stefano l’ostinatezza con cui entra nella cose per capirle, come ne legge e ne scrive, come le rigira per osservarne gli angoli più disabitati. E il fatto che il suo lavoro finisca per diventare libro è il naturale percorso di una politica che è studio. Professionista della politica, si direbbe, nel senso alto del professare i propri valori anche nella politica.

Ascoltando Stefano parlare di immigrazione ci si rende conto, comunque la si pensi, come l’ignoranza sia sempre la migliore alleata dei furbi e dei ciarlatani. Quindi il suo libro Nessun Paese è un’isola. Migrazioni, accoglienza e il futuro dell’Italia (uscito oggi in libreria per i tipi di Imprimatur) è prezioso come sono preziose tutte le posizioni espresse con cura. Ma Catone va letto più che raccontato e quindi per il blog ha risposto ad alcune nostre domande. Eccole qui:

Tra buonismo e cattivismo c’è lo studio, il rigore e l’intelligenza nella gestione dell’accoglienza. Cosa blocca l’Italia dall’applicare una credibile politica di accoglienza?

Potrei definirlo un blocco di carattere psicologico che impedisce il passaggio da un approccio emergenziale dell’accoglienza a un approccio strutturale. Il blocco è psicologico perché per fare questo passaggio è necessario farne prima un altro, dello stesso segno: accettare che siamo di fronte a un fenomeno stabile e destinato a durare nel tempo e non emergenziale, che non si può negare, che non si può rifiutare o scaricare su altri, che non terminerà da un momento all’altro, ma di cui dobbiamo farci carico come Paese. Non fosse per spirito umanitario, è la nostra posizione geografica che ce lo impone. La scelta perciò sta a noi: fare le cose bene, traendone benefici tutti, o fare le cose male, comprimendo i diritti e lasciando spazio al malaffare.

Quali sono le responsabilità dell’Europa?

Le responsabilità dell’Europa sono molte e sono gravi: i governi dei paesi meno esposti ai flussi hanno scaricato sui paesi più esposti (Italia e Grecia) la gestione della primissima accoglienza, imponendo un sistema di identificazione assolutamente impenetrabile senza attuare un successivo piano di accoglienza su scala europea, che per ora rimane solo sulla carta, come dimostrano i numeri ridicoli del ricollocamento. Inoltre, abbiamo pensato che scaricare sulla Turchia la gestione dei flussi in cambio di soldi – di fatto bloccando in Turchia i non siriani – fosse una soluzione, mentre non si tratta che di una piccola e pessima toppa, che non elimina i problemi ma cerca solamente di allontanarli dagli occhi. Eppure sembra che questo approccio sia condiviso dai leader europei, che a più riprese si sono dichiarati favorevoli a replicare l’accordo anche con Libia ed Egitto, paesi che difficilmente possiamo definire sicuri.

Secondo te perché il cattivismo è diventato così di moda? È davvero solo paura?

Il cattivismo va di moda da sempre, perché è la strada più semplice per raccogliere consensi. Mettere gli ultimi contro i penultimi (che variano a seconda dei punti di vista) è il modo migliore per fomentare la paura, che è uno stato d’animo che non possiamo negare, ma al quale si deve rispondere con gli argomenti giusti, spiegando. Alle volte basta raccontare la verità per essere rivoluzionari.

Si continua a parlare delle colpe della disinformazione ma credi che davvero sia possibile cambiare la narrazione e invitare all’approfondimento?

Tutti abbiamo presenta la foto di Alan Kurdi, tutti. Si è imposta nella narrazione delle migrazioni e dell’accoglienza, ma neppure quella è servita: l’indignazione è durata un giorno, il tempo dei migliori esercizi retorici, ma le politiche non sono cambiate. Cosa c’è di diverso tra Alan Kurdi e i bambini respinti settimana scorsa a Gorino? Ecco, allora, che forse serve un approccio differente, che invita all’approfondimento, che fa dei dati e delle esperienze concrete il punto di partenza di una narrazione meno emotiva, ma più razionale e cosciente.

Come nasce il libro? Qual è lo scopo “politico” del libro?

Il libro nasce dall’esasperazione. Non ne potevamo più dell’emergenza quotidiana urlata sui giornali. Una contraddizione in termini a cui bisogna reagire. «Il mare si calmerà e ricomincerà l’emergenza sbarchi»: quante volte l’abbiamo sentito? Ma che emergenza è un’emergenza prevista, prevedibile e che dura da mesi e mesi? O vogliamo forse parlare dei 35 euro? Ancora oggi troppe persone pensano che finiscano nelle tasche dei migranti, mentre sono soldi che ricadono sulle comunità che li accolgono: il problema, come dicevamo all’inizio, è fare le cose bene, seguendo modelli virtuosi che portano benefici a tutti – possiamo dirlo? -, anche occupazionali.

Ieri Bergoglio ha raffrontato il tema della migrazione, molto cerchiobottista, che ne pensi?

Penso che sia incappato in una distinzione scivolosa e in una contraddizione. Nell’intervista distingue tra rifugiati e migranti economici, ma utilizzando strumenti che non hanno corrispondenza nel diritto: Bergoglio dice che i rifugiati scappano dalla guerra, dalla fame e da un’angoscia terribile, ma dimentica che secondo le categorie del diritto fame e angoscia terribile (qualsiasi cosa voglia dire) non configurano uno status di rifugiato. Ecco perché la distinzione è scivolosa, ed ecco perché dobbiamo avere il coraggio di mettere in discussione la definizione attuale di rifugiato, ampliando la sfera di applicazione al concetto di “migrazioni forzate”, che guardano perciò ai motivi della fuga, fossero anche disastri naturali o una tremenda siccità che non permetta più di coltivare la propria terra.

Come racconteresti la tua esperienza nei Balcani?

Questa estate ho svolto volontariato con Speranza – Hope for children in Serbia, in assistenza ai profughi. Un’esperienza di questo tipo è il miglior antidoto a qualsiasi cattivismo, perché si incontrano neonati in culle improvvisate, bambini che vogliono giocare a pallone, donne in stato di gravidanza, anziane a anziani. Tutti condividono questa condizione terribile di trovarsi di fronte a un muro – al confine ungherese, ad esempio – senza sapere che sarà di loro. Vivono in campi informali, che non sono altro che tende da campeggio piantate ai margini dei boschi, in condizioni assolutamente indegne. La presenza di bambini è impressionante, e allora non si può non pensare che questi bambini – oltre a essere sottoposti a condizioni inumane – non stanno ricevendo alcuna istruzione. Che futuro gli stiamo costruendo? Come possiamo non porci il problema della loro inclusione nella nostra società? Come guarderanno all’Europa quando saranno grandi?

I prossimi passi?

Diffondere ovunque una cultura dell’accoglienza che vada oltre i bei principi e le belle parole, ma fondata sulla concretezza delle esperienze virtuose e supportata dai dati, dai numeri. Insieme a Giuseppe Civati, che è il vero ispiratore del testo, proporremo da subito una campagna che entri nei Consiglio comunali, uno per uno, per diffondere l’esperienza del Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR), che guarda oltre l’emergenza e che prevede un diretto coinvolgimento dei territori sulla base di un’accoglienza diffusa che garantisce percorsi di inclusione sociale e lavorativa, tutela sanitaria, psicologica e legale, mediazione culturale: tutti servizi che – rendicontati all’ultimo centesimo, generano opportunità occupazionali qualificate per i territori ospitanti.

(il libro lo trovate anche sullo scaffale dei libri da leggere nella nostra Bottega dei Mestieri Letterari qui)